Qualche lettore, un po’ distratto, potrebbe essere per nulla, o scarsamente, informato sull’itinerario umano, professionale e culturale di gente italiana nelle diverse località delle coste mediterranee dell’Africa (esclusa la Libia), tutti territori (Tunisia in primis) che, per la contiguità geografica, hanno sempre rappresentato un richiamo naturale per il Sud e per la Sicilia e dove moltissimi approdavano “senza passaporto, sfuggendo a ogni tipo di controllo, come perfetti clandestini”.
Ignorarne l’esodo può essere una dimenticanza anche plausibile, trattandosi di un fenomeno incanalato anteriormente ai grandi traffici oltre Oceano, al quale la storiografia ha prestato scarsa attenzione ovverossia è stato valutato con distacco o, ancora, come scriveva Romain Rainero quaranta anni or sono, “la relativa vicinanza” e “l’elevata presenza storica di emigrati italiani”, non sono stati, stranamente, “fattori sufficienti a determinare correnti di studio” e, logicamente, a rievocare le storie disperse della diaspora nordafricana[1].
Il perché del ritardo non sta a noi individuarlo per il momento, ma dalla lettura del volume in oggetto e di altri similari, usciti precedentemente e propedeutici ad approfondimenti futuri e a nuovi interrogativi, ci si rende conto che la Tunisia, contraddistinta da “una storia plurale e da memorie plurali”, è stata sempre una terra d’accoglienza. Lo è stata per gli esuli politici del Risorgimento, i patrioti, sodali nell’impegno rivoluzionario (Tunisi è ricordata come la Lugano del Mediterraneo), i quali motivavano la loro preferenza in termini “di coscienza collettiva della propria mediterraneità”, e lo è stata ugualmente per il secolare flusso migratorio: imprenditori, manodopera generica, braccianti e pescatori in cerca di un’occupazione, scappati dalle province del Meridione e da Toscana e Sardegna. Inserendosi nel tessuto multietnico delle città costiere, siffatti trasferimenti umani hanno contribuito alla formazione di imprese artigiane e all’esecuzione di opere pubbliche.
Se la storiografia italiana ha riservato una considerazione inadeguata alle migrazioni nel bacino del Mare nostrum, storicamente un crocevia di genti, culture e scambi, molto è cambiato di recente. Con l’allargamento dell’orizzonte terrestre, molteplici cultori, avvalendosi di moderne inclinazioni metodologiche, hanno indagato e indagano sulla causa dei viaggi che ha spinto “l’immaginazione” dei connazionali a prediligere le rotte africane, scoprendo, inevitabilmente, l’entità della popolazione italiana in Tunisia e nel Maghreb, dal Marocco all’Egitto passando per l’Algeria.
Oltre ad alcune monografie che hanno esaminato, in particolare, l’emigrazione dalla Sicilia (Franco Blandi, Daniela Melfa, Enzo Tartamella[2]) e dalla Sardegna (Gianni Marilotti[3]), sono apparse analoghe opere (Giovanna Gianturco e Claudia Zaccai[4]), contenenti accurate puntualizzazioni sulle linee generali della vicenda tunisina, partendo dai secoli intorno al Mille ed intrecciandola con la storia del Mediterraneo. Menziono anche le collettanee curate da Federico Cresti e Melfa, da Laura Faranda e da Vittorio A. Salvadorini[5], che, a volte, trascendono il caso specifico o possono essere ammantate, osserva un curatore, da certificazioni di tollerante comprensione con il rischio di ripetere “principi di colonialismo, sicuramente culturale ma in fondo, sotto sotto, razzista”, e invece, tutto sommato, sono, semplicemente, scritti di giovani e meno giovani dal sicuro spessore scientifico. In questo sommario elenco, si segnala pure la rivista digitale “Ammentu, Bollettino Storico e Archivistico del Mediterraneo e delle Americhe” a cura del Centro Studi Sea di Villacidro (Sardegna) e della casa editrice Aipsa di Cagliari che, nell’ambito delle scienze umane e sociali, finora ha proposto una piattaforma articolata di ricerche e studi sulla storia moderna e contemporanea sia dell’area mediterranea sia dei “contesti occidentali e non occidentali e il loro impatto nella world history”.
Il libro qui preso in esame[6], per ora ultimo di sette (il primo, Memorie italiane di Tunisia, è uscito nel 2000), è curato, come il precedente, da Silvia Finzi, Università La Manouba di Tunisi, pronipote di una delle famiglie di livornesi ivi stabilitisi ai principi dell’Ottocento, è indubbiamente un riscontro del lavoro politico, economico e sociale degli italiani. Intessendo la storia dei due Stati e del mondo arabo in generale, da quando Tunisi era una città cosmopolita, il potere ottomano sempre formale e gli interessi dell’Inghilterra e della Francia in accanita concorrenza, si recupera l’“avventurosa” storia della collettività italiana, al tempo in cui ne esisteva una vera (oggi resta ben poco), nonché i rapporti con le locali e le francofone. Si raccontano le traversie di una moltitudine che prima ha tracciato la storia, poi, “individualmente l’ha tramandata a noi contemporanei, e lo ha fatto non a caso ma in relazione alla mansione sociale svolta dalle etnie presenti”, vedi gli ebrei livornesi del primo Ottocento e del loro contributo alla modernizzazione del paese e gli emigranti siciliani, definiti tali per vocazione, che l’hanno documentata “attraverso il lavoro e i sacrifici”.
E queste storie sono state compilate ricorrendo all’apporto di ricercatori che, in virtù di un’interazione tra storici italiani e tunisini, hanno collaborato ai suddetti volumi comprensivi di una collana patrocinata dall’Istituto italiano di cultura di Tunisi ed inquadrata nel Progetto della memoria promosso dall’Ambasciata d’Italia.
Gli stessi, ovviamente saggi bilingue, italiano e francese, spazianti in una gamma di ramificazioni, dalla produzione letteraria alle arti, alla cucina, alle professioni, alle ideologie politiche, setacciano l’operato dei nostri connazionali. Le reminiscenze sono vive ancora oggi sia in quelli rimasti in seguito all’indipendenza del 1956 (ricordo di tempi fortunati), sia in coloro che sono andati via (ricordo della propria terra natale). “Sono storie – sottolinea nella prefazione l’ambasciatore italiano – che non si esauriscono col lento degradare verso i nuovi scenari della Tunisia contemporanea, ma che al contrario costituiscono le fondamenta della nuova realtà della nostra presenza in questa terra ospitale” (p. 9).
E le storie sono molte; appartengono ad un vissuto lungo ed articolato a principiare dalla caduta di Napoleone, anni, possiamo dire, nel corso dei quali in Tunisia hanno luogo due circostanze, quasi concomitanti, una vera e propria svolta per la modernizzazione e la crescita del Paese africano: l’arrivo di due comitive. Un’emigrazione borghese, non da fame – ci ricorda Vincenzo Consolo – spesso qualificata proveniente da determinate regioni italiane. L’una d’immigrati di origine ebraica (prioritariamente toscani e livornesi), commercianti, professionisti, banchieri, stanziatisi in Tunisia per “curare sul posto l’esecuzione dell’imbarco e dello sbarco delle merci” ed acquisire, ben presto, il monopolio dei commerci; l’altra di esiliati, fuggita dalla Sicilia, dal Meridione, dagli Stati sardi, e, dopo il fallimento dei moti carbonari, dell’ideale mazziniano e repubblicano, rifugiatasi nella sponda antistante per sottrarsi alle repressioni della polizia.
I primi, seguendo le orme dei transiti risalenti alla fine del 500, e collegati per assonanza con un altrettanto composito universo, non estraneo, peraltro, alla prontezza riformatrice dei Bey di Tunisi, pongono i fondamenti di un’etnia (6.000 persone nel 1850), che, favorita dall’italiano, una lingua franca “dai luoghi di commercio sino alla stessa corte tunisina” e lungo le rive del Mediterraneo, è il più consistente e più antico raggruppamento di europei; i secondi, politici e soggetti concreti non indugiano in pratiche quotidiane, quasi a contare i giorni per il loro rientro in patria, ma, accolti con tolleranza e disponibilità, coadiuvano alla creazione di una elite politica e intellettuale, molto laboriosa che dispiega un ruolo primario nella vita tunisina e getta le basi per una cultura autoctona.
Una circolazione nella Tunisia “dei vigneti, delle miniere di bauxite e dei fondali pescosi”, comunque, c’è stata, un insolito ma stimolante espatrio, meno avvertito ma non per ciò meno ragguardevole dal punto di vista numerico e qualitativo. Continuata, ribaltando l’abituale traiettoria Sud-Nord, essa ha avuto un risultato peculiare, rintracciabile in poche località contattate dagli italiani: ha tratteggiato una interculturalità popolare, proveniente dal basso e con effetti reciproci e, simultaneamente, ha generato, tra strati sociali elevati, modelli realistici e forme di convivenza creativa nella lingua. Un idioma singolare, infarcito di parole arabe, siciliane e francesi per “comunicare con il colonizzatore francese e il colonizzato arabo”, applicato nell’alimentazione e, persino, nella religione. In campo religioso, i festeggiamenti dei santi, nella tradizione siciliana, avvalora Franco Blandi, incontravano la solidarietà del popolo musulmana che, per rispetto, si accodava volentieri.
Per un breve periodo è incoraggiata dai governanti. Smaniosi di aggiungersi alla cerchia delle grandi nazioni e, nello stesso tempo, di materializzare la speranza di elevarsi a potenza coloniale, scorgevano nell’Africa uno sbocco naturale, dotato degli opportuni requisiti per risolvere il problema del surplus demografico del Mezzogiorno. L’idea è abbandonata per ragioni inattese. La ripresa del colonialismo francese e la conquista di Tunisi, nel 1881, bloccavano ogni forma di velleitarismo e l’Italia, fautrice della politica delle ‘mani nette’, preferiva tenersi fuori per non sfidare Londra e Parigi. Parimenti nel filone delle partenze ci fu il contraccolpo. Scartata la pista africana o ridimensionata, a prevalere fu l’alternativa transoceanica: un espediente colmo di incognite, ma basato su prospettive potenzialmente redditizie. Le Americhe vennero collocate in cima alle direzioni suggerite: New York e Buenos Aires gli scali fantasticati.
Come è nato l’esodo, nondimeno variegato, complesso e ricco di significati, lo esplicita Salvatore Speziale, già autore di ricerche sociali e alle avvisaglie sanitarie epidemiche, culturali della Tunisia. In un saggio dettagliato, con la nazione africana vista come un paradiso o via di fuga, egli riassume la tradizione millenaria delle migrazioni tra le due rive opposte. Si fanno partire dagli antichi approcci risalenti all’epoca delle repubbliche marinare, allorquando Amalfi si assicura dai governatori di Tunisi il permesso di poter commerciare con le popolazioni maghrebine della città costiera di Mahdiyya e, nel contempo, procacciarsi la possibilità di installare insediamenti sul litorale. Queste prime comparse in luoghi inesplorati, così come le altre da diverse località dell’Europa occidentale, in particolare dalla Spagna e addirittura dalla Norvegia, non implicano condizionamenti alla sovranità dei governanti locali, in quanto si possono vagliare soltanto alla stregua di episodi favorevoli. Per avere più contezza, ci si deve spostare a metà Seicento con i viaggi comprovati dalla storia: i padri cappuccini aprono missioni religiose o il caso degli equipaggi di Torre del Greco che seguono l’esempio (pesca dei coralli), dei marinai trapanesi nelle acque di Sousse (allora Susa), ricordati nel Decamerone. Nel Settecento parecchi centri meridionali, nonostante i pericoli derivanti dalle incursioni dei pirati, attivano, con vantaggiosi esiti, negoziazioni commerciali con le città-porto del Mediterraneo, trasformatosi nel frattempo in un mare affollato.
Per agevolare il lungo percorso storico e farci recepire meglio l’italianità degli emigranti, comunque “multiforme, poliedrica spesso e confusamente contraddittoria”, la curatrice suddivide “l’epopea” in sei periodi paradigmatici. Inizia con l’eccezionalità (proprio così) del nutrito insediamento borghese di avvio Ottocento, e prosegue, nel post Unità, con la composizione di una leadership politico-economico-culturale di stampo liberale ed imprenditoriale. Consapevole del patrimonio accumulato e perfettamente integratosi con gl’immigrati europei, s’impone dovunque, dai commerci alle professioni, dall’artigianato alla manovalanza agricola, ed è attenta ad avviare una stretta collaborazione con le autorità consolari, a propugnare la difesa dell’identità e a caldeggiare un istintivo, ma disinvolto, processo di colonizzazione del paese. Un arco di tempo, senz’altro, stringato ma l’illusione di assurgere a ceto egemone si infrange, alla fine, con l’epilogo del sogno italiano e la dura realtà del Protettorato francese nel 1881 (terzo ciclo). Continua con il confronto tra patriottismo ed internazionalismo e la comparsa della lotta di classe, e, poi, la diffusione dell’ideologia fascista e la conferma di una consapevolezza revanscista. La secolare odissea trova il suo compimento nel 1956, con l’abrogazione del trattato del Bardo e la proclamazione dell’indipendenza tunisina, un evento accomunato ad una stagione inconsueta: i connazionali, giunti posteriormente, e le famiglie storiche si dimostrano pronti ad operare per un futuro migliore.
Il libro è anche, e soprattutto, un affresco delle divisioni speculative determinanti per gli assetti interni della gens italica, ma seguire l’iter politico e le fratture è una questione complessa (degna di essere studiata), così come macchinoso è definire gli italiani presenti in Tunisia: se “emigrati” o “italiani all’estero o ancora “espatriati” (così erano chiamati dal fascismo in poi). Messa di lato la borghesia che non ha avuto ed ha difficoltà ad essere ammessa nel tessuto sociale del paese, molti non si dichiarano neppure tali. Aderenti a gruppi eterogenei per i quali il denominatore comune è la difesa di interessi locali e personali e non nazionali, identificarsi con l’Italia nazione, per la stragrande maggioranza, può essere talmente poco pertinente.
Alle domande, a mio parere, il testo risponde con una dovizia di particolari e vi adempie con l’aiuto di una serie di verifiche storiche che scompongono le “passioni” e le “disillusioni” e le influenze esercitate, positivamente o negativamente, sulle scelte dei medesimi italiani.
La prima grande incrinatura si compie all’indomani dell’Unità tra liberali, massoni, ebrei, espressione delle classi professionistiche, e gli ignoti emigranti (in grande quantità clandestini), senza arte né parte e per attenersi al convincimento della cittadinanza francese bersaglio preferito di generalizzati pregiudizi razziali. Gli uni, divisi tra gli ideali repubblicani e i sentimenti monarchici, sostenitori di “un’italianità compatta e vittoriosa”, si contrappongono agli altri frammentati, principalmente, in una maggioranza, non eccessivamente incline alla politicizzazione. Gli ultimi venuti, quasi tutti di estrazione proletaria, dapprima continuano “la faticosa esistenza lasciata nella nativa Sicilia “; in avanti, confortati dai tradizionali istituti giuridici arabi e dalla fattibilità graduale di acquistare il suolo, impiantano consorzi di proprietari coltivatori e rendono fiorenti terre da sempre trascurate.
Una crepa anomala, ma rivoluzionaria nelle conclusioni, nasce successivamente, e concerne la rottura tra “patriottismo” ed “internazionalismo”, un confronto che ha sollecitato le riflessioni degli studiosi tunisini. Le vecchie caste, paladini del sentirsi italiano, dell’amore di patria, si misurano con le frange sovversive, che, espulse dalla penisola, una volta optato verso l’esilio, si danno da fare per dare vita a forme di organizzazioni sindacali.
La competizione tra le due “filosofie”, man mano che l’incremento dei grandi lavori pubblici faciliti il coinvolgimento di masse di lavoratori, fa emergere alcuni elementi. Da un canto, sanciscono lo strappo tra i produttori, legati ai governi italiani, e le maestranze operaie che ritengono i dirigenti responsabili delle precarie condizioni in cui versano; dall’altro spicca una chiara prospettiva in assoluta controtendenza rispetto alla cultura vigente nel nuovo contesto coloniale: includere nelle associazioni di categoria non solo la manodopera italiana ma finanche l’“indigena”. Nel 1904, per la prima volta, operai tunisini, italiani e francesi celebrano insieme il Primo maggio ed indicono uno sciopero generale.
Habib Kazdaghli, docente di storia orale e storia della memoria a La Manouba, raccogliendo l’interesse della storiografia tunisina e francese, nel suo saggio (Le rôle oublié des Italiens dans la construction de la mémoire nationale), prende in esame le esperienze associative, nelle quali la componente italiana “à l’émergence des premiers jalons de la conscience ouvrière en Tunisie”, ha avuto un incarico risolutivo di consulenza, a cominciare dall’anarchico Niccolò Converti, un pioniere del sindacalismo e patrocinatore dello sciopero cosmopolita (ma del calabrese ci occuperemo dopo). Ahmed Jaafar (Le prime organizzazioni operaie italiane e gli albori del sindacalismo tunisino), pur in mancanza di materiali archivistici, ricostruisce, grazie alla consultazione della stampa locale, la storia degli organismi ma segue addirittura la spaccatura dell’unità tra gli operai italiani e i tunisini (il mancato incontro).
Una divergenza supplementare, ma storicamente vitale per l’ubicazione della Tunisia annoverata nel giro degli interessi mediterranei del regime, avviene negli anni trenta e travalica l’appartenenza per assumere una diversità politico-culturale. Una vera e propria bipolarizzazione tra i fautori delle avances nazionalistiche dell’Italia che, nel paese africano trovano un valido supporto per suffragare le ambizioni del duce di puntare su una penetrazione militare, e gli antifascisti e in essi si riconoscono forze politiche, accludenti la borghesia liberale e massonica fino ad una netta prevalenza delle propaggini dichiaratamente “di sinistra”. Questi ultimi soggetti, ricongiuntisi, nel 1935 in un fronte internazionale unitario, accluso i comunisti, operano sotto lo sguardo vigile ed interessato della Concentrazione Antifascista di Parigi, consapevolmente edotta del rilievo strategico della Tunisia per i “destini” dell’Italia.
Leila El Houssi analizza il tema Fascisti ed antifascisti italiani in Tunisia (1922-1943). In un clima rovente, il fascismo, proteso a recuperare il cittadino italiano all’estero, anche in Tunisia “grazie alla struttura politica del potere” (il console generale svolge un’azione più incisiva del Fascio e tutti i rappresentanti della comunità sostituiti da persone di fiducia), ottiene notevoli posizioni nel primo decennio, ma il successo scema intorno alla metà degli anni Trenta. Le oscillazioni della politica estera italiana (i toni imperialistici e coloniali sempre più accentuati), e, soprattutto, il comportamento radicale dell’opposizione, notabili della borghesia liberale e massonica, pongono in dubbio l’immagine di una comunità italiana allineata col regime e si schierano apertamente contro il fascismo, tentando di coinvolgere nella lotta i tunisini. Isabelle Felici esplora un giornale antifascista e anticolonialista, “Il Domani” 1935, una rassegna libera di idee, vissuta lo spazio di pochi numeri, che ebbe la finalità di un manifesto politico o atto di rinascita dell’antifascismo tunisino, avverso alla volontà espansionistica di Mussolini. Nell’ultimo (il sesto), 22 settembre 1935, viene riprodotta una “Dichiarazione comune dell’antifascismo contro la guerra” firmata da tutti i partiti antagonisti; Santi Fedele, La centralità della Tunisia nell’organizzazione della rete clandestina antifascista del Grande Oriente d’Italia in esilio, evidenzia la responsabilità dei massoni nel dare vita ad una rete clandestina di propaganda e nei tentativi di stipulare relazioni con le diversificate branche dell’antifascismo La sezione continua prospettando tematiche speciali: Martino Oppizzi, sul consenso degli italiani di Tunisia agli accordi Mussolini- Laval, mediante i quali il duce ha libertà d’azione in Etiopia.
Per indirizzare l’opinione degli italiani presenti nella nazione africana, un compito coraggioso e funzionale è svolto dalla stampa etnica che, comparsa con l’emigrazione borghese, è il mezzo per studiare l’evoluzione delle fazioni politiche.
Il primo foglio, ad opera di due emigranti napoletani, proprietari di una tipografia, fuggiaschi politici e legati alla massoneria, è il “Giornale di Tunis e Cartagine”. Spuntato il 28 marzo del 1838, è incentivato dal programma riformatore del Bey Ahmed, ma uscito per un solo numero per timore di potersi convertire in uno strumento di divulgazione di idee sovversive, Seguono il “Corriere di Tunisi”2, stampato nel 1859 e durato fino al 1881, e poi tutti i centoventitre titoli reperiti, politici ed economici, una preziosa documentazione di valore storico e culturale. Alla vigilia e subito dopo il protettorato francese, voce di riferimento della frazione colta ed agiata della collettività italiana, è “L’Unione” (1886-1943), dal 1896 quotidiano, in difesa dell’italianità, orientata a soddisfare le esigenze informative e culturali delle schiere migranti e ad illustrare ai non italiani le potenzialità e le risorse dell’Italia in terra africana. Dal 1940 le pubblicazioni etniche, ad eccezione degli organi francesi autorizzati dalle autorità coloniali, vengono soppresse.
La grande produzione di testate, finanziata dalle istituzioni italiane, plasma pertanto le principali correnti, politiche e sociali, dinamiche fino all’indipendenza del paese, e si attesta dappertutto prendendo su di sé la mansione di svolgere un trait d’union tra la patria lontana e la patria d’adozione. Reputato l’italiano un considerevole veicolo di comunicazione, l’informazione, pur permeata da ideologie e dottrine politiche importate dalla madrepatria, costituisce il tramite per esprimere opinioni ed aspirazioni, confrontare idee e lanciare proposte.
Il pregio di Michele Brondino, caposcuola della storia dei giornali italiani in territorio maghrebino, è quello di offrirci un apporto di grande significato, nonché sezionare la voce delle alterne concezioni politiche dominanti, dal patriottismo al nazionalismo, al fascismo e alla guerra.
Gli italiani danno, altresì, vita ad una produzione di bollettini di protesta, con una diffusione, il più delle volte, effimera e limitata, ma la particolarità storica ci appare oggi di rilevanza capitale per la propagazione di teorie sociali tra il proletariato di Tunisia. Scaturisce, infatti, soprattutto tra il 1885 e 1915, un elenco significativo di testate legate a unioni sindacali o corporativi, dai nomi significativi, come “L’Operaio”, “Il Minatore”, “La voce del pastaio”, “La voce del muratore” e così via. Al contenuto si ricollega Nadia Neji, Il linguaggio politico della stampa operaia attraverso Il Minatore. Fondato e redatto da minatori italiani in Tunisia, l’importanza sta nella capacità di travalicare l’angolatura locale ed addirittura nazionale tunisina, facendo infiltrare la sua influenza nella vicina Algeria, specie nella regione del Constantinois, quale esempio di aiuto reciproco tra i lavoratori e un’unione compatta di contestazione al padronato.
Restanti investigazioni rimandano a varie questioni. Per l’età del Risorgimento, Giorgia Gritti iscrive, nella sua ottica di lettura, i proscritti politici in Tunisia (Gaetano Frediani e lo stesso Garibaldi). Una tipologia storica che allestisce un grande centro di cospirazione mazziniana per monopolizzare l’attenzione verso il Risorgimento; Gabriele Montalbano, La comunità italiana di Tunisia durante la guerra italo-turca per la Libia, e Wafa Alibi, La stampa in Tunisia durante il conflitto, sottopongono il conflitto ad una meticolosa indagine. Se per gli italiani, esso si teorizza in uno sfondo di rivincita sociale e di prestigio, non è pacifico per gli ambienti tunisini che danno vita a scontri, perfino violenti, con i difensori dell’impresa. Il conseguente e consistente afflusso della controparte libica, poi, peggiora ulteriormente la loro determinazione e concorre ad inasprire la familiarità con i lavoratori e a cancellare la parvenza di “popolo europeo povero e non colonialista”, reputazione che aveva aiutato ad accostare italiani ed arabi.
L’ultimo settore del volume, memorie, mette a fuoco gli italiani e le famiglie che hanno compartecipato all’evoluzione del paese ed hanno scritto la storia della Tunisia contemporanea: Marinette Pendola offre un ricordo personale di Niccolò Converti imperniato su alcune lettere inedite (non tanto), conservate nel Fondo Costa della Biblioteca di Imola; Rim Lajmi, servendosi di interviste in mancanza di riferimenti bibliografici, si occupa della militanza delle donne contro il fascismo e contro il colonialismo, un attivismo esplicatosi negli anni trenta e quaranta. “Sono donne – scrive – che restituiscono in un modo interessante il corso degli avvenimenti riplasmandoli con l’apporto del proprio vissuto “; Silvia Finzi e Sonia Gallico lavorano sulla famiglia Gallico, che trapiantatasi da Firenze nella prima metà dell’Ottocento, s’impegna politicamente opponendosi giudiziosamente alla fascistizzazione degli istituti, enti e leghe creati dalla colonia italiana. A Tunisi la loro abitazione è la meta ideale e privilegiata degli antifascisti, Velio Spano, Maurizio Valenzi, Giorgio Amendola, incaricati di dirigere il partito comunista. Lucia Valenzi scrive sui Bensasson, una famiglia della borghesia professionale, sopraggiunta da Livorno e protagonista della vita politica; Danielle Hentat su Guido Medina, poeta, conferenziere ed animatore culturale. Rifinendo stabili legami fra le culture italiana e francese, nel ventennio il “salotto di casa” diventa il ritrovo degli intellettuali ed artisti dell’epoca; Roberto d’Ascia sistema le battaglie condotte dal “Corriere di Tunisi”, unico periodico in lingua italiana, tra alti e bassi ancora in vita, dall’indipendenza del paese a oggi per rivendicare i diritti degli italiani in Tunisia e dell’emigrazione tunisina in Italia. Si conclude con un saggio di Carmelo Russo sulle testimonianze di italiani, ascoltate in Tunisia, Italia e Francia, discendenti “dalle antiche migrazioni” di 8 e 900, e Giovanni Cordova sugli italiani di oggi, dipendenti a riposo, che, nel quadro dei negoziati euro-mediterranei, “per vivere dignitosamente” hanno trasferito la residenza nella nazione africana, il terzo paese, a ridosso di Malta e Portogallo.
Può essere un paradosso ma non lo è nella misura ritenuta tale. Un filo conduttore di questo collettaneo “benemerito” è Niccolò Converti, l’anarchico calabrese (nato a Roseto Capo Spulico), precursore dell’operaismo maghrebino e fondatore “della stampa di protesta sociale”. Max Nettlau ha definito la sua biografia (giornalista, medico e attivista politico), una “bella pagina di storia”. Non è soltanto la certezza dell’anarchico austriaco o di convinti simpatizzanti, ma la stima è rafforzata dagli attestati di svariati osservatori, i quali, residenti, a vario diritto, nella città africana, direttamente o indirettamente lo hanno incontrato o hanno mantenuto vincoli di collaborazione.
La sua azione, avviata il 10 gennaio del 1887, giorno dello sbarco nel ridente porto della Goletta, accompagna e scandisce l’evoluzione dei movimenti sociali in Tunisia tra fine ‘800 e ‘900. Condannato, per aver firmato un manifesto di solidarietà ad Enrico Malatesta, nelle more del processo e rifacendo la strada che, mezzo secolo addietro, aveva condotto i fuoriusciti del Risorgimento nella Reggenza del Nord-Africa, sbarca a Tunisi. Una volta arrivato e valutata all’istante la situazione, decide di fermarsi in pianta stabile e d’inventarsi la tattica per la diffusione del pensiero libertario. A Tunisi, per le amicizie procuratesi, con l’ausilio anche dello zio arcivescovo, vive praticamente fino alla morte, esercitando la professione di medico negli ospedali locali e non rinunciando mai ad essere “il medico dei poveri”.
Accettato ed apprezzato favorevolmente dal circolo anarchico (alle spalle aveva un’esperienza nella Napoli di Bakunin e di Cafiero e in Francia), il suo dinamismo si rivela piuttosto efficace tanto da essere un riferimento per tutti coloro che sostavano in città (uno per tutti Andrea Costa). Simultaneamente raduna un vero e proprio punto di raccolta, predisposto per pianificare ed assistere gli anarchici che, reduci del domicilio coatto nelle isole della Sicilia, riparano in Tunisia. Col fascismo la sua laboriosità si riduce notevolmente e il pronunciamento contro Franco e l’appoggio ai repubblicani spagnoli sono probabilmente l’ultimo segnale politico (era vecchio ed isolato dalle nuove leve politiche).
Le vicissitudini di Converti, terminate il 13 settembre 1939, giorno della morte, ripercorrono idealmente le tracce dell’esperienza altruista di tutti quelli che hanno fatto tappa in una terra straniera. Figure non marginali ma, nella città d’adozione, protagoniste di un’esistenza in cui natura e cultura interagiscono e si compenetrano. Quasi ad asserire che per gli emigranti radicali (nella presente avventura, anarchici), non esistevano frontiere certe a bloccare un’umanità che ha reso un servizio allo sviluppo politico, sociale, economico e culturale di una nazione.
Un’aggiunta tecnica: il testo contiene una vasta e dettagliata bibliografia generale sugli italiani di Tunisia.
[1] Romain Rainero, La rivendicazione fascista sulla Tunisia, Milano, Marzorati, 1978.
[2] Franco Blandi, Appuntamento a La Goulette, Palermo, Navarra Editore, 2012; Daniela Melfa, Migrando a sud. Coloni italiani in Tunisia (1881-1939), Roma, Aracne, 2008; Enzo Tartamella, Emigranti anomali. Italiani in Tunisia tra Otto e Novecento, Trapani, Maroda Editori, 2011.
[3] Gianni Marilotti, L’Italia e il Nord Africa: l’emigrazione sarda in Tunisia (1848-1914), Roma, Carocci, 2006.
[4] Claudia Zaccai e Giovanna Gianturco, Italiani in Tunisia: passato e presente di un’emigrazione, Milano, Guerini, 2004.
[5] Da maestrale e da scirocco. Le migrazioni attraverso il Mediterraneo, a cura di Federico Cresti e Daniela Melfa, Milano, Giuffré, 2006; Non più a sud di Lampedusa: Italiani in Tunisia tra passato e presente, a cura di Laura Faranda, Roma, Armando Editore, 2016; Tunisia e Toscana, a cura di Vittorio A. Salvadorini, Pisa, Edistudio, 2002.
[6] Storie e testimonianze politiche degli Italiani di Tunisia, a cura di Silvia Finzi, Tunisi, Finzi Editore, 2016.