- Premessa
Maurizio Catani (1937-2005) può essere considerato uno dei pionieri nel campo della ricerca antropologica e dell’etnografia sociale su emigrazione e immigrazione[1]. Avendo svolto con lui diverse ricerche e condiviso anche con la sua famiglia una lunga amicizia[2], mi sembra utile ricordare l’originalità del suo lavoro per sottolinearne la rilevanza ancora attuale per la ricerca sulle migrazioni, segnalando anche le similitudini con l’opera di Abdelmalek Sayad[3]. Gli scritti di Catani rimangono quasi sconosciuti, così come quelli di altri autori che meritano tanto riconoscimento quanto quello oggi giustamente accordato a Sayad (penso, tra gli altri, a Paul Vieille e Michel Oriol[4]). Ritornare a questi autori non è un solo un doveroso omaggio a vecchi amici e colleghi, ma una rivalutazione dei loro contributi per una prospettiva multidisciplinare e in particolare per l’approccio antropologico-etnografico e la critica delle scienze politiche e sociali delle quali Catani – come Sayad – mostra come si configurino in sapere del dominio sugli emigrati-immigrati[5].
- Da studente emigrato in Francia ad antropologo-etnografo
La formazione di Catani come antropologo ed etnografo faceva parte della sua esperienza di vita. Nato a Roma nel 1937, emigrò in Francia all’età di ventitré anni, dopo aver conseguito la laurea. Era un “romano de Roma” e, quando parlava italiano, manteneva (come tanti emigrati) l’accento, ma padroneggiava con rigore il francese parlato e scritto. Di estrazione sociale relativamente agiata, la sua infanzia non fu, tuttavia, facile[6]. Suo padre Fausto Catani era un noto leader e mentore del movimento scout italiano ed europeo[7]. Tale “vocazione” non era affatto apprezzata dal nonno di Maurizio, che avrebbe preferito un figlio uomo d’affari e buon fascista, probabilmente anche dirigente del partito di Mussolini. Peraltro, il fascismo vietò lo scoutismo cattolico e anche per questo Fausto Catani prese le distanze dal regime, pur non passando all’antifascismo militante.
Anche Maurizio frequentò lo scoutismo e fu grazie alla rete europea di questo movimento che arrivò in Francia nel 1960. Si recò nel 1962 nella nuova Algeria indipendente per un’esperienza molto importante nella sua formazione (il riferimento a questo periodo è in un articolo pubblicato dalla rivista “il Mulino” nel 1964, cfr. elenco delle sue pubblicazioni alla fine). Tornato a Parigi, lavorò nel movimento ATD creato da padre Joseph Wresinski nella periferia di Parigi (in un campo precedentemente creato dal Movimento Emmaus dell’Abbé Pierre, suo fondatore[8]). È qui che iniziò a operare nel campo dell’alfabetizzazione, del monitoraggio degli educatori e del lavoro sociale. Durante questa esperienza conobbe la donna (francese) della sua vita, con la quale ebbe due figli nati e cresciuti nella regione parigina.
Inizia così a vivere e criticare il processo di “francesizzazione” di tanti immigrati. Durante questo periodo, intraprese, infatti, una profonda riflessione critica e autocritica sull’esperienza nella formazione e nell’alfabetizzazione, che restituì nella sua tesi di dottorato in sociologia del 1972 (pubblicata nel 1973). In essa mise in discussione i metodi di alfabetizzazione allora praticati (e ancor oggi in parte in uso), attingendo alla propria lunga esperienza in questo campo in Europa, Nord Africa e successivamente in Brasile (allora non si conoscevano, ma questo lavoro è in parte lo stesso svolto Sayad[9]). Insieme a una ventina di insegnanti mise in discussione l’insegnamento del francese come lingua straniera ai lavoratori immigrati che non riuscivano a frequentare i corsi, ma continuavano a chiedere di apprendere e, allo stesso tempo, erano inconsapevolmente soggetti alla relazione dominante/dominato (anche nel loro rapporto con gli insegnanti). Catani descriveva quindi l’alfabetizzazione come mezzo per inquadrare gli stranieri nel contesto dell’“ideologia produttivista”[10] dominante, lontana dagli ideali di Condorcet e dai principi dell’educazione del Fronte popolare (la sinistra francese che era stata essenziale nella Resistenza antinazista – molto più dei gollisti). Si era ancora nel pieno dello sviluppo della società industriale regolamentata da uno stato autoritario erede dell’assolutismo. Catani proponeva quindi un’analisi molto critica e severa dei metodi di alfabetizzazione) improntati dallo scopo dell’acculturazione autoritaria e quindi dalla negazione di ogni specificità culturale[11], cioè di ogni articolazione fra relativismo culturale e universalismo (che appunto spesso divideva – e divide[12]).
Nel 1980 diventò ricercatore del CNRS nel laboratorio GRECO13, poi al MNATP (Museo Nazionale delle Arti e delle Tradizioni Popolari). Lavoratore instancabile, si impegnava parallelamente in diversi campi di ricerca in Spagna, Brasile e Italia, senza abbandonare il lavoro di formatore di educatori di strada (spesso senza remunerazione). I suoi terreni di ricerca gli permisero di sviluppare la sensibilità e la capacità di comprendere i numerosi elementi che segnano la vita e il futuro dell’emigrato-immigrato, così come quella dei giovani e dei residenti delle banlieues, degli educatori e dei formatori.
Cercava sempre l’empatia con gli interlocutori che non trattava mai come oggetti di ricerca, bensì come soggetti con e attraverso i quali apprendere e costruire una conoscenza di sé, del mondo e degli altri. Il Journal de Mohamed (1973), il successivo Tante Suzanne (1982), e anche la sua esperienza in Estremadura mostrano questa qualità ancor oggi rara tra i ricercatori. I due libri, soprattutto il primo, meritano di essere studiati come esempio eccellente del rapporto rigorosamente rispettoso e paritario fra il ricercatore e la persona che racconta la sua storia di vita[13].
Oltre al suo quadro teorico di riferimento (con una relazione privilegiata alla teoria dell’individualismo moderno di Louis Dumont[14]), Catani mostrò sempre una particolare sensibilità per l’articolazione tra micro e macro, tra l’individuo e le dinamiche collettive. Affrontava le migrazioni cercando di capire la storia di ogni persona e dei piccoli gruppi (quasi come suggerisce Simmel – a proposito delle cerchie di riconoscimento sociale e morale – anche se non lo cita mai, come fa anche Sayad). Era molto critico nei confronti di coloro che abusano dei termini “comunità” o “etnia” per analizzare i gruppi o reticoli di emigrati-immigrati, nonché le cosiddette questioni di identità (aspetti del tutto presenti in Sayad). Preferiva parlare di appartenenza e “variazioni dell’identità”, come propone Oriol nel testo prima citato, con cui abbiamo lavorano per diversi anni al progetto della Fondazione Europea della Scienza.
Per Catani, non c’è migrazione in generale, ma singole storie migratorie, di individui o famiglie, storie che si articolano con reti di parentela, persone dello stesso villaggio, quindi “catene migratorie”. Catani ci fa capire che ogni emigrante ha la sua storia, segnata dalla sua socializzazione nella società di origine dove ha vissuto la sua esperienza di vita, dove ha forgiato i suoi sensi e da cui è emigrato (olfatto, udito, vista, quindi le categorie “positive” e “negative”, consapevolmente o più spesso inconsapevolmente tra pensato e impensato)[15]. Quando l’emigrante diventa immigrato, sperimenta quindi l’adattamento a un nuovo contesto (o frame, ma Catani, al pari di Sayad, non conosce Goffman e diffida dell’antropologia e dell’etnografia anglosassoni, non solo perché non parla inglese, ma per un pregiudizio allora corrente in Francia). Questo processo, secondo Catani, assume la forma di “combinazioni adeguate o inadeguate”. È una sorta di bricolage (spesso praticato inconsapevolmente) che si barcamena tra i riferimenti dell’immigrato alla cultura di origine e quelli che adotta o assimila (interiorizza) nella società di inserimento, integrazione o talvolta assimilazione. L’immigrato non può che adattarsi, “fare buon viso” anche a “cattivo gioco”; se vuole restare nel posto in cui è approdato non ha che da accettare la collocazione che gli viene assegnata e far finta di assecondare tutto ciò che gli viene detto dagli autoctoni; questa esperienza di vita produce spesso la sua inconsapevole interiorizzazione della condizione di immigrato, ossia un po’ di acculturazione autoritaria.
Dal 1983, Catani approfondisce questi aspetti teorici a partire dai suoi diversi terreni di ricerca. Mostra quindi che non esiste né una cultura di emigrato, né una cultura di immigrato. Ogni emigrante-immigrato conserva riferimenti alla sua cultura d’origine, il più delle volte costituita da frammenti della cultura popolare (folclorica) della sua specifica società locale di provenienza, insieme a frammenti di quella in cui ha trascorso la vita prima di emigrare. Non si tratta mai di un patrimonio statico, ma di riferimenti che si “combinano adeguatamente o inadeguatamente” con ciò che egli interiorizza attraverso la vita di immigrato.
La storia delle migrazioni italiane è molto lunga e varia e si può dire che include tutti gli aspetti e gli elementi che si trovano facilmente anche in altre migrazioni recenti[16]. Le ragioni, le cause, i contesti o le circostanze dei luoghi e paesi di partenza e di arrivo che hanno segnato la migrazione italiana dal Rinascimento – e in particolare nel XIX e XX secolo – sono molteplici e spesso si sovrappongono[17], sebbene tutti i migranti – come tutti gli esseri umani – siano “unici”, hanno tutti molte similitudini. I riferimenti dell’emigrante alla sua cultura d’origine (nell’accezione gramsciana), vale a dire al suo “capitale” culturale, sociale e professionale, sono il prodotto della sua esperienza di vita nella società di partenza. La vita dell’emigrato-immigrato – più di quella di chi non si è mai spostato – è una continua sperimentazione: passa da una società locale a un’altra, da una molteplicità di interazioni all’interno di un dato frame a un altro universo spesso più complesso. Che gli piaccia o no, che ne sia consapevole o meno, deve adattarsi alla “scena sociale” in cui si trova a giocare (o recitare) la sua parte (alludo qui alla metafora del teatro suggerita da Goffman). Ma, con il tempo, diventa “un’altra persona”, mette in scena anche altre “parti” o ruoli: quando torna nei luoghi di origine, non ritrova più il suo posto, soprattutto perché quelli che sono rimasti lo trattano come un estraneo (si sente “spaesato” anche nel suo paesello[18]). Allo stesso tempo, nella società locale in cui si è stabilito scopre di essere rimasto ed essere trattato come estraneo, “l’altro”, anche quando si vive come un neo-membro della società di immigrazione (Catani affronta spesso gli aspetti della duplicità e/o della contraddittorietà propria dell’emigrato-immigrato – aspetti notoriamente trattati da Sayad in diversi suoi scritti)[19]. Ci sono molti momenti nella sua vita quotidiana nei quali non si sente più un immigrato, ma tocca con mano la differenza tra sé e gli indigeni. Questi aspetti sono già presenti nel Journal de Mohamed (1973) e sono sviluppati negli scritti che Catani dedica ai “problemi intergenerazionali”. La sua elaborazione di tali problematiche, ricca e tuttavia poco conosciuta, si riflette quindi nel lavoro che affronta descrivendo e analizzando le dinamiche collettive.
- L’etnografia delle emigrazioni-immigrazioni suggerita da Catani
La ricerca etnografica di Maurizio Catani su gruppi o reticoli di emigrati-immigrati iniziò nel 1980-1981 con la sua osservazione partecipante dei ciociari che dalla fine del XIX secolo cominciarono a stabilirsi nei comuni della Val-de-Marne (Villejuif, Vitry, Ivry, Evry, Thiais, Choisy-le-Roi, Orly; altri si insediarono, invece, a Villurbane, vicino Lione). L’emigrazione degli abitanti di questa zona del frusinate[20] iniziò nel XIX secolo e continuò senza interruzione fino agli anni ‘80 con anche rientri e va-e-vieni[21]. Si trattava spesso di persone analfabete, povere e senza mestiere, che iniziarono a lavorare in Francia come manovali od operai generici; poi, dalla “seconda generazione”, riuscirono a diventare artigiani e piccoli imprenditori, nonostante un alto fallimento scolastico, aspetto comune a gran parte degli italiani in Francia[22]. Come osservava Catani, questo successo era dovuto alla loro capacità di resistere al sacrificio, alle frequenti umiliazioni e soprattutto alla loro coesione fra originari dei paeselli della Valle di Comino (reticolo che aveva come “nocciolo duro” gli originari di Casalvieri[23]). I matrimoni endogamici continuavano anche tra la quarta e quinta generazione, così come l’aiuto reciproco, i prestiti sulla parola (e a volte usura, tutto ciò in parte ancora oggi).
Nel 1984 questa ricerca fu estesa ad altri gruppi e reticoli di “italiani” della provincia di Reggio Emilia, della Val Verde / Pontremoli / Appennino tosco-emiliano, di pugliesi e lucani ecc. (ricerche svolte con il contributo del Ministero del Lavoro italiano tramite l’Istituto Santi-Francia e qualche regione italiana[24]). Dal 1984 abbiamo ricevuto finanziamenti esclusivamente da istituzioni francesi; il primo dal Ministero degli Affari Sociali per ricerche su giovani italiani, portoghesi, spagnoli, algerini che rinunciavano alla nazionalità francese[25]. Nel 1985, un progetto sugli “Scaldini de Paris” fu finanziato dal Ministero della Cultura francese. Infine, nel 1986 Catani firmò anche a nome mio un contratto con il FAS (Fondo d’Azione Sociale) e il Ministero degli affari sociali francese per la ricerca sulla socialità e l’associazionismo degli immigrati di otto gruppi nazionali (cfr. infra).
3.1 Gli scaldini di Parigi
Il caso degli “Scaldini di Parigi” è la storia sociale più affascinante scoperta da Catani. In realtà ancora negli anni 1980 la micro-storia era raramente frequentata, tanto meno dagli storici francesi che si occupavano di storia dell’immigrazione e di storia dell’immigrazione italiana[26]. Non solo, ma nessuno si era mai interessato a questi strani ritals che si intravedevano raramente e solo d’inverno (ritals era il soprannome sprezzante che i francesi avevano assegnato agli italiani in Francia, epiteto che François Cavanna adottò come titolo del suo celebre libro). Si trattò infatti di un caso raro, se non unico: circa ventidue famiglie provenienti da frazioni della Valle del Nura e del Magra (nel piacentino, vicino a Bobbio) per oltre un secolo costituirono una precisa categoria professionale, quella degli scaldini (così si definivano), rimasta sempre ufficialmente ignorata e ancor oggi ignota alla storia sociale parigina. Dalla fine del XIX secolo sino agli anni 1980 gli scaldini hanno ricaricato di carbone le caldaie di gran parte di Parigi, ripassando la sera o il giorno dopo per togliere le ceneri e di nuovo così per tutto il periodo del freddo. Giravano in bicicletta, tutti neri di carbone, fra buona parte dei condomini e degli edifici pubblici: chiese fra cui Notre-Dame, ministeri, scuole, ospedali, metropolitana, case popolari, banche, uffici vari, teatri, cinema ecc. Catani visitò i luoghi di lavoro degli scaldini e degli alvernati (auvergnats, originari dell’Auvergne) che gestivano i cafés-charbons ed erano anche i fornitori del carbone e datori di lavoro degli scaldini, tranne nei casi in cui questi erano alla diretta dipendenza del condominio o della società proprietaria dell’immobile. Ne intervistò un gran numero e ascoltò anche i vari attori sociali coinvolti: amministratori degli edifici, auvergnats, persone che incrociavano questi particolari ritals. Partecipò anche alla festa annuale che gli scaldini tenevano a Bobbio. Ricostruì così gli alberi genealogici di diverse famiglie e descrisse la noria (il va-e-vieni) di questi lavoratori stagionali che hanno praticamente monopolizzato l’occupazione dei “conduttori” di caldaie a carbone durante quasi l’intero secolo del carbone, principale fonte di energia. Raccolse le storie della loro vita quotidiana a Parigi e nella loro terra d’origine e infine quella dei cambiamenti attraverso le generazioni fino a documentare la scomparsa del riscaldamento a carbone e del suo commercio (insieme a quella delle miniere di carbone e del trionfo dell’energia elettrica prodotta dal nucleare la cui lobby in Francia diventa super potente).
La sua attenta osservazione non trascurò alcun aspetto del fenomeno e mostrò il passaggio dalla noria all’immigrazione sedentarizzata, quindi l’insediamento di alcune famiglie nella regione parigina e il “passaggio generazionale” (alcuni figli degli scaldini che si stabilizzarono diventarono artigiani o tecnici dei sistemi moderni di riscaldamento e dell’aria condizionata). Il mestiere degli scaldini scompare insieme alle miniere di carbone: si chiude un’epoca.
La ricerca sugli scaldini può essere considerata la più approfondita fra quelle di Catani sui reticoli o gruppi di emigrati-immigrati, catene migratorie, socialità, associazionismo ed aspetti economici, sociali, culturali e politici. Una ricerca esemplare dal punto di vista antropologico-etnografico che ancora oggi meriterebbe di essere ripetuta fra diversi gruppi di immigrati anche recenti in diverse realtà d’Europa e di altri paesi d’immigrazione (per esempio il caso dei Sikh che si occupano dei bovini in pianura padana –mentre altri sono schiavizzati nella zona di Latina). Questo lavoro ha beneficiato evidentemente della esperienza etnografica che Catani aveva acquisito su altri reticoli o gruppi di immigrati dal 1980, tra cui i ciociari.
3.2 La ricerca sui ciociari
Catani era diventato amico dei ciociari di Parigi, prendeva parte ai loro incontri, alle loro feste, ai loro matrimoni, alle loro cene; durante l’estate non mancava di girare nei villaggi della Ciociaria e talvolta di stare con i suoi figli a Casalvieri, il villaggio da cui proveniva il “nocciolo duro” del reticolo. Qui Catani scoprì tutti i momenti e gli aspetti essenziali per la comprensione dei conflitti, i molteplici problemi, i piaceri e le gioie rivelatori delle relazioni tra tre e talvolta quattro generazioni. Qui è anche il luogo dove approfondì il rapporto con la morte dei più anziani emigrati-immigrati: l’importanza delle tombe di famiglia, a volte molto costose, l’ostentazione della riuscita dell’emigrazione sia con la tomba di famiglia (che una volta avevano solo i più abbienti) sia con la bella casa al paesello e in Francia, dimore spesso colme di oggetti e decorazioni di un gusto da bricolage proprio di una cultura popolare inquinata dal consumo di “massa”. Lì scoprì l’importanza dei matrimoni endogamici anche dopo quattro o cinque generazioni di emigrati-immigrati ciociari: un aspetto completamente sconosciuto a una parte dei demografi francesi abituati a leggere solo le statistiche dei matrimoni fra francesi e/o misti, mentre la coppia di francesi è spesso di persone della stessa origine e magari parenti stretti. Fu grazie a questo terreno di ricerca che abbiamo compreso l’insuccesso scolastico di gran parte dei ritals, figli di analfabeti che non potevano mai integrarsi in una scuola che praticava l’acculturazione autoritaria ed è fortemente selettiva oltre che sciovinista (nos ancêtres les gaulois: “i nostri antenati sono i Galli”, si insegna ancor oggi in alcune scuole materne ed elementari francesi a tutti indistintamente); i genitori spingono allora i figli a imparare un buon lavoro per poi guadagnare molto di più degli scolarizzati e laureati. Non è infatti casuale che gli intellettuali francesi di origine italiana siano stati rari o comunque persone totalmente francesizzate sino a non conoscere nulla delle origini dei loro genitori, visto anche che l’immagine dell’Italia – paese a lungo concorrente o nemico della Francia – e degli italiani era pessima e lo sciovinismo e il razzismo francese erano forti anche nei confronti delle culture locali francesi[27].
Attraverso la ricerca sulle reti di immigrati siamo arrivati a cogliere i processi di politicizzazione, spoliticizzazione, la diffidenza o l’indifferenza nei confronti della politica[28]. Si tratta spesso di un “gioco” che comprende diversi aspetti: la posizione economica e sociale dei ciociari nella società locale di emigrazione e di immigrazione e le loro relazioni con la popolazione francese, che vive nelle stesse condizioni, i rapporti con i poteri politici locali al paese di origine e nel luogo di inserimento, l’importanza o meno del patrimonio di esperienze del passato. A ciò si aggiungevano le caratteristiche e l’attaccamento al reticolo di ciascun gruppo di immigrati. I ciociari, che provenivano da una valle quasi “senza storia” per quanto riguarda l’azione sociale e politica collettiva, oscillavano piuttosto verso la diffidenza e l’indifferenza, tranne alcuni che nel corso degli anni 1920-1930 si lasciarono manipolare da alcuni preti delle missioni cattoliche fagocitati dal partito fascista; qui si prometteva protezione degli italiani emigrati che così non avrebbero più dovuto sopportare la vergogna di una “madre patria malvagia e senz’anima” (come l’Italia era sempre stata dal 1861). Da parte loro anche gli scaldini adottarono un atteggiamento diffidente o indifferente, perché vivevano a Parigi solo sei mesi all’anno e in tutti i casi i loro interlocutori erano solo francesi; nella valle di origine non si interessavano di politica e cercavano solo di “arrangiarsi” con le autorità pubbliche locali. A loro volta, molti italiani – reggini, emiliani e di altre zone d’Italia – fuggirono dal fascismo e in Francia diventarono nella maggioranza dei casi comunisti e persino partigiani (i reggini e toscani furono i più numerosi nel reticolo dell’Affiche Rouge di Manouchian e quindi fra i partigiani che liberarono Parigi il 25 agosto 1944[29]). È da questi partigiani che provenivano alcuni dei leader del PCF e della CGT, persone che, di fatto, avevano quasi completamente tagliato i legami con le loro origini e con le associazioni che si riferivano alla loro regione di origine. Nel corso del tempo, la maggior parte dei rifugiati antifascisti in Francia sembrò spoliticizzarsi, anche se nessuno di loro dimenticò quale fosse l’orrore del fascismo e del nazismo e ovviamente il loro impegno. Questa “evoluzione” spesso coincise col cambiamento netto della loro condizione economica e sociale: sono diventati “borghesi”.
3.3 La ricerca su associazionismo e socialità degli immigrati in Francia
Le esperienze di ricerca sulle reti degli italiani ci hanno poi permesso di realizzare una delle più importanti ricerche francesi ed europee sull’associazionismo [30]. I tre volumi del rapporto finale di questo studio contengono un’analisi generale del “fenomeno”, capitoli per ogni origine nazionale, piccole monografie di alcune associazioni, come studi di caso con la storia sociale dello specifico gruppo che le costituisce, le dinamiche delle forme di aggregazione, la “socialità” e quindi il passaggio del reticolo o del gruppo “informale” di parenti e originari dello stesso comune (il “nucleo duro” derivante da una specifica catena migratoria) sino all’associazionismo formale. Questa “evoluzione” si situa in particolare nel periodo in cui le regioni italiane si interessano a coltivare le relazioni con i loro emigrati e quindi favoriscono la formazione di associazioni regionali che così ricevono qualche piccolo beneficio.
A parte allora le difficoltà personali di Catani e mie[31], questa ricerca fu poco valorizzata innanzitutto perché si concluse in una congiuntura piuttosto sfavorevole a una rielaborazione soddisfacente. L’agenda politica francese fu sconvolta dalle “rivolte” nelle banlieues e dal cosiddetto “fenomeno Le Pen”. La nostra ricerca apparve allora come un lavoro sul “passato” e sembrava inutile rispetto alle aspettative socio-politiche di quegli anni. In altre parole, la razzializzazione e in particolare la criminalizzazione razzista dei giovani delle banlieues (e non solo di quelli di origine immigrata) e la loro configurazione come posterità inopportuna non furono spiegati[32]. La ricerca dava troppo spazio alle immigrazioni considerate ormai “ben inserite” (italiani, portoghesi, spagnoli e asiatici) e alle associazioni di “primo migranti”, dandone meno alle dinamiche dei giovani, ad eccezione che per la distanza o l’incomunicabilità tra loro e le loro famiglie. Noi non avevamo ancora ben capito le conseguenze del neoliberismo e in particolare la fine del tradizionale assimilazionismo che era stato funzionale alla società industriale. Tuttavia, in quella ricerca, incrociando i risultati con i dati di altre (quella sui giovani che rinunciano alla nazionalità francese e quella sul disagio giovanile in alcune banlieues ben note a Catani e a me stesso), si osservava ormai chiaramente lo sconvolgimento dovuto alla fine della società industriale. I quartieri popolari creati per riprodurre manodopera per la grande e media industria e i servizi diventavano di fatto entità senza ragion d’essere e i figli degli immigrati si configuravano come posterità inopportuna (idea chiara già a Catani e a me a seguito dell’inchiesta nella zona di Pierrelaye e successivamente discussa da me e Sayad in una sua conferenza al seminario all’IUE nel 1993).
- I più importanti suggerimenti teorico-metodologici proposti da Catani
Ecco ora una sintesi dei suggerimenti che potremmo considerare come i principali contributi di Maurizio Catani anche allo studio delle migrazioni contemporanee.
4.1 Adattamento “adeguato o non adeguato”
L’“adeguato o inadeguato” adattamento degli immigrati alla società locale di arrivo è innanzitutto una sorta di bricolage culturale che gli immigranti praticano di solito inconsapevolmente[33]: un miscuglio, a volte riuscito e in altri momenti occasionale, di frammenti della loro cultura folclorica di origine e di altri della cultura locale con la quale interagiscono. In realtà, l’emigrato-immigrato, come ogni altro essere umano, è ovviamente costretto ad adattarsi a contesti sempre nuovi, ma è anche probabile che questi riferimenti si indeboliscano, scompaiano o vengano ricodificati, oppure si trasformino. Attraverso i risultati delle nostre ricerche, Catani e io criticammo già allora la tesi del “trapianto”, del “trasferimento” o della “riproduzione di villaggi” da parte degli immigrati nelle realtà d’immigrazione. Mostravamo che questa lettura era superficiale[34], così come lo era la tesi della “socializzazione anticipatrice” che postulava l’idea di una completa integrazione e assimilazione degli immigrati nel proletariato industriale[35]. Anche l’immigrato che sembra saldamente attaccato al mantenimento dei legami e degli elementi apparentemente identici a quelli che fanno parte della sua esperienza di vita nella sua società di origine (per esempio, il santo patrono del paese d’origine, i pranzi e le cene tra parenti e amici della stessa origine, le abitudini culinarie ecc.) infine non fa che ricodificare tutto nel suo nuovo essere sociale, quello dell’emigrato-immigrato e non più quello di un membro della sua società di origine. Ad esempio, l’emigrato-immigrato prega il santo patrono del suo villaggio non per gli stessi auspici od obiettivi che aveva nella società di origine, ma per quelli che servono per meglio affrontare le difficoltà o le sfide proprie alla sua situazione di emigrato-immigrato, quindi per la sua riuscita economica e sociale nella società locale di immigrazione e anche per avere abbastanza soldi per rifare la casa e la tomba di famiglia al paesello, come prove del suo successo da mostrare a quelli che sono rimasti. E con Catani apprendiamo che va smitizzata la visione angelica della solidarietà e fedeltà tra emigrati-immigrati, tra loro e quelli che sono rimasti nel villaggio di origine, o con gli amici della stessa nazionalità o di altre nazionalità conosciuti nella società di immigrazione (che non è mai stata e non sarà mai la “società d’accoglienza” – formula sempre osteggiata da noi come da Sayad). La legge del do-ut-des è dominante e non deve essere trasgredita. I parenti possono essere “serpenti”; si sa che chi arriva per ultimo deve battersi, cominciando con l’accettare il peggio, ponendosi al rango più basso della scala sociale, sperando di acquisire la capacità di farsi strada verso la riuscita. Sarà certamente aiutato, ma dovrà meritarselo e restituirlo spesso con interessi di diverso tipo, non solo materiali. La gerarchizzazione sociale è spietata e l’immigrato-emigrato la sperimenta sulla sua pelle e spesso la pratica nei confronti di chi arriva dopo.
Inconsapevolmente l’emigrato finisce per considerare chi è rimasto al paese quasi come un vigliacco, una persona che non ha avuto il coraggio di sfidare l’emigrazione e l’immigrazione; a sua volta, colui che è rimasto pensa che l’emigrante sia un po’ “pazzo” o non molto “intelligente” o anche che sia lui il traditore perché ha scelto di fuggire le difficoltà, piuttosto che rimanere a condividere le pene ma anche le gioie della sua comunità di nascita. In queste relazioni entrano spesso in gioco anche questioni materiali: l’emigrato accusa chi è rimasto di approfittare della sua assenza per rubargli alcuni beni, un pezzo di terra, una parte dell’eredità ecc. In realtà, al fondo c’è la divaricazione netta fra persone coinvolte in due diverse esperienze di vita: gli uni e gli altri sono cambiati ma ognuno a modo proprio e in contesti e dinamiche diverse.
4.2 La formazione del reticolo o del gruppo
La formazione di un reticolo o di un gruppo di parenti e persone dello stesso paese di nascita è notoriamente il prodotto di una specifica catena migratoria che collega un luogo di partenza a un luogo di arrivo, l’organizzazione politica di una società locale a un’altra, non due Stati, né due nazioni (chi usa questi termini e quello di patria o nazione per parlare di origini degli immigrati ignora ogni elementare conoscenza antropologica). Molto spesso gli emigrati-immigrati conoscono poco del sistema statale del loro paese e di quello del paese di arrivo (diversi nostri intervistati emigrati clandestinamente – a piedi – fra le due guerre mondiali o ancora negli anni 1950 non avevano mai saputo nulla di questure, passaporti ecc.).
Con Catani (come con Sayad) apprendiamo la critica dell’abuso dei termini “comunità” ed “etnia” non solo perché nel caso degli italiani sembrano assolutamente inadeguati, quanto perché gli emigrati-immigrati appartengono principalmente a un reticolo o a un gruppo o sono individui soli; non sono segnati dall’appartenenza nazionale che essi dichiarano e/o si attribuisce loro, come una nominazione autoritaria o uno stigma. (“tu sei italiano?” “tu sei cattolico?”; è ovvio che la maggioranza dei nati in Italia risponda sì; ma una tale risposta non autorizza a dedurre un’identità nazionale e religiosa effettiva). La società di arrivo non è per nulla accogliente e non promuove l’integrazione. Nei fatti, gli immigrati che non hanno sufficienti risorse e hanno la sfortuna di imbattersi in ambienti ostili sono costretti a rinchiudersi nel loro reticolo che a volte diventa una vera e propria “gabbia”. La stessa origine del reticolo di immigrati è sempre il risultato di una “comunità di intenti” (convenienza, ma anche cultura in divenire dell’emigrato-immigrato) tra il suo leader o notabile o capo e i suoi membri. Il leader deve avere la capacità di prendersi cura dei bisogni e interessi dei membri del suo gruppo e non solo dei suoi; tutti sanno che trarrà beneficio dal suo ruolo, ma quasi tutti riconoscono che lo merita perché è sempre disponibile ad aiutare gli altri. Quasi tutti i membri del gruppo beneficiano anche della sua ascesa sociale. Questo leader può, a volte, assumere un atteggiamento paternalista o “pastorale”, o quello del power-broker (mediatore commerciale, mediatore sociale e mediatore di potere, secondo Blok, 1974[36]). Queste considerazioni furono rivedute da Catani in diversi suoi testi sui ciociari e su diversi gruppi di immigrati italiani e di altre nazionalità[37].
4.3 Il gioco della “bilateralità dei riferimenti e della reversibilità delle scelte”
Il gioco dei riferimenti e la “bilateralità e reversibilità delle scelte” è una tattica dei leader o capigruppo di immigrati che hanno già raggiunto un certo successo economico e sociale che può anche essere la base per un successo o carriera politica[38]. Questo è possibile quando il gruppo di immigrati-emigrati è in grado di acquisire peso sia nella società locale di origine che in quella d’immigrazione stabile. Oggi, questo gioco è praticato – soprattutto a livello locale – anche da gruppi di altre nazionalità (portoghesi e marocchini) e, sebbene ancora a livello embrionale, da gruppi di immigrati più recenti in Italia (compresi gli albanesi[39]) e altrove (ad esempio, Belgio, Paesi Bassi, Germania e Canada). Gli interlocutori di questo gioco sono prima di tutto le autorità politiche o amministrative locali dei due poli (la società locale di origine e quella locale d’immigrazione) e anche le banche, le società immobiliari o di trasporto, commercio e altri ancora. L’approdo all’associazionismo formale (in Francia con la legge del 1901) come espressione di un gruppo o di un reticolo di emigrati-immigrati si compie quando il successo economico e sociale raggiunge un livello relativamente importante; ciò induce a cercare una sua traduzione in rendita politica che, a sua volta, rilancia il successo economico. Così, il gioco dei riferimenti bilaterali e della reversibilità delle scelte consiste nel mettere in concorrenza gli enti locali delle due società di origine e di immigrazione rispetto alle facilitazioni o ai benefici che gli emigrati-immigrati chiedono in cambio degli investimenti dei loro risparmi. Ovviamente è un gioco che attraversa anche ogni famiglia di emigrati-immigrati e serve a tenere insieme più generazioni e il patrimonio nelle due società locali. La festa annuale dell’associazione serve a riunire il più alto numero di persone della stessa origine, ma anche gli amici della società di partenza e di quella d’immigrazione, così come le autorità locali e talvolta anche nazionali dei due poli. La capacità di mobilitazione di un gran numero di persone serve a mostrare il peso sociale, economico ed elettorale accumulato e che può essere investito “qui o là”.
4.4 Il mal stare o malessere dell’immigrato-emigrante.
Il “mal stare” o il malessere dell’emigrato-immigrato cresce quando diventa vecchio, quando non può più essere attivo e sentirsi “indispensabile”; si manifesta sia nella società locale di immigrazione che in quella di origine. Catani ha dedicato molta attenzione a questi aspetti durante la sua esperienza nell’alfabetizzazione, nel lavoro con Mohamed, con Tante Suzanne e poi con i pensionati ciociari[40]. È in questa ricerca che analizza i problemi delle relazioni tra genitori e figli e tra nonni e nipoti. Sottolinea allora l’importanza dell’andare avanti e indietro dei vecchi migranti che sono a disagio ovunque e che continuano a muoversi e raccontarsi l’un l’altro che la loro mobilità è fondamentale per fornire a figli e nipoti le “vere cose buone” del paese. Inoltre, questa mobilità appare “indispensabile” per sorvegliare la proprietà che la famiglia mantiene al paese e, naturalmente, per “salvaguardare la famiglia”, vale a dire gli elementi simbolici e materiali di “tutto ciò che siamo e che siamo riusciti a fare”. Questo fenomeno è comune a tanti pensionati emigrati-immigrati di diversi gruppi o reticoli italiani e anche di altre nazionalità. È per esempio assai sorprendente il numero di pullman che partono ogni settimana dalle diverse province italiane (persino dall’interno della Sicilia), raccolgono i vari pensionati con valige, trolley, scatole e scatoloni nei vari paesini e li portano nei diversi comuni dove stanno figli e nipoti (al nord Italia, in Francia, in Germania, in Belgio).
- L’inevitabile progressiva estinzione delle entità sociali costituite da immigrati-emigranti
La storia sociale dell’emigrazione italiana è paradigmatica: con il passaggio da una generazione all’altra, i collegamenti, i riferimenti di ogni genere con le origini possono solo indebolirsi e scomparire. Questa tesi oggi sembra essere messa in dubbio dal rinnovo o dalla “riscoperta” delle origini da parte dei giovani delle ultime generazioni. Tuttavia, tali “scoperte” non sono reali ricostruzioni di collegamenti e riferimenti culturali, ma al massimo un elemento successivo da aggiungere all’immagine che ci si costruisce e con il quale si può giocare nel “mercato” della rappresentazione pubblica. Anziché tirare in ballo l’identità (termine ambiguo, abusato e discutibile[41]), nel caso di emigrati-immigrati, è probabilmente più ragionevole parlare di processi di variazione nell’appartenenza e di combinazioni appropriate e/o inappropriate di riferimenti a frammenti di culture locali, come suggerito da Oriol e Catani. L’emigrato-immigrato che passava da un paese sottoposto a forte dominio statalista e/o nazionalista a un altro paese non meno oppressivo (fino all’acculturazione autoritaria e violenta) ebbe ben poche possibilità di coltivare i riferimenti alla sua cultura di origine come capitale culturale valido per essere rispettato. Nel contesto dello pseudo melting pot statunitense l’etnicizzazione degli immigrati (e quindi la loro configurazione come gruppi etnici comunque sempre fedelissimi alla nuova patria che è la prima potenza mondiale) è sempre servita alla gerarchizzazione sociale[42]. Chi lasciò l’Italia fascista e arrivò nella Francia sciovinista (di destra e di sinistra) o assimilazionista oppure negli Stati Uniti, non poteva valorizzare nulla delle sue origini povere, che non avevano alcuna possibilità di essere apprezzate. Questo è ad esempio il caso degli originari della Ciociaria o delle aree rurali della maggior parte d’Italia fino agli anni Ottanta e lo stesso vale per molti altri paesi d’emigrazione. E ricordiamo che sino alla fine degli anni 1950 tutta l’Italia era un paese povero. Abbiamo intervistato emigrati anche dalla Bergamasca, dal Veneto e dalla Lunigiana che arrivarono a piedi sino alla regione parigina cercando qualche lavoretto e un giaciglio nei pagliai strada facendo.
Oggi, al di là dell’omologazione, la mondializzazione si combina anche con la cosiddetta glocalizzazione, lascia cioè alcuni spazi (spesso funzionali al neo-liberismo) per il locale, il folclore, il “micro”, mentre le identità nazionali tradizionali hanno perso il loro potere di coercizione per schiacciare e negare appartenenze specifiche. Persino in Francia emergono le rivendicazioni localiste non solo in Corsica, ma anche in Bretagna, Normandia, Occitania, ecc., fatto inimmaginabile ai tempi della doxa sciovinista della grandeur gallista (dal gallo simbolo della Francia machista e misogina). Ma perché i bambini di terza o quarta generazione dovrebbero appassionarsi a ricostruire le relazioni con le società di appartenenza dei loro antenati? A parte qualche raro caso spesso mescolato a varie convenienze o altre utilità (per esempio il successo del cosiddetto ethnic business), la reminiscenza rimane astratta, simbolica, effimera e piuttosto vaga: una specie di “ciliegina sulla torta” quando può “funzionare”. Questo sembrano mostrare le personalità di origine straniera che in realtà non hanno più alcun collegamento con la vita reale del reticolo di immigrati a cui appartenevano i loro antenati. È il caso delle celebri star di Hollywood e altri personaggi celebri anche in Francia che oggi scopriamo essere di origine italiana … ma negli anni 1950, 1960 e anche 1970 e 1980 nessuno di loro rivendicava la propria origine italiana: Cavanna con il suo libro Ritals suscitò scandalo – o compassione – sia tra i francesi che tra gli italiani. E non è un caso che lo pseudo revival degli italiani oggi a Parigi si rivela di un’estrema superficialità e in particolare mostra che i cosiddetti “nuovi emigrati-immigrati” non hanno alcun rapporto con la “vecchia” immigrazione della quale non sanno nulla[43]. A questo si aggiunge un basso tasso di partecipazione alle elezioni nazionali ed europee e anche a quelle delle rappresentanze degli emigrati nelle diverse circoscrizioni elettorali e ciò in tutti i paesi del mondo[44]. In altre parole, a parte l’occasionale o strumentale riferimento alle origini, appare evidente che gli emigrati italiani continuano a essere quasi del tutto inesistenti nella scena socio-politica italiana.
- A proposito di alcune similitudini e differenze fra Catani e Sayad
Catani e Sayad non hanno avuto il tempo di studiare lo sviluppo esasperato del proibizionismo e della criminalizzazione razzista delle migrazioni che conosciamo dal 1990 e soprattutto a partire dal 2001[45]. Tuttavia, entrambi hanno visto le analogie tra le emigrazioni-immigrazioni conosciute fino alla fine degli anni 1970 e le successive e hanno osservato i rischi, le sanzioni, la fatica e i costi morali e materiali, l’inserimento e quindi l’integrazione economica e sociale, il difficile e lungo percorso per sfuggire al razzismo e raggiungere una condizione economica e sociale accettabile e, ancora, le difficoltà dell’integrazione dei figli. Ma mi pare evidente che non avrebbero mai immaginato come la guerra alle migrazioni possa sussumere tutti i disastri sanitari, ambientali ed economici che il neoliberismo ha provocato e che in questo primo quarto del XXI sec. esplodono[46].
A proposito delle differenze fra questi due grandi antropologi-etnografi (e non banali sociologi) la principale riguarda due scelte di ricerca diverse: Catani spazia su terreni di osservazione che non si limitano a diversi gruppi immigrati, ma sconfinano in ambiti più classicamente antropologici (Spagna e Italia), prediligendo sempre l’approccio micro con alcune riflessioni teoriche ancorate alle sue ricerche empiriche. Da parte sua, Sayad si è sempre orientato al campo di ricerca degli algerini, ma nell’ultima fase della sua vita ha prodotto una riflessione teorica che, sebbene implicitamente facesse riferimento costante al suo lavoro empirico, assunse una portata filosofico-politica (soprattutto su immigrazione e pensiero di stato). Entrambi hanno dato un contribuito rilevante alla critica della “scienza dell’emigrazione-immigrazione”. Catani resta sempre ancorato al suo riferimento a Dumont e non cita quasi mai i classici delle scienze sociali. Sayad è chiaramente ancorato a Bourdieu e a sua volta non cita quasi mai i classici delle scienze sociali, anche se alcune sue riflessioni fanno pensare immediatamente a Mauss e a Foucault (di cui era quasi coetaneo)[47]. Entrambi ignorano la “prima” scuola di Chicago dei Park, Thomas, Znaniecki ecc. e poi Goffman, anche se ne hanno sentito parlare.
Ma la lacuna che oggi appare più evidente è che entrambi non affrontano alcuna apposita ricerca sul razzismo, sulle polizie, sulla devianza e la criminalizzazione degli immigrati e non sembrano interessati al confronto con l’immigrazione nelle Americhe e poco a quello con gli storici e gli affari militari (anche se ovviamente sono consapevoli dell’importanza di questi ultimi nella storia delle diverse migrazioni). In realtà questa lacuna è insita nel contesto delle loro ricerche: prevaleva allora il “paradigma” dell’emigrazione-immigrazione per la “prosperità e la posterità” soprattutto della società di immigrazione e un po’ di quella di emigrazione; non c’era quindi una politica e una pratica di proibizionismo delle migrazioni (che si innesca dal 1990 in poi), anche se lo “stop” fu decretato dagli economisti dell’OCSE già nel 1973-1974. È quindi ovvio che sia il razzismo che il rapporto polizia-immigrati non apparissero allora particolarmente rilevanti come lo sono oggi. Tuttavia, c’era in entrambi gli studiosi anche una certa reticenza ad affrontare questi aspetti quasi perché non fosse opportuno parlare di fatti che avrebbero potuto accrescere l’immagine negativa che comunque era sempre riservata agli immigrati. E questo era ancora più evidente in Sayad che, fra l’altro, non voleva scrivere sull’Algeria “per non dare soddisfazione ai francesi” (e perciò mi chiese di pubblicare solo in italiano il libro sull’Algeria[48]).
Purtroppo, sono mancati entrambi troppo presto per gravi malattie e dopo la loro morte uno è stato del tutto dimenticato (Catani) e l’altro un po’ “santificato” giusto per metterlo in una teca come reliquia, tant’è che si può constatare che le nuove leve di ricercatori sull’immigrazione citano Sayad a sproposito.
- Conclusioni
Catani ha contribuito a sviluppare la ricerca sull’emigrazione-immigrazione, prestando attenzione agli elementi e agli aspetti più piccoli spesso non evidenti. La sua visione “disincantata” è la stessa di quella degli emigrati-immigrati che “giocano” con il loro bricolage culturale, la loro bilateralità e reversibilità delle scelte e la gestione dei passaggi intergenerazionali. Ha descritto il dominio subito dagli immigrati e la loro interiorizzazione di questa situazione, senza populismo o ambizioni filosofico-ideologiche. Ha svolto la sua ricerca attraverso l’osservazione partecipante, interviste e note di campo, ma tutto ciò non ha nulla di una qualsivoglia militanza, di una fabbricazione o di una “scoperta” della verità o addirittura di una “nuova” teoria. Catani amava la ricerca sul campo e diffidava delle teorizzazioni e dei rischi propri dei teoremi ideologici. Era sempre molto scrupoloso nella presentazione dei risultati del suo lavoro ai suoi interlocutori del campo di ricerca empirica, dando loro l’opportunità di diventare coautori come Mohamed e Tante Suzanne. Per certi versi, Catani era un maledetto individualista, ma era anche estremamente attento e rispettoso sia con i colleghi con cui ha lavorato sia con le persone che ha incontrato sul campo. Come ogni ricercatore segnato da onestà intellettuale, non sopportava e cercava sempre di sottrarsi ai vincoli dei committenti della ricerca, ma era contento quando non potevano criticarlo vista la serietà del suo lavoro. Ha sempre rifiutato di essere prescrittivo o di giocare il ruolo del “consigliore del principe”. Era molto orgoglioso e non ha mai chiesto di essere “raccomandato”. Il fatto di essere italiano, di porsi sempre contro il mainstream delle scienze sociali e di non avere mai avuto patron non l’hanno certo favorito nel mondo della ricerca francese e nella carriera. Con Goffman, possiamo dire che sulla scena della ricerca, Catani figurava come un “cavaliere solitario”; non faceva parte di alcuna cerchia accademica. Inoltre, a parte i più vecchi ricercatori che lavorano ancora sulle migrazioni, rimane troppo poca memoria dei contributi importanti di autori frequentati da Catani e Sayad, alludo in particolare a Paul Vieille e Michel Oriol.
Principali pubblicazioni di Catani
In spagnolo
Catani (1981), Hambre, mendicidad, usura en la «Tierra sin pan» filmada por Buñuel en 1933 y, finalmente, gastronomía, disponibile a http://www.dip-badajoz.es/cultura/ceex/reex_digital/reex_LV/1999/T.%20LV%20n.%202%201999%20mayo-ag/53592.pdf.
Catani (1983), El estatus del habla local en relación con la lengua nacional: el caso de Las Hurdes (Cáceres, España), in Human Migrations IV, Status of Migrants’ Mother Tongues, a cura di Louise Dabene, Monique Flasaquier, John Lyons e Santiago Mancho, Strasbourg, ESF, pp. 55-66.
Catani (1987), La comarca de Las Hurdes, una sociedad local entre herencia y maldición, “Revista de estudios extremeños”, 43, 3, pp. 685-698.
Catani (1989), La invención de Las Hurdes: una sociedad centrada en sí misma, Merida, Editora regional de Extremadura, 32 p.
Catani (1999), Las Hurdes como imagen de una sociedad local en transformación, “Revista de estudios extremeños”, 55, 2, pp. 605-632.
In francese
Catani (1970), Médiation dans/pour la liberté. Essais d’alphabétisation. Livrés à des mots qui les trahissent, Pierrelaye, Éditions Science et Service, 314 p.
Catani e Mohamed (1973), Journal de Mohamed: un algérien en France parmi huit cent mille autres, Paris Stock, 225 p.
Catani (1973), L’alphabétisation des travailleurs immigrés: une relation dominant-dominé, Paris, Tema Éditions, 386 p.
Catani et Suzanne Mazé (1982), Tante Suzanne. Une histoire de vie sociale, Paris, Librairie des Méridiens, 474 p.
Catani e Claudette Dehlez-Sarlet (a cura di) (1983) Individualisme et autobiographie en Occident, Bruxelles, Éditions de l’Université de Bruxelles, 344 p.
Catani (1983a), Quand on change de pays il faut changer de drapeau, in UNESCO, Vivre dans deux cultures: la condition socio-culturelle des travailleurs migrants et de leurs familles, Paris, UNESCO, pp. 183-257.
Catani e Robert Berthelier (1983), À propos de la psychopathologie de la transplantation. Considérations relatives au cas des migrants, de leurs enfants et à l’impossible retour des enfants dans le pays des parents, in Human Migrations III, Psychopathology of the Transplantation of Migrants, a cura di Maria Beatriz Rocha-Trindade, Marie-Antoinette Hily e Monique Flasaquier, Strasbourg, ESF, pp. 85-100.
Catani (1983b), L’identité et les choix relatifs aux systèmes de valeurs, “Peuples Méditerranéens”, 24, pp. 117-126.
Catani (1983c), Une hypothèse de lecture des relations entre parents et enfants: émigration, individualisation et réversibilité orientée des choix, in Identité et culture: hypothèses théoriques et perspectives interdisciplinaires dans l’étude des communautés italiennes en France avec particulière attention aux jeunes, Rapport, Strasbourg, ESF, pp. 27-52.
Catani e Palidda (1984), Analyse des motivations des personnes qui déclinent la nationalité française par le jeu de l’art. 45 du Code de la Nationalité, Paris, Direction des populations et des migrations, Ministère des Affaires sociales, 210 p.
Catani (1984a), De l’enseignement centré sur l’écoute et l’expression de soi à l’approche biographique orale, “Éducation Permanente”, 72-73, pp. 97-119.
Catani (1984b), La réversibilité des références aboutit à une forme extrême d’individualisme, in Les variations de l’identité: étude de l’évolution de l’identité culturelle des enfants d’émigrés portugais, en France et au Portugal, a cura di Michel Oriol, Nice, IDERIC-Université de Nice, pp. 248-282.
Catani e Giovanna Campani (1985), Les réseaux associatifs italiens en France et les jeunes, “Revue Européenne des Migrations Internationales”, 1, 2, pp. 143-160.
Catani (1985a), Associationnisme immigré, projet familial et projet de vie, “Peuples Méditerranéens”, 31-32, pp. 125-135.
Catani (1985b), La réversibilité des choix, des appartenances étudiées à travers les associations d’immigrés italiens en France, in Les réseaux associatifs des immigrés en Europe Occidentale, a cura di Michel Oriol e Marie-Antoinette Hily, Poitiers, Études Méditerranéennes, pp. 42-48.
Catani (1985c), Mariage à l’algérienne ou la transmission des valeurs des parents aux enfants: combinaisons adéquates ou inadéquates, in Les Algériens en France: genèse et devenir d’une migration, a cura di Jacqueline Costa-Lascoux e Émile Temime, Paris, Publisud, pp. 237-253.
Catani et Pierre Verney (1986) Se ranger des voitures. Les mecs de Jaricourt et l’auto-école, Paris, Librairie des Méridiens-Klincksieck, 199 p.
Catani (1986a), Le transnational et les migrations, “Peuples Méditerranéens”, 35-36, pp. 149-164.
Catani (1986b), Les migrants et leurs descendants entre devenir individuel et allégeance chthonienne, “Cahiers Internationaux de Sociologie”, 81, pp. 281-298.
Catani (1986c), Les Scaldini de Paris: un métier transmis de génération en génération depuis la Première Guerre mondiale, Paris, Ministère de la Culture et du Patrimoine, 145 p.
Catani, Campani e Palidda (1987), Italian immigrant associations in France, in Immigrant associations in Europe, a cura di John Rex, Danièle Joly e Czarina Wilpert, Gower, Aldershot, pp. 166-200.
Catani e Palidda (a cura di) (1987), Le rôle du mouvement associatif dans l’évolution des communautés immigrées, Paris, FAS-DPM, 548 p.
Catani (1988), Je suis émigré, où doit-il être inhumé mon corps ? Des individus qui entendent fonder une transcendance, in Le lien social: identités personnelles et solidarités collectives dans le monde contemporain, Actes du 13ème colloque, 29/08-02/09, Genève, AISLF, pp. 718-734.
Catani e Palidda (1989), Devenir Français: pourquoi certains jeunes étrangers y renoncent?, “Revue Européenne des Migrations Internationales”, 5, 2, pp. 89-106.
Catani (1989a), À propos du cycle migratoire italien en France. Contraste entre sous-courants migratoires récents et anciens, “Revue Internationale d’Action Communautaire”, 21-61, pp. 125-136.
Catani (1989b), De la Marseillaise à la jeunesse beur, L’identité française, Copenhague, Université de Copenhague, Centre de Recherche en Sciences Humaines, Akademisk, Forlag, 3 p.
Catani (1989c), Des familles maghrébines dans une ville nouvelle de la région parisienne, “Espaces et Sociétés”, 56, 1-3), pp. 52-74.
Catani (1992a), Les collectivités italiennes à l’étranger et les “Comitati degli Italiani all’Estero”, “Social science information”, 31, 2, pp. 311-331.
Catani (1992b), Entre oubli et souvenir une dimension européenne de l’associationnisme immigré, ”Ethnographie française”, 23, 2, pp. 215-226.
Catani (1996), Face aux porte-bonheur, aux amulettes et aux gris-gris, certains éducateurs sont désemparés. Interactions et coprésences, “Migrants-Formation”, 107, 12, pp. 40-61.
Catani (1997), Des éducateurs spécialisés et leur perception du “travail de rue”, “Espaces et sociétés”, 90, pp. 19-42.
Catani, Patrick Prado, Anna Tricaud, Thierry Berquière e Claudette Schwartz (1999), Passeurs de linge. Trousseaux et famille, Exposition, Musée des Arts et Traditions populaires, catalogo: Paris, Réunion des Musées Nationaux, 79 p.
Catani (2001), De ménagère à entrepreneur – Da massaia a imprenditrice, “Migrations Société”, 78, pp. 113-138.
Catani (2007), Les Scaldini de Paris, “Terrain”, 7, pp. 14-23.
In italiano
Catani (1964), Diario d’Algeria, “il Mulino”, 02/02/1964, pp. 170-185.
Catani (1983a), Gli emigranti: Dai valori localistici alla planetarizzazione dell’individualismo occidentale, “La Ricerca Folklorica”, 7, pp. 53-62.
Catani (1983b), Matrimonio all’algerina, ovvero la trasmissione dei valori dai genitori ai figli. Combinazioni adeguate e inadeguate, “Inchiesta”, 61, pp. 66-72.
Catani (1985), Critica dell’etnopsicanalisi nell’opera di Selim Abou, in Biografia, Storia, Società. L’uso delle storie di vita nelle scienze sociali, a cura di Maria I. Macioti, Napoli, Liguori, pp. 141-166.
Catani (1986), Emigrazione, individualizzazione e reversibilità orientata delle referenze: le relazioni fra genitori e figli, in I luoghi dell’identità. Dinamiche culturali nell’esperienza di emigrazione, a cura di Angelo e Serena Di Carlo, Milano, Angeli, pp. 139-162.
[1] Questo testo riprende per buona parte Palidda, Catani, anthropologue/ethnographe de l’émigration-immigration, “Revue Européenne des Migrations Internationales”, 31, 3-4 (2015), pp. 323-340.
[2] Ho incontrato Catani nel 1980 durante una ricerca sui ciociari nella regione parigina. Abbiamo poi lavorato insieme fino al 1987 su progetti riguardanti diversi aspetti dell’emigrazione e dell’immigrazione italiana e di altre nazionalità. Nel 1981 lavoravamo per il Ministero del Lavoro italiano sui giovani italiani e poi sulle associazioni di italiani; dal 1982 al 1985, abbiamo partecipato al progetto dell’European Science Foundation (ESF) “Identità e 2a generazione” con, tra altri, Oriol ed Émile Témime, Pitt-Rivers (vedi in italiano la pubblicazione di I luoghi dell’identità. Dinamiche culturali nell’esperienza di emigrazione, a cura di Angelo e Serena Di Carlo, Milano, Angeli, 1986); nel 1984 per la DPM del Ministero del lavoro francese sui giovani che rinunciano alla nazionalità francese, sintesi pubblicata da REMI (Catani e Palidda, Devenir Français: pourquoi certains jeunes étrangers y renoncent?, “Revue Européenne des Migrations Internationales”, 5, 2, 1989, pp. 89-106); nel 1985 per il Ministero francese della cultura e del patrimonio (Les Scaldini de Paris); dal 1985 al 1987, per la DPM del Ministero francese degli affari sociali e il F.A.S. su “Il movimento associativo nell’evoluzione delle comunità degli immigrati” (cfr. infra).
[3] Ho incontrato Abdelmalek Sayad nel 1981; dal 1994 fino alla sua morte, abbiamo lavorato insieme al progetto europeo MIGRINF (Délit d’immigration. La construction sociale de la déviance et de la criminalité parmi les immigrés en Europe, a cura di S. Palidda, Bruxelles, Rapport COST-Communauté européenne, 1996, con un capitolo di Sayad su “Immigration et pensée d’Etat”; Palidda,... l’exemple extrême du chercheur toujours en travail sur une œuvre jamais achevée, in Mutations d’identités en Méditerranée. Moyen Age et Epoque Contemporaine, a cura di Henri Bresch e Christiane Veavy, Paris, Bouchène, 2000). Catani cita Sayad, ma questi non ricambia mai … In realtà Sayad – non l’ha mai detto, ma mi sembrava evidente – non amava che altri e per giunta non algerini si occupassero di immigrati dal suo Paese. Su questi aspetti si veda anche la tesi di dottorato di Amin Perez, Rendre le social plus politique: guerre coloniale, immigration et pratiques sociologiques d’Abdelmalek Sayad et de Pierre Bourdieu (http://www.theses.fr/2015EHES0032), rielaborata e prossimamente pubblicata da Agone, Faire de la politique avec la sociologie. Abdelmalek Sayad et Pierre Bourdieu dans la guerre d’Algérie (https://agone.org/memoiressociales/fairedelapolitiqueaveclasociologie/).
[4] Paul Vieille era il direttore di “Peuples Méditerranéens”, una rivista prestigiosa di fatto scomparsa con lui (vedi http://catalog.hathitrust.org/Record/000642880), e il volume collettivo Méditerranée, Mondialisation, Démocratisation: Hommage à Paul Vieille, Paris, Geuthner, 2017, Oriol è stato il principale animatore del progetto “Identità e 2a generazione” dell’ESF dal 1983 al 1986. Vedi Michel Oriol, L’ordre des identités, “Revue Européenne des Migrations Internationales”, 1, 1-2 (1985), pp. 171-185.
[5] Vedi in particolare l’ultimo capitolo di La double absence. Des illusions de l’émigré aux souffrances de l’immigré, Paris, Seuil, 1998 (La doppia assenza, Milano, Cortina, 2002), pubblicato prima nel 1996 in Délit d’immigration, cit., titolo suggeritomi da lui e poi ripreso nel numero (voluto da Bourdieu) di “Actes de la recherche en sciences sociales”, 129 (1999), a lui dedicato.
[6] Era figlio unico e, a partire dall’età di sette anni, i suoi genitori si separarono (il divorzio non esisteva ancora). Fu cresciuto dal padre, dai nonni paterni, dallo zio e dalla zia. Sino all’età adulta, vedeva raramente sua madre e sempre in segreto.
[7] Vedi http://it.wikipedia.org/wiki/Fausto_Catani.
[8] Si tratta dei più celebri religiosi francesi del secondo Novecento, impegnati nell’aiuto ai poveri assai numerosi in regione parigina (http://www.atd-quartmonde.fr/qui-sommes-nous/notre-histoire). Tuttavia, Catani non era cattolico, né ateo, ma piuttosto agnostico; sposò Marie-Claude al municipio e non battezzarono i figli.
[9] Vedi di Sayad: Alphabétisation et formation des migrants et des enfants de migrants: publications (1978-1983); L’école et l’immigrant, Les immigrés, leurs langues dans l’école française. Disponibili in Fonds Abdelmalek Sayad – Association Génériques, cfr. www.generiques.org/images/pdf/inventaires/48.pdf. Vedi anche Archives d’Abdelmalek Sayad – Salle des inventaires virtuelle: https://www.siv.archives-nationales.culture.gouv.fr/siv/rechercheconsultation/consultation/ir/pdfIR.action?irId=FRAN_IR_055005.
[10] Con questa espressione intendo quella che dà al lavoro una sorta di valore ontologico (il che fa anche dire a Sayad che l’immigrato esiste solo per lavoro, di lavoro, nel lavoro).
[11] Marie-Pierre Cordier, L’alphabétisation des migrants dans les bibliothèques publiques: actions, partenariats, Diplôme de Conservateur des Bibliothèques, mémoire d’études, Université de Lyon, 2012, consultabile a https://www.enssib.fr/bibliotheque-numerique/documents/56776-l-alphabetisation-des-migrants-dans-les-bibliotheques-publiques-actions-partenariats.pdf.
[12] Cfr. l’intervista a Étienne Balibar in effimera.org/luniversalismo-non-aggrega-divide-intervista-etienne-balibar/#_ftn1.
[13] Si può ben dire che Catani lavora anche sulla socioanalisi e l’autoanalisi che alcuni chiamano sociologia clinica; si veda Bourdieu, Introduction à la socioanalyse, “Actes de la Recherche en Sciences Sociales”, 90 (1991), pp. 3-5; Vincent de Gaulejac, La sociologie clinique entre psychanalyse et socioanalyse, “SociologieS” [En ligne], http//journals.openedition.org/sociologies/1713; Francine Muel-Dreyfus, Une écoute sociologique de la psychanalyse, in Travailler avec Bourdieu, a cura di Pierre Encrevé e Rose-Marie Lagrave, Paris, Flammarion, 2003, pp. 227-235.
[14] Il riferimento a Dumont può aver “penalizzato” Catani, perché non era un esperto dell’India come questo suo maestro e quindi non poteva entrare nel laboratorio dei dumontiani. Inoltre è l’unico ad avere questo riferimento tra i ricercatori sulle migrazioni, il che, a volte, ha suscitato diffidenza. Infine non chiede nulla a Dumont e questi non è un capo “alla Bourdieu”. Su Dumont, vedi Gérard Toffin, Louis Dumont (1911-1998), “L’Homme”, 150 (1999), pp. 7-13.
[15] Anche se Catani, come Sayad, non cita mai Durkheim, Simmel e Mauss, penso che si possa dire che il riferimento a questi autori classici è implicito nel loro lavoro. Cfr. Palidda, Sociologia e antisociologia. La sperimentazione continua della vita associata degli esseri umani, Padova, Libreriauniversitaria.it, 2016.
[16] Catani era principalmente interessato agli aspetti antropologici e sociologici; gli scambi con lui sono stati particolarmente interessanti per me sebbene dal 1981 io mi sia maggiormente orientato sulla storia sociale, militare e politica dei paesi in cui si svolgono le migrazioni, vedi Palidda: Notes sur les parcours de l’immigration italienne, “Peuples Méditerranéens-Mediterranean Peoples”, 31-32 (1985), pp. 65-82; Aspetti socio-politici dell’immigrazione italiana in Francia, in I luoghi dell’identità. Dinamiche culturali nell’esperienza dell’emigrazione, cit., pp. 92-124; L’anamorphose de l’État-nation: le cas italien, “Cahiers Internationaux de Sociologie”, 93 (1992), pp. 269-298; Mobilità umane: introduzione alla sociologia delle migrazioni, Milano, Cortina, 2008; Émigration et immigration dans les changements politiques de la société italienne, in Postwar Mediterranean Migrations to Western Europe-La migration méditerranéenne en Europe occidentale après 1945, a cura di Clelia Caruso, Jenny Pleinel e Lutz Raphael, Frankfurt, Peter Lang, pp. 103-124.
[17] Catani non era uno studioso della storia della migrazione italiana e dei rapporti tra Italia e Francia. Inoltre, la ricerca sulle immigrazioni in Francia ha quasi sempre trascurato la storia sociale e quella politica. Tra altri a cui ho chiesto, gli storici Temime e Milza mi hanno detto di non aver mai sentito parlare delle centinaia di migliaia di immigrati illegali italiani che scappavano in Francia già al momento dell’unità d’Italia e successivamente durante la prima guerra mondiale perché renitenti alla leva o disertori; questo fatto lo si apprende solo grazie alla storia militare italiana; i tribunali militari italiani istruirono circa un milione e centomila processi a renitenti e disertori dei quali la polizia segnalava la fuga all’estero, un fatto che va contro la retorica nazionalista e mostra la natura politica “sovversiva” di gran parte dell’emigrazione italiana contro uno stato che ha sempre oppresso la popolazione – si pensi al massacro di Bava Beccaris a Milano nel 1898. Cfr. S. Palidda: Aspetti socio-politici dell’immigrazione italiana in Francia, cit.; Émigration et immigration dans les changements politiques de la société italienne, cit.; In conflitto con lo stato. L’emigrazione come “fatto politico totale”, “Zapruder. Storie in movimento”, 28 (2012), pp. 148-154.
[18] Alludo a Tzvetan Todorov, L’uomo spaesato. I percorsi dell’appartenenza, Roma, Donzelli, 1997.
[19] Va ricordato che secondo l’approccio (assai discutibile) di tanti criminologi, psichiatri e psicologi del XIX secolo e ancora di oggi (o pseudo tali quali Tahar ben Jalloun) l’emigrato-immigrato non può che essere una persona affetta da disagio psichico o psicologico appunto perché “spiantato” … sembra la teorizzazione dell’aggettivo popolare “spostato” per indicare un “matto” (o “spostato di cervello”).
[20] La Ciociaria è un’area del Lazio sita nella provincia di Frosinone. È una zona di montagne e colline tra le più povere d’Italia fino al 1980, segnata da ciò che alcuni storici (Aymard) hanno definito “la lunga durata del feudalesimo” in Italia.
[21] Cfr. Michele Colucci e Matteo Sanfilippo, L’emigrazione dal Lazio: il dibattito storiografico, “Archivio storico dell’emigrazione italiana”, 2 (2006), pp. 107-123.
[22] Mi riferisco qui ai risultati della nostra ricerca su diversi gruppi di immigrati italiani, simili ai dati analizzati da Boulot Fradet e altri che hanno studiato la scolarizzazione dei figli di immigrati negli anni dal 1950 al 1990.
[23] Uno dei casi più celebri della grande riuscita di alcuni originari della Valle di Comino è quello di lord Charles Forte (https://it.wikipedia.org/wiki/Charles_Forte; cfr. anche S. Palidda, Mobilità umane, cit.).
[24] Il merito di questi contributi va a Bruno Bracci allora responsabile dell’Istituto Santi in Francia; era un militante umile, sincero e generoso che fu estromesso dal PSI quando i craxiani presero il potere e arrivarono a imbastire anche manovre notoriamente losche (il capo del PSI in Francia diventò Giallombardo, uomo di Craxi inquisito a seguito di Tangentopoli, mentre Parretti negoziava affari col PS francese e si offriva di pagare la sontuosa sede di via Solferino).
[25] Catani e Palidda, Devenir Français: pourquoi certains jeunes étrangers y renoncent?, “Revue Européenne des Migrations Internationales”, 5, 2 (1989), pp. 89-106.
[26] La storia francese delle immigrazioni (a parte diversi lavori di Temime) e soprattutto quella degli italiani è stata sempre dominata dalle relazioni internazionali e non da discepoli dell’Ecole des Annales (il caso più noto è Milza, il cui unico scritto assai apprezzabile, a mio avviso, è L’intégration des Italiens dans le mouvement ouvrier français à la fin du XIXe et au début du XXe siècle; le cas de la région marseillaise, in L’immigrazione italiana in Francia prima del 1914, a cura di Jean Baptiste Duroselle ed Enrico Serra, Milano, Angeli, 1978, pp. 171-207). Tutt’oggi imperversano alcuni storici poco versati nella stessa storia sociale francese e del tutto digiuni di quella italiana (è il caso di Stéphane Mourlane, curatore di una mostra assai lacunosa e per molti versi criticabile al Museo dell’immigrazione della Porte Dorée nel 2016-2017).
[27] Palidda, Aspetti socio-politici dell’immigrazione italiana in Francia, cit., ed Émigration et immigration dans les changements politiques de la société italienne, cit.
[28] Catani, Campani e Palidda, Italian immigrant associations in France, in Immigrant associations in Europe, a cura di John Rex, Danièle Joly e Czarina Wilpert, Gower, Aldershot, 1987 pp. 166-200.
[29] Come ci hanno raccontato il partigiano Léon Landini (https://it.wikipedia.org/wiki/L%C3%A9on_Landini) e Martino Martini (memorie conservate dalla nipote Francesca) i partigiani francesi di Parigi furono sterminati dai nazisti. Rimasero allora soprattutto gli immigrati che fecero dell’FTP-MOI (Franchi Tiratori Partigiani-Mano d’Opera Immigrata) una straordinaria organizzazione che fra il 1942 e la fine del 1943, riuscì a compiere 229 azioni denunciate dai nazisti (ma non tutte venivano denunciate e ancor meno quelle in cui i nazisti erano stati messi in ridicolo). Secondo alcune fonti riescono a realizzare un attentato ogni due giorni, senza contare i piccoli sabotaggi che in realtà sono opera anche di semplici simpatizzanti. Fra le azioni più spettacolari si ricorda l’eliminazione fisica in rue Pétrarque, nel XVI arrondissement di Parigi, del generale delle SS Julius Ritter, responsabile della deportazione di circa 500 mila francesi in Germania (di quest’azione sono accusati 4 membri del gruppo Manoukian). All’inizio del 1944 i nazisti, con la tortura, riescono a far parlare alcuni fermati e quindi arrestano 23 di questo gruppo (quelli che i nazisti con l’Affiche rouge additano come terroristi stranieri contro i francesi) che il 21 febbraio 1944 sono messi a morte alle porte di Parigi (al Mont Valérien dove furono fucilati più di un migliaio di resistenti). Furono tre immigrati partigiani a entrare per primi all’Hotel de ville di Parigi. Ma l’importanza decisiva degli immigrati partigiani fu poco dopo cancellata: i gaullisti dichiararono di aver liberato loro la città e da parte loro i comunisti francesi fecero lo stesso … lo sciovinismo francese trionfò come a difendersi dall’infamia nazista che con l’Affiche rouge aizzava gli autoctoni a denunciare i terroristi stranieri, cioè i partigiani dell’FTP-MOI.
[30] Le rôle du mouvement associatif dans l’évolution des communautés immigrées, a cura di Catani e Palidda, Paris, FAS-DPM, 1987.
[31] Alla fine di questa ricerca, avevamo una grande quantità di materiali e già tre volumi di rapporti per DPM e FAS; ma Catani attraversò un momento difficile a causa di cambiamenti di gestione al CNRS e l’amarezza causata dalla mancanza di riconoscimento del suo lavoro (non è mai passato a directeur d’études – titolo oggi attribuito a persone con molti meno meriti di lui – perché non aveva un sostegno sufficiente); da parte mia, ho dovuto completare la mia tesi di dottorato e, allo stesso tempo, rispettare i contratti di ricerca e pesanti carichi familiari.
[32] È soprattutto nel nuovo millennio che molte ricerche descrivono e analizzano l’esplosione delle periferie e la criminalizzazione razzista (tra gli altri, vedi http://www.metropolitiques.eu/Trente-ans-de-sociologie-urbaine.html; poi gli studi di Agier, Fassin e Fassin, Mucchielli, Rigouste, Palidda).
[33] Vedi in bibliografia finale i contributi di Catani del 1984, 1985, 1986, 1988, 1989, 1992a e 1992b.
[34] Questa tesi è stata proposta da alcuni antropologi americani a seguito del successo che ebbe il libro (ciononostante esemplare) di Whyte (1943), tradotto e pubblicato in italiano nel 1968. Cfr. William F. Whyte, Street corner society: the social structure of an Italian slum (1943), Chicago, University Chicago Press, 1993 (Street Corner Society. Uno Slum Italo-Americano, Roma-Bari, Laterza, 1968; ristampato dal Mulino nel 2011).
[35] La tesi di F. Alberoni e G. Baglioni, L’integrazione dell’immigrato nella società industriale, Bologna, il Mulino, 1965, sulla “socializzazione anticipatrice” – che di fatto riprende il lavoro di Merton del 1957 – fu adottata dalla maggioranza dei ricercatori italiani sull’immigrazione. Essa viene citata anche da Dominique Schnapper. Catani e io abbiamo criticato questa tesi sulla base della nostra ricerca sui diversi reticoli di immigrati italiani, mostrando appunto che resta la possibilità della bilateralità dei riferimenti e della reversibilità delle scelte. Peraltro, successivamente, tenendo conto delle conseguenze del neoliberismo, ho insistito sulla etnicizzazione degli immigrati perché funzionale alla gerarchizzazione economica e sociale (meccanismo peraltro sempre operante negli Stati Uniti dello pseudo melting pot). Abbiamo criticato anche D. Schnapper per il suo articolo del 1976 in cui dava conto di una ricerca svolta da sue studentesse e da lei “teorizzata” sulla prestigiosa rivista “Annales” (all’epoca non aveva fatto alcuna ricerca né teorica e tanto meno empirica); in tale articolo gli immigrati siciliani della periferia di Parigi venivano considerati una comunità indistinta e addirittura un gruppo etnico e comunque tutti devoti di Santa Rosalia (che è la santa protettrice solo dei palermitani, mentre ogni comune ha la/il sua/o santa/o, fatto ben noto e tanto più a chi si interessa alle culture popolari). Ma la Schnapper cercò a tutti costi di mostrare che i siciliani nella regione parigina andavano studiati come le etnie negli Stati uniti, quando proprio i siciliani, come i campani, erano immigrati molto raramente “intruppati” in reticoli. Un’eccezione che ebbi modo di studiare direttamente fu il caso dei minatori di Farebersviller (Lorena): constatai che si trattava appunto di persone unite dalla stessa condizione di lavoro e di alloggio (nelle case popolare delle miniere) in un universo costituito di minatori e di associazioni delle diverse nazionalità promosse dallo stesso comune e dalla casa delle associazioni, unico luogo di socialità.
[36] Anton Blok, The Mafia of a Sicilian Village, 1860-1960: A Study of Violent Peasant Entrepreneurs, New York, Harper & Row, 1974.
[37] Vedi Le rôle du mouvement associatif dans l’évolution des communautés immigrées, a cura di Catani e Palidda, cit.
[38] Vedi i contributi di Catani del 1983, 1985b, 1992, 1989, nonché l’appena citato Le rôle du mouvement associatif dans l’évolution des communautés immigrées.
[39] Vedi Palidda, Socialità e associazionismo degli immigrati, in Migrazioni, Storia d’Italia, Annali 24, a cura di Paola Corti e Matteo Sanfilippo, Torino, Einaudi, 2009, pp. 623-636.
[40] Catani riprende anche in Super 8 la festa degli anziani ciociari in Ciociaria e poi in Val-de-Marne (vedi nella bibliografia finale i lavori di Catani del 1986 e 1988).
[41] Tra le riflessioni critiche sugli usi e gli abusi dell’identità del lemma, vedi Ronan Le Coadic, Faut-il jeter l’identité aux orties?, in Identités et société de Plougastel à Okinawa, a cura di Id., Rennes, Presses Universitaires de Rennes, 2007, pp. 41-61.
[42] Vedi anche i bellissimi film sulle emigrazioni e le immigrazioni degli italiani di Pietro Germi (Il cammino della speranza, 1950) e di Gianfranco Norelli (Pane amaro, 2007).
[43] Palidda, La nuova immigrazione italiana a Parigi e il difficile legame col glorioso passato, in Fondazione Migrantes, Rapporto Italiani nel Mondo 2016, Todi, Tau, 2016, pp. 308-315.
[44] Palidda, Mobilità umane, cit.
[45] Razzismo democratico: la persecuzione dei rom e degli immigrati in Europa, a cura di Palidda, Milano, Agenzia X, 2009, e Migrations as a Total Political Fact in the Neo-Liberal Frame, cit.
[46] Palidda, Migrations as a Total Political Fact in the Neo-Liberal Frame, disponibile a https://www.academia.edu/33844971/Migrations_as_a_Total_Political_Fact_in_the_Neo-_Liberal_Frame.pdf.
[47] Sayad condivide con Bourdieu la reticenza se non l’ostracismo rispetto ai filosofi, compresi Foucault e Derrida, anche perché probabilmente in quel periodo è per lui necessario affermare uno statuto della sua sociologia non inferiore a quello della filosofia. Si veda fra altro, il testo di Pierpaolo Cesaroni, L’ordine del discorso filosofico: Bourdieu, Derrida, Foucault, disponibile a http://www.leparoleelecose.it/?p=22234, e gli atti del convegno Bourdieu / Foucault: un rendez-vous mancato?, in “Cartografie sociali. Rivista di sociologia e scienze umane”, 1, 4 (2017). C’è poi da dire che Bourdieu e Sayad erano dei liberal-democratici (cfr. A. Perez, Faire de la politique avec la sociologie. Abdelmalek Sayad et Pierre Bourdieu dans la guerre d’Algérie, in stampa in aprile 2019 con Agone) certo antitetici al colonialismo come al neo-liberismo di oggi ma credevano nello stato democratico mentre Foucault era anarchico o “agnostico” nel senso che non credeva ad alcuna possibile effettiva democratizzazione.
[48] Sayad, Algeria: nazionalismo senza nazione, a cura di Palidda e Nino Recupero, Messina, Mesogea, 2003.