IMMIGRAZIONI IN SARDEGNA IN ETÀ MODERNA. COLONIZZAZIONE SABAUDA E DIASPORA GRECA: UNA DISCUSSIONE

Il volume di Giampaolo Salice, Colonizzazione sabauda e diaspora greca segue un fenomeno di entità quantitativa modesta, la migrazione di greci in Sardegna, ma che presenta lungo i secoli dell’età moderna varie situazioni che costituiscono dei case-studies esemplari inquadrati in una cornice storiografica collegata ai concetti di frontiera, di colonizzazione, di diaspora, ed è resa concreta da una caratterizzazione dei migranti di volta in volta quali rifugiati religiosi, mercanti, esuli politici . In effetti la Sardegna appare come un laboratorio in cui si sperimentano forme migratorie che vengono osservate non solo in se stesse, ma anche nei modi in cui provocano una reazione nelle realtà locali, che a loro volta sono differenziate dai pastori e contadini delle campagne sottopopolate, ai marinai e mercanti dei centri urbani.
Dopo un’introduzione di carattere storiografico e di contesto storico, il libro si sviluppa in quattro capitoli. Nel primo siamo tra Sei e Settecento e vediamo la diffusione dei greci nel Mediterraneo occidentale tra Sardegna, Corsica e la Minorca inglese, con spostamenti tra le singole isole che moltiplicano le possibilità di scelta della destinazione. Il problema religioso è qui centrale e il contrasto dei migranti ortodossi con la chiesa latina-tridentina ha un grosso peso nei fallimenti delle proposte “illuminate” di colonizzazione dei Savoia. Il secondo capitolo esamina il caso settecentesco della colonia di Montresta in cui l’insediamento crea insanabili conflitti con la struttura sostanzialmente feudale degli spazi rurali e con la comunità sarda della città regia di Bosa. Alla fine l’insediamento dei nuovi venuti, che sono ovviamente in posizione di debolezza, fallisce e ci sono casi di integrazione attraverso matrimoni misti. Il terzo capitolo ci porta nell’Ottocento e racconta soprattutto di un dibattito politico e intellettuale sull’immigrazione, vista ormai come un elemento della modernità incipiente. Tale impostazione si basa su un filellenismo alla moda in quella temperie di nazionalismo e moti indipendentisti, con in greci visti come portatori di civiltà rispetto all’arretratezza sarda. Siamo quindi in un dibattito tutto culturale, che sposta il problema migratorio sul piano del “discorso”. Nel quarto capitolo torniamo invece a esaminare una nuova presenza di greci di religione ortodossa in Sardegna tra Sette e Ottocento, questa volta nella realtà urbana di Cagliari dove si inseriscono nel network imprenditoriale e mercantile con attività specifiche (la produzione di cappotti della famiglia Sullioti, esuli politici) finendo con l’assimilarsi verso metà Ottocento. In queste presenze, come è tipico di quell’epoca, c’è una forte componente di immigrazione politica nel contesto complesso di politica internazionale in cui si muove il governo piemontese in cerca di appoggi e credibilità. Intanto l’indipendenza e la nascita dello stato greco non arresta la transnazionalità dei greci stessi che continuano i loro movimenti nel Mediterraneo e oltre, mentre l’arretratezza della Sardegna dei pastori stimola nuovi progetti colonizzatori di modernizzazione e di superamento del secolare sottopopolamento dell’isola.
Non è possibile riferire i dettagli di queste storie, di questi personaggi che si lasciano alla curiosità del lettore. Si possono fare delle considerazioni sull’insieme di questi casi presentati nei capitoli, iniziando da una metodologica: in questo libro i casi di presenza greca in Sardegna, tutto sommato limitati in numero e diffusione geografica, danno luogo a uno studio dove si affrontano questioni di grande prospettiva. Lo stesso titolo lo rivela presentandosi al lettore con parole come “colonizzazione” e “diaspora” che rinviano a temi complessi e discussi. Inoltre si tratta soprattutto di un libro sulla Sardegna, pur se paradossalmente la Sardegna non è menzionata nel titolo. Questa potrebbe essere considerata una soluzione un po’ ardita, ma che a mio avviso si spiega con la principale idea di fondo che sta dietro al volume, cioè quella di inserire l’isola nella rete di contatti che si stabilisce nel Mediterraneo in età moderna. Quindi un soggetto di ricerca che qualche decennio fa avrebbe potuto essere trattato in un articolo dal titolo tradizionale “La presenza greca in Sardegna nel secolo…” si sviluppa in questo caso in un libro vero e proprio dove, oltre alla ricostruzione dei singoli tentativi di stabilire colonie elleniche, si affrontano temi di fondo della storia sarda come il contrasto tra economia pastorale e agricola, tra feudalesimo e modernizzazione, tra attività mercantili-marittime urbane e rurali, oppure anche problemi legati all’identità culturale che emergono, come sempre, dal confronto tra comunità residenti e gruppi immigrati, o ancora sulle implicazioni politiche di questi episodi o programmi (la colonizzazione ha sempre una componente politica), che prendono un significato ancora più preciso con la fase risorgimentale, con migranti che sono anche esuli all’interno dei movimenti nazionalistici che coinvolgono il Mediterraneo intero e mettono in relazione i territori che vi si affacciano, come gli studi di Gilles Pécout e dei suoi allievi ci hanno insegnato.
Seguendo quindi un fenomeno “piccolo” e trascurato, l’autore ha potuto collegare con forza la Sardegna in un discorso europeo e mediterraneo. Questa è un’osservazione ma anche un ap-prezzamento che si può fare a un libro che può sembrare di taglio monografico, ricostruendo molti episodi e accennando ad altri che sono oggetto di ricerche in corso, ma che ha la capacità di evocare temi generali e di far riflettere su di essi. Quindi una ricerca di ampio spettro, lo dimostrano anche gli archivi europei frequentati, da Londra a Parigi. Possiamo vedere la questione dal punto di vista della storia dei movimenti di popolazione in Italia, ma sarebbe meglio dire negli antichi stati italiani, al plurale, mettendo in evidenza già in questo modo la transnazionalità del fenomeno.
Il caso dei greci in Sardegna si inserisce in un periodo in cui c’è una consolidata crisi delle città dalla quale si salvano solo alcune città portuali di nuova fondazione o di grande taglia (Napoli, Livorno, Trieste, Ancona). L’Italia dal Seicento in avanti è caratterizzata dallo sviluppo delle campagne piuttosto che delle città, anche da punto di vista demografico. In questa situazione le politiche di popolamento vengono portate avanti sempre più dai governi fino al Settecento e la diaspora greca si sviluppa quindi lungo questi due assi con maggior o minor successo. Come in Toscana dove una comunità greca mercantile marittima si istalla soprattutto a Livorno e dove si tentano delle colonizzazioni in Maremma (di greci ma anche con popolazioni slave come si rileva da vecchi studi di Pacifico Provasi e più recenti di Doriana Dell’Agata). Le politiche popolazioniste incontrano nell’antico regime problemi comuni. Le aree sottopopolate sono di difficile sfruttamento: anche per questo sono spopolate e, infatti, possono essere anche, paradossalmente, aree di emigrazione proprio perché povere. Un tipico esempio sono i Balcani che si dimostrano aree di partenza per povertà di risorse (insieme alla motivazione ottomana). Inoltre la scarsezza di risorse locali spinge i residenti alla resistenza ai nuovi venuti. Da qui le molte questioni e gli scontri tra interessi locali e i newcomers, specialmente quando, come in Sardegna, il processo è diretto dal potere, non si autoalimenta con la formazione di catene migratoria. La rete della diaspora che lega greci di Corsica e di Minorca non va a vantaggio dell’insediamento in Sardegna. Da qui quindi una serie di fallimenti, di tentativi e forse anche una prevalenza dei programmi di colonizzazione rispetto alla loro messa in pratica. Anche questo carattere è tipico della storia delle migrazioni. La storiografia sulla Grande Emigrazione italiana nelle Americhe tra Otto e Novecento si è inizialmente più soffermata sulla “polemica sull’emigrazione” (dal titolo di un vecchio libro di Fernando Manzotti che riprendeva le posizioni dei migrazionisti e degli antimigrazionisti) che sull’emigrazione come vicenda storica vera e propria. Anche nel caso della Sardegna c’è un pullulare di progetti che provengono dalle più diverse istanze (dall’arcivescovo di Cagliari, da un mercante francese…) che l’autore del volume ha ricostruito con attenzione e che presenta una tipologia di situazioni tipiche, di veri e propri modelli di colonizzazione: la colonizzazione di sardi (esclusa per la scarsa popolazione), di regnicoli (cioè piemontesi: una forma di colonizzazione interna allo stato ma che senza dubbio metterebbe a confronto realtà diversissime), di stranieri (i corso-greci che pur vicini sono potenziali nemici) o di stranieri tout court: appunto i nostri greci. I primi due capitoli intersecano la ricostruzione della vicenda storica e quella della compresenza e del conflitto tra progetti vari, che prevedono anche dei casi di rimigrazione tra le isole mediterranee.
L’altro fuoco del volume è quello dell’insediamento della comunità greca e di quello che potremmo definire l’immagine del greco. Come si è detto l’insediamento della comunità greca è scarso, anche se presenta una continuità resta però limitato nel tempo. Inoltre è conflittuale e si presenta in modalità diverse. Il carattere distintivo più marcato è quello religioso, cioè l’appartenenza dei migranti al cristianesimo ortodosso. Questo elemento è di particolare interesse, ad esso la storiografia recente attribuisce un peso fondamentale nel fallimento dell’insediamento, potremmo dire con parola d’attualità d’integrazione. In effetti la definizione “greco” in età moderna non rimanda a una realtà politica (semmai al mondo bizantino), ma piuttosto a un riferimento territoriale e linguistico. Fondamentale è però la definizione di greco come sinonimo di ortodosso, di “scismatico”. Quindi una identità religiosa caratterizzata dalla diversità di rito, di un rito considerato eretico dalla Chiesa di Roma e quindi condannato. Si trattava di un rito in cui non mancavano aspetti che facevano scandalo come il matrimonio dei preti. Nelle città mercantili le comunità avevano ottenuto delle deroghe alle proibizioni del Sant’Uffizio: a Venezia la libertà dei greci, molti dei quali combattevano nelle file della Serenissima, arrivava al punto di avere un vescovo “scismatico”. Ma Venezia trattava piuttosto bene i suoi immigrati (albanesi e greci) che impegnava nelle file dell’esercito. Non così avviene in Sardegna in un contesto in cui la Chiesa controriformista ha il suo peso. Fin dalla fine del Cinquecento, la Chiesa cattolica aveva intrapreso una politica di apertura verso il rito “greco” come verso gli altri riti orientali. Venivano tollerati i riti e le liturgie a patto che le comunità facessero professione di fede al papa, di adesione e sottomissione alla Chiesa di Roma. Questo rapporto, detto uniatismo, contribuisce a rafforzare l’identità di questi gruppi a definirne la differenza rispetto agli altri ortodossi scismatici. Infatti la Chiesa di Roma accetta la differenza di rito però non vuole che esso si propaghi ai cristiani di rito latino. La lotta contro la communicatio in sacris, cioè la commistione di riti, tra il greco e il latino, è la principale preoccupazione di Roma nel Levante. Se nel Vicino Oriente le disposizioni romane vengono in parte mitigate da una prassi vigente di rapporti in un mondo dove gli uniati erano frammisti agli ortodossi e ai musulmani, molto più dura era la situazione per gli italo-greci che costituivano piccole isole nel predominante rito latino, ben consolidato da una gerarchia locale. Per questo motivo per essi era difficile la pratica del culto con un prete del loro rito, oltre al fatto che mancava una gerarchia orientale e dovevano quindi convivere con quella latina, oltra al fatto che la chiesa di rito orientale si basa di più sui monasteri che sulle diocesi come luoghi di formazione del clero. Quindi i “greci” erano identificati come “altri” dai latini (un’identità “rituale”), e al contempo avevano grosse difficoltà per soddisfare le loro esigenze religiose per le liturgie (con i loro libri) e i sacramenti, assicurando un’ottemperanza ai decreti tridentini. In particolare la fondazione delle colonie greco-sarde a metà Settecento coincide con il pontificato del papa Benedetto XIV, pontefice di formazione giuridica che vuol sistemare tutte le questioni di rito (proibisce definitivamente i riti cinesi e malabarici ed emana varie encicliche sui riti orientali). Pur legato al principio dell’adesione a Roma in cambio del mantenimento del rito, egli riafferma la superiorità (la praestantia) del rito latino nella bolla Etsi pastoralis (che resta in vigore fino al XX secolo) e questo elemento ha un peso particolare per i greci d’Italia, che stanno nel bel mezzo della chiesa latina. Se la condizione era difficile per comunità italo-greche stanziate da secoli nel Mezzogiorno della penisola, ancor di più era difficile per gruppi di nuova fondazione, come si vede dalla fortissima pressione che subisce su questo punto Montresta, spingendo addirittura verso forme di nicodemismo di rito. L’importanza del problema per la Santa Sede suggerisce la possibilità di verificare se negli archivi del Sant’Uffizio romano e della Congregazione pontificia de Propaganda Fide non vi siano delle relazioni o delle richieste su questo punto che aveva notevole ricadute sociali, ad esempio in occasione dei matrimoni misti e delle strategie familiari che venivano adottate nella comunità. Del resto come emerge dal volume i greci valutavano bene il problema al punto da apprezzare il rapporto con gli inglesi a Minorca. Bisogna anche valutare come nel Settecento giurisdizionalista, lo Stato interveniva e i limiti che cercava di frapporre all’intervento romano, sulla scia del modello veneziano di stanzia-mento e assorbimento delle comunità immigrate.
Un ultimo elemento cui vorrei far cenno è la dimensione culturale evocata dalla presenza greca in Sardegna. Anche questo un tema che, da un nucleo fattuale denso ma circoscritto, prende un interesse di largo respiro, anche perché di per sé connesso agli spostamenti di popolazione. Potremmo definire questo punto come l’immagine dei greci in Italia e il discorso politico su di essi, col-legato a forme di propaganda. Significativamente questo tema è sviluppato nel terzo e quarto capitolo dove ci si sposta temporalmente soprattutto a un’epoca tra fine Settecento e prima metà dell’Ottocento, in cui dalla questione della colonizzazione ci si sposta al preponderante tema dell’emigrazione politica, degli esuli, che tuttavia finisce con l’unirsi al precedente. L’insediamento a Cagliari del primo Ottocento non è una colonizzazione diretta dall’esterno, ma è un moto spontaneo di mercanti e imprenditori, che però sono spesso anche esuli in questo clima di Risorgimento mediterraneo e quindi si tratta della tipica emigrazione per motivi politici di figure che hanno una competenza professionale o di mestiere, che contraddistingue significativamente anche l’emigrazione italiana dal Risorgimento al periodo fascista.
L’immagine dei greci rispetto a quella dei sardi è, nelle parole dei colonizzatori, ovviamente più positiva. In effetti quest’ultima somiglia molto a quella dei coloni nelle lontane Indie dove si trovavano popolazioni barbare o, nel caso dei sardi, comunque arretrate e legate al sistema feudale difeso dalla presenza spagnola. Del resto le isole e i loro abitanti sono spesso rappresentate con caratteri di barbarie, si pensi alle descrizioni della Corsica del gesuita Silvestro Landini, contemporaneo di Ignazio di Loyola, che danno origine al persistente topos delle Indie de por acá. È proprio la Chiesa che ha delle grosse riserve sui greci: nello sforzo di sottolineare la preminenza del cristianesimo latino, la tradizione romana sostiene l’inferiorità della teologia orientale rispetto a quella latina, ispirata dalla scolastica e dai suoi seguaci. Naturalmente un’immagine prefissata è in buona parte un prodotto d’invenzione e comunque rischia di diventare astorica e buona per un uso politico, come nel caso della promozione della colonizzazione sulla base della contrapposizione arretratezza-modernità (arretratezza in questo caso rappresentata anche dagli ottomani contro i quali i greci stavano lottando per l’indipendenza). All’inizio dell’800 nel contesto romantico il filellenismo prende una importanza più ampia in una sfera più politica, addirittura l’arrivo dei greci a Cagliari, come si segnala nel quarto capitolo, si associa a una Ostpolitik piemontese filorussa (in chiave antiturca), nel persistere di un collegamento fondato sul credo ortodosso. In generale poi la colonizzazione diventa nell’immaginario una ricerca di una terra della libertà che attrae i patrioticoloni. Anche qui la retorica di propaganda colonizzatrice si nutre di temi migrazionisti e politici insieme, cercando di trovare l’America nelle isole del Mediterraneo, non solo per i greci ma anche per gli stessi italiani come alternativa all’emigrazione.
In conclusione il volume di cui parliamo fa parte di una serie di studi recenti che allargano la conoscenza sulla diaspora greca nel Mediterraneo. Certamente l’approccio metodologico permette di inquadrare questo caso, relativamente piccolo nelle dimensioni demiche e costituito da progetti e tentativi (cosa che non ne diminuisce affatto l’interesse), in un contesto ampio, quello della diaspora, dei modelli di colonizzazione, degli elementi culturali, politici e religiosi legati agli insediamenti, della retorica del discorso popolazionista. Forse per questo impegnativo e fecondo allargamento dello sguardo sul tema una conclusione finale, per tirare le fila di questa ricostruzione, a un tempo di lungo periodo e di microstorie, non ci sarebbe stata male, anche se il carattere di ricerca in progress del lavoro che si percepisce nel testo, lascia ancora aperte le piste così proficuamente iniziate e ben presentate.