Gli anni 1960, com’è ampiamente noto, rappresentano un punto di svolta importante nella storia del mondo contemporaneo. La loro grande visibilità, e pure questo non dovrebbe sfuggire, consegue da una miriade di circostanze e di eventi rivelatisi in effetti, alle volte, epocali, ma dipende forse, o soprattutto, dai contraccolpi e dal valore simbolico di quell’annus mirabilis, il 1968, di cui attualmente ricorre, assai monitorato, il cinquantenario[1], mentre vengo stilando queste note di sicuro sommarie su Rudi Vecoli[2] e sullo stato degli studi intorno all’emigrazione italiana in America più influenzati dalla sua attività di storico e di organizzatore culturale grosso modo a far data dal 1969.
Pur senza accogliere una lettura convenzionale come quella che, sostanzialmente sbagliando, suggeriva che l’emigrazione dalla penisola, nei fatti, non avesse mai convissuto con fenomeni o episodi rilevanti d’immigrazione e che inoltre fosse durata appena un secolo[3] concludendosi solo nei primi “anni settanta del Novecento, per poi essere rapidamente soppiantata dall’arrivo degli stranieri”[4] ci sarebbe da rilevare come il decennio che va dal 1961 al 1969, terminus ad quem ipotizzato per un fenomeno lungi in realtà dall’essere allora sul punto di estinguersi, possa comunque essere considerato come l’arco di tempo pilota durante il quale furono poste le basi, in Italia, di una rinnovata riflessione e di un più moderno approccio ai movimenti migratori di massa verificatisi in particolare durante quel secolo. Alludo ovviamente alle prime indagini accademiche e ai primi sondaggi compiuti in Italia per additare, mentre si veniva svolgendo e precisando in USA l’azione di Vecoli, un percorso originale di ricerca poi documentato da molte opere riprese e culminate a propria volta nei tentativi più ambiziosi di sintesi destinati a comparire sull’aprirsi del nuovo millennio, ma anche ad entrare, di lì a poco, in seria difficoltà come “comparto” d’una storia sociale contigua a posizioni politiche radicali e progressiste. Non a caso quando stava ormai per scadere, del suddetto millennio, il terzo lustro in un sinistro crescendo di guerre regionali, di crisi economiche e di reiterati e massicci spostamenti di popolazioni, Matteo Sanfilippo non se lo nascondeva segnalando quali e quanti problemi comportasse “scrivere di emigrazione nel 2014”[5] e addebitando le ragioni di tale difficoltà al venir meno, fattosi da ultimo vistoso, della “sinistra italiana, almeno nel senso che veniva dato [in passato] a questo termine”, ma soprattutto, alla “crisi del libro e più in generale di tutte le pubblicazioni a stampa” soppiantate e surclassate, a voler essere ottimisti, da una disponibilità on-line di materiali, anche scientifici, pressoché sconfinata e, quel che più colpisce, in continua espansione. All’incubo biblio-sitografico, in cui pare difficile se non addirittura impossibile “distinguere il grano dal loglio, gli accademici formatisi in un altro secolo – annotava Sanfilippo – non sanno reagire”[6], e ciò, a maggior ragione, determina a mio avviso la necessità oggi d’inquadrare “all’antica”, almeno in questa sede, il frastagliato contesto in cui prese forma per la prima volta l’iniziativa storiografica sull’immigrazione sviluppata da Rudolph Vecoli, parte in USA e parte in Italia, tra la metà e la fine degli anni 1960.
Rudi, nato nel 1927 in una famiglia toscana di operai emigrati a Wallingford nel Connecticut, da un paio d’anni lavorava all’epoca come assistente di storia alla Rutgers University e aveva appena coronato presso l’Università del Wisconsin, nel 1963, il proprio ciclo di studi superiori discutendo una tesi di dottorato sugli italiani di Chicago da cui avrebbe ricavato l’anno successivo l’articolo che presto gli valse una certa notorietà anche perché ospitato dal prestigioso “Journal of American History”[7]. La sua analisi dei nostri contadini meridionali approdati a Chicago – e in tante altre città degli Stati Uniti – nei primi decenni del secolo portando con sé un bagaglio immateriale di tradizioni e di culture (meritevoli a suo parere di essere prese in considerazione anche per la loro ragguardevole tenuta attraverso il tempo) comportava una serrata contestazione delle tesi correnti sulla perfetta riuscita del melting pot americano d’un libro – The Uprooted – uscito una dozzina d’anni prima e subito insignito del Premio Pulitzer. In esso, in effetti, la forza livellatrice dell’americanizzazione senza residui degli immigranti e l’immagine dei villaggi rurali del Mezzogiorno d’Italia da cui essi partivano – idealizzata (e deformata) dal suo celeberrimo autore, lo storico harvardiamo Oscar Handlin – prestavano il fianco a molte e fondate critiche.
Mentre oltreoceano le correzioni apportate da Vecoli al modello assimilazionista dominante cominciavano timidamente a farsi valere guadagnando forse, tra il 1966 e il 1967, al loro ardito propugnatore prima la presidenza della neonata American Italian Historical Association (AIHA) e subito appresso una chiamata a Minneapolis come professore di storia nel principale ateneo del Minnesota e altresì come direttore del suo Immigration History Research Center (IHRC), sorto nel 1965 a ridosso d’una corrente di pensiero locale sull’immigrazione poi definita da Jon Gjerdie degli “Ethnic Turnerians”[8], anche da noi vedevano la luce alcuni lavori, che si potrebbero definire pionieristici, indirizzati a esaminare natura e incidenza dell’emigrazione sulla vita sociale ed economica nazionale e, in prospettiva, a porne in risalto il “ruolo” occupato nell’intera parabola postunitaria del Belpaese, un ruolo nevralgico e spesso trascurato sin lì, tolte rare eccezioni (Sereni, Morandi, Galasso…..), anche dalla migliore storiografia italiana. Coloro che vi si applicarono attraverso saggi e libri di storia politica, ossia Ernesto Ragionieri e Renzo De Felice e ancor più Fernando Manzotti e Grazia Dore[9], si trovarono comunque a dialogare, seppur “da lontano”, con colleghi in possesso di altre competenze nei campi contigui della storia economica e della demografia storica[10] incrociando quasi necessariamente la propria strada con quella dischiusa nel 1961 dal giovane Massimo Livi Bacci, grazie a un’opera seminale su L’immigrazione e l’assimilazione degli italiani negli Stati Uniti secondo le statistiche demografiche americane[11], che aveva sfiorato a sua volta temi e problemi al centro del contenzioso fra Handlin e Vecoli. Lo sforzo di superare quella che vent’anni più tardi (legandola in particolare all’operosità e al nome di Alvo Fontani) io stesso avrei definito l’“ibrida prospettiva politico-pubblicistica” dei principali libri pubblicati sull’argomento nel corso del dopoguerra da politici, sindacalisti e intellettuali per lo più d’area socialcomunista[12] (da Carlo Levi a Riccardo Bauer a Paolo Cinanni) giustamente attenti, in prima battuta, alle dinamiche e alle sorti della coeva emigrazione europea[13], non segnalava tanto, da parte degli storici, una presa di distanze di tipo ideologico (abbastanza improbabile del resto tenuto conto della collocazione politica di molti di loro), quanto l’intento di reinserire “tutta” l’emigrazione, per così dire, “al proprio posto”, nella recente storia d’Italia e nella storia, tuttora poco conosciuta, delle “politiche” migratorie promosse o avallate dai suoi governi d’età liberale, fascista e repubblicana[14].
Di tipo diverso risultavano frattanto, negli Stati Uniti, le preoccupazioni di Vecoli alle prese con la decostruzione di un paradigma consolidatosi fra l’altro, più che nel mondo degli studi, nell’immaginario popolare americano e rimastovi incastonato sin quasi ai nostri giorni: “La straripante popolarità” del saggio citato di Handlin, avrebbe notato Laura Lilli ancora nel 2005 in una intervista allo storico arrivato allora ai suoi novant’anni[15], scaturiva dal fatto di aver rappresentato “la prima teorizzazione organica del ‘sogno americano’”. Soprattutto fra gli “euroamericani”, essendo stata “diffusa per più di mezzo secolo anche nelle high-schools oltre che nei colleges e Università”, essa avrebbe dato loro una nuova coscienza di sé ossia “una nuova fierezza, il senso di non essere sopportati ma di appartenere agli Stati Uniti, cementando le diverse comunità con un forte comune denominatore, malgrado le abissali differenze d’ origine e alcune reciproche diffidenze”.
Quelle differenze, però, e queste diffidenze, non erano mai venute meno del tutto come fu inevitabile constatare soprattutto quando il revival identitario e multiculturalista degli anni 1960 e 1970 sembrò propiziare per un momento, negli Stati Uniti, una “mobilitazione etnica delle radici” sovente anche sentimentale e romantica[16] a cui peraltro, come tale, non pensò mai di poter dare il proprio avallo e la propria adesione, né da giovane né da vecchio, Rudi Vecoli. Egli, infatti, ben ne intuiva i limiti (come il “filopietismo”) e forse ne presentiva anche i rischi che fece in tempo a cogliere assistendo a metà degli anni 1990 alla loro deriva su più larga scala allorché l’incontro novecentesco di sensibilità e culture mediato dalle migrazioni e dalle appartenenze ereditarie venne trasformato, intanto a parole, in scontro epocale di civiltà da un altro harvardiano di successo come Samuel Huntington, l’autore, uscito anche lui di scena nel 2008 come Vecoli e Gjierde, di libri inquietanti come The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order (1996) e di Who Are We? The Challenges to America’s National Identity (2004). Nell’opera e nel pensiero di Vecoli, viceversa, la testarda “riscoperta” in positivo dell’etnia, questa dimensione a lungo “trascurata della storia americana”[17] andò sempre di pari passo con la rivalutazione, semmai, dei presupposti di classe di molta immigrazione proletaria (e di quella italiana in particolare) e quindi con l’attenzione prestata alle originarie scelte politiche radicali di una parte consistente dei suoi componenti fra Otto e Novecento. Ma ciò sempre badando, come egli avrebbe più volte ricordato, a non tradire l’integrità degli standard di ricerca dello storico di mestiere (o del mestiere di storico) stando al riparo da tentazioni apologetiche e spingendosi al di là dei “bisogni prammatici del momento”[18] senza rinunciare, insomma, si trattasse di riflettere sui vincoli del passato familiare e di gruppo o sui problemi posti dalla “linea del colore” fra gli immigrati, all’impegno etico dettato allo storico da una irrinunciabile deontologia professionale. La qual cosa, in sostanza, coincideva, ai suoi occhi, anche con il compito di riequilibrare, in termini di conoscenza, l’ordine alterato nell’acquisizione d’informazioni e di dati a proposito degli immigranti in carne ed ossa visto che tanto in USA quanto in Italia, ad onta del lavoro significativo svolto da alcuni specialisti, “lo studio dell’immigrazione” era stato e rimaneva, ancora all’alba degli anni 1980, “un campo sottosviluppato della ricerca storica”. Un certo parallelismo, insomma, sembrerebbe caratterizzare le preoccupazioni, quarant’anni fa, sia di Vecoli che di alcuni suoi colleghi italiani intenti anch’essi, dopo quelli sopra richiamati, a colmare molti vuoti in materia d’emigrazione (e sia pure, da Ercole Sori ad Antonio Lazzarini, soprattutto con analisi di tipo storico economico), per quanto concerneva l’assai scarsa considerazione in cui erano tenuti e di cui sovente soffrivano i cosiddetti migration studies nell’ambito delle rispettive storiografie nazionali: negli Stati Uniti, per giunta, scontando gli effetti di una forse inevitabile ma paradossale aggregazione per linee appunto etniche degli specialisti intenti a studiare solo la storia del proprio gruppo, a differenza però di Vecoli che a Minneapolis fece ad esempio dell’IHRC il più grande e meglio organizzato dei luoghi “fisici” della memoria sull’immigrazione in America salvando dalla dispersione e acquisendo intere collezioni di giornali pubblicati in lingua straniera assieme a un gran numero di testimonianze di tipo memorialistico, autobiografico, ma anche letterario e paraletterario, di “autori” arrivati al nuovo mondo in veste di migranti da ogni parte della terra, messe poi liberalmente a disposizione di quanti, con l’andar del tempo, presero a frequentarne l’archivio.
Nadia Venturini e Maddalena Tirabassi, Patrizia Audenino ed Elisabetta Vezzosi, Franco Ramella e Francesco Durante, per non citarne che alcuni di italiani, furono tra coloro che soggiornando in momenti diversi alle Twin Cities ne trassero grande vantaggio ed ulteriore impulso per approfondire le proprie indagini nell’ambiente ospitale dell’IHRC che nel volgere di pochi decenni diventò così una vera miniera per ciò che concerne le fonti a stampa “minori” e le fonti “private” dell’immigrazione (più o meno, fra l’altro, negli anni in cui fioriva in Italia il movimento che segnò la nascita, a Trento e a Rovereto, a Genova e per qualche tempo anche a Verona degli archivi delle scritture popolari o, a Pieve Santo Stefano su impulso di Saverio Tutino, dell’Archivio diaristico nazionale). Di tali fonti lo stesso Vecoli si era ovviamente servito in abbondanza per stilare un numero imponente di saggi che non volle mai raccogliere in volume[19], ma che costituiscono la prova della sua acribia d’infaticabile ricercatore e di storico sia dell’immigrazione sia di quella che un tempo si usava chiamare indulgendo al rosso senza arrossire, lotta di classe, pagando pegno, anche in ciò, alle proprie origini.
Il senso delle principali ricerche di Vecoli sugli immigrati italiani nel movimento operaio americano sin dentro agli anni della Grande Crisi poteva essere ricercato, ad esempio, anche nell’autobiografia, benché ciò non fosse di certo, almeno in prima istanza, l’effetto d’una presa di posizione politica aprioristica o di un fiero radicalismo che pure non gli difettava e che non amava tenere nascosto, quanto la conseguenza di un ragionamento, di molti ricordi e soprattutto di una serie ininterrotta d’indagini sulla realtà obiettiva in cui gli italiani, conservando forse più a lungo di altri le proprie tradizioni culturali (comprese quelle politiche), erano venuti a trovarsi nell’America industriale d’inizio Novecento. Qui la classe operaia locale si era evoluta in sostanza, anche fuori dalle “piccole Italie” caratteristiche delle grandi città, “per mezzo di catene migratorie” destinate a produrre veri sistemi di “segmentazione etnica” che sarebbe difficile oggi sottovalutare o negare nei loro effetti assieme, però, a quello che comportarono in termini di scontri e di scioperi. Le stesse trasformazioni della seconda metà del Novecento che condussero alla graduale scomparsa o all’oblio del posto occupato in tali dinamiche della conflittualità sociale dagli immigrati venuti dalla penisola, talvolta essendo stati raggiunti qui (ovvero seguiti a ruota) da esponenti politici e sindacali della sinistra italiana di qualche rilievo, come sarebbe stato in parte spiegato anche da Philip Cannistraro e da Gerald Meyer in una apprezzabile antologia di studi a cui pure Rudi fece in tempo a collaborare[20], depongono a favore di una tale interpretazione e provano che quel “mondo perduto” non era stato affatto una invenzione di alcuni patetici sognatori, ma una realtà viva della quale Vecoli, prima e più di altri, aveva saputo tener conto. E se lo aveva fatto, dopo Edwin Fenton, assieme a una serie di colleghi di diversa generazione (come Nunzio Pernicone, Calvin Winslow, Paul Avrich, Donna Gabaccia, Salvatore Salerno, Gary Mormino, George Pozzetta, Paola Sensi-Isolani, Fred Gardaphè ecc.), da loro Rudi si era forse differenziato e distinto soprattutto per aver deciso di privilegiare più spesso, nei propri saggi, le storie comuni e i personaggi minori che. senza nulla togliere agli organizzatori e ai leaders di maggiore spicco, testimoniavano la presa avuta per lungo tempo fra gli immigrati italiani da “idee di rivolta” e di emancipazione destinate a riemergere carsicamente persino nei movimenti giovanili contro la guerra e per i diritti civili negli anni sessanta del secolo scorso. Rudi era nato americano ed era diventato anche, negli Stati Uniti, uno storico accademico, ma la sua rivendicazione del valore d’una eredità etnica di tempo in tempo da altri dichiarata al tramonto o addirittura estinta e dispersa si nutriva di ragioni forti, probabilmente collegate nella sua mente a una visione originale di termini e di concetti destinati a venire (e a passare) di moda con il mutar del tempo. Della importanza avuta dal transnazionalismo fra molti immigranti, ad esempio, egli era naturaliter conscio, ma a questa pratica o condizione esistenziale non intendeva contrapporre o sovrapporre l’internazionalismo inteso come scelta di campo non tanto ideologica quanto politica[21]. Constatava solo ciò che lungo tutto un periodo storico era avvenuto se persino al concetto scivoloso e improprio della diasporicità era poi disposto, entro certi limiti, ad accordare qualche credito. Ma non era da definizioni di questo tipo oggi, com’è noto, in gran voga, che egli ricavava lo stimolo principale a ricercare e a preservare le tracce di quel passato che alla fin fine gli stava più a cuore in funzione sempre del presente e, perché no?, del futuro.
Ciò dipendeva semmai, molto di più, dal rincorrersi nei suoi pensieri degli echi di esperienze personali proprie e altrui forgiatesi nella quotidianità e nella fatica del vivere giorno per giorno una esistenza complicata per definizione dai contatti, inevitabili in America, fra lingue e culture diverse e destinata a sfociare in conquiste ma anche in sconfitte cocenti come quelle subite dagli IWW e che il destino riservò soprattutto negli Stati Uniti, dopo la rivoluzione bolscevica, al movimento operaio, come amava dire Bartolomeo Vanzetti, “cosmopolita”. Di qui anche il suo volgersi costante a quel patrimonio privato di memorie sopra ricordato che era in lui radicatissimo e al quale in ogni momento sembrava voler attingere come per caso ovvero incidentalmente, ma sempre con levità per il timore che potesse essere scambiato con qualche forma, da lui in realtà aborrita, di retorica etnica. Illuminanti sembrano al riguardo le parole, forse le prime di questo tipo, con le quali il 27 maggio del 1969 nella Firenze di Giorgio Spini e di Giuseppe Barbieri, di Marcello Pagnini e della giovane Anna Maria Martellone, Rudi aveva aperto la propria relazione introduttiva a un pionieristico Congresso sull’emigrazione e sull’opera degli Italiani negli Stati Uniti:
Per me è una fonte di particolare soddisfazione [partecipare] poiché oltre cinquanta anni fa mia madre e mio padre lasciarono il paese di Camaiore, a pochi chilometri da qui, per andare in America. Quale figlio di umili emigranti di Lucca, mi sento piuttosto emozionato ad essere chiamato davanti a voi per una conferenza in questa grande storica Università di Firenze. Benché la tentazione sia grande cercherò di non lasciarmi sopraffare da un sentimento di “filopiety” e di nostalgia. Di certe manifestazioni ne abbiamo avute già troppe nelle discussioni sull’immigrazione italiana[22].
In tali espressioni, soprattutto le ultime, c’era già quasi tutto il Vecoli di cui s’è parlato sin qui e che anche “per li rami” di una tradizione familiare (appoggiata prevalentemente alla madre) si era compiaciuto di far discendere molte più cose di quante non ci si possa oggi immaginare.
[1] Marcello Flores e Giovanni Gozzini, 1968. Un anno spartiacque, Bologna, il Mulino, 2018.
[2] Una mole più vasta di notizie su di lui con un’antologia dei suoi scritti più significativi sta in Italoamericani. L’opera di Rudolph J. Vecoli (1927-2008), a cura di Emilio Franzina, Vincenzo Lombardi e Matteo Sanfilippo, Isernia, Cosmo Iannone Editore, 2014.
[3] Per una smentita d’attualità cfr. Matteo Sanfilippo, La nuova emigrazione italiana (2000-2017): il quadro storico e storiografico, “Studi Emigrazione”, 207 (2017), pp. 359-378, ed Enrico Pugliese, Quelli che se ne vanno. La nuova emigrazione italiana, Bologna, il Mulino, 2018.
[4] Paola Corti e Matteo Sanfilippo, Introduzione a Storia d’Italia. Annali 24. Migrazioni, a cura di Idd., Torino, Einaudi, 2009, p. XXI.
[5] Matteo Sanfilippo, Scrivere di emigrazione nel 2014, “Archivio storico dell’emigrazione italiana”, 11 (2015), pp. 108-117.
[6] “[Q]ualsiasi sia la loro posizione politica – continua la citazione – [essi] hanno una concezione ottocentesca della cultura, che considerano valida soltanto se frutto di lavoro e studio autonomi. Sono quindi sconcertati da un mondo, in cui tutti agiscono come gli studenti quando copiano le tesine da wikipedia o da Skuola.net. Al contempo non si capacitano che tanti loro colleghi non frequentino i siti web, perché ancora poco efficienti sul piano digitale, ma abbiano comunque smesso di leggere quello che viene stampato e scrivano basandosi su pochi e spesso vecchi testi. Quest’ultimo fenomeno era in realtà evidente già nel secolo scorso, quando la maggior parte degli storici italiani conosceva una minima parte della bibliografia relativa all’argomento che studiava. Tuttavia il progressivo aumento della platea degli scrittori di cose storiche (docenti universitari, giornalisti, diplomatici, politici, semplici appassionati) ha ulteriormente abbassato la qualità generale di tale produzione”. Per quanto pessimistica e tranchant, si tratta di una constatazione su cui sarebbe difficile non convenire.
[7] Rudolph J. Vecoli, Contadini in Chicago: A Critique of The Uprooted, “The Journal of American History”, 51, 3 (1964), pp. 404-417.
[8] Emilio Franzina, Vecoli e l’Italia, in Italoamericani, cit., pp. 21-22 e Donna Gabaccia, L’Immigration History Research Center, ibidem, pp. 65-66.
[9] Ernesto Ragionieri, Italiani all’estero ed emigrazione di lavoratori italiani. Un tema di storia del movimento operaio, “Belfagor”, 17, 2 (1962), pp. 639-669; Renzo De Felice, L’emigrazione e gli emigranti nell’ultimo secolo, “Terzo Programma”, 3, 1964, pp. 152-98; Fernando Manzotti, La polemica sull’emigrazione nell’Italia unita (fino alla prima guerra mondiale), Milano, Società Dante Alighieri, 1962; Grazia Dore, La democrazia italiana e l’emigrazione in America, Brescia, Morcelliana, 1964.
[10] Penso in particolare alla figura e all’opera di Giuseppe Lucrezio Monticelli (su cui si vedano Dr. Giuseppe Lucrezio-Monticelli. Una vita al servizio dei migranti, Roma, Quaderni di Servizio Migranti, 1996, e Fondazione Migrantes, Il mondo delle migrazioni. Giuseppe Lucrezio Monticelli. Quando la memoria si fa storia, Roma, Quaderni di Servizio Migranti, 2005) alle origini delle prime analisi dedicate all’emigrazione italiana, sin dalla loro nascita (1964), sia da “Studi Emigrazione” a Roma (cfr. Maria Rosa Protasi, Il Centro Studi Emigrazione e il gruppo di demografi dell’Università di Roma “La Sapienza”, “Studi Emigrazione”, 192 (2013), n. 192, pp. 668-676) che dalla “International Migration Review” a New York (cfr. Matteo Sanfilippo, Nascita e svilppi di “Studi Emigrazione”, ibidem, 210, 2015, pp. 463-480).
[11] Milano, Antonino Giuffré Editore, 1961.
[12] Emilio Franzina, Emigrazione transoceanica e ricerca storica in Italia: gli ultimi dieci anni, “Altreitalie”, 1 (1989), p. 6.
[13] Fontani, a dire il vero, in veste di responsabile esteri del Pci, sino alla fine degli anni 1960 seguì anche, in rapporto all’involuzione dei regimi politici in Argentina e Brasile, la situazione dell’ultima emigrazione italiana in America Latina (cfr. Onofrio Pappagallo, Verso il nuovo mondo. Il Pci e l’America Latina (1945-1973), prefazione di Giuseppe Vacca, Milano, Franco Angeli, 2017, pp. 86-89).
[14] Cfr. a questo riguardo Marco Soresina, Italian emigration policy during the Great Migration Age, 1888–1919: the interaction of emigration and foreign policy, “Journal of Modern Italian Studies”, 21, 5 (2016), pp. 723-746; Mattia Vitiello, Le politiche di emigrazione e la costruzione dello Stato unitario italiano, “Percorsi Storici”, 1 (2013), http://www.percorsistorici.it/numeri/numero-1/titolo-e-indice/saggi/mattia-vitiello-le-politiche-di-emigrazione-e-la-costruzione-dello-stato-unitario-italiano.
[15] La nostra forza è il melting pot, “La Repubblica”, 23 dicembre 2005.
[16] La definizione appartiene a Micaela Di Leonardo, The Varieties of Ethnic Experience: Kinship, Class, and Gender among California Italian-Americans, Ithaca, Cornell University Press, 1984, p. 230.
[17] Come recitava il titolo di uno dei primi lavori tradotti anche in Italia di Vecoli (originariamente nella bella antologia curata da Anna Maria Martellone, La questione dell’immigrazione negli Stati Uniti, Bologna, il Mulino, 1980, pp. 157-172, poi anche in Italoamericani, cit. pp. 245-259).
[18] Vecoli, L’etnia, una dimensione trascurata della storia americana, in Italoamericani, cit. p. 246.
[19] Notoriamente l’unico libro organico a cui, dopo la monumentale tesi di dottorato, Vecoli pose mano, senza però poterlo pubblicare, fu quello dedicato a Celso Moreno, l’irrequieto pubblicista piemontese di Dogliani coinvolto a fine Ottocento in tante vicende “mirabolanti” fra Sumatra, le Hawaii e gli Stati Uniti, dov’era anche stato protagonista, prima di spegnersi a Washington nel 1901, di molte battaglie contro il padrone-system (e contro i diplomatici italiani di stanza a New York) di norma in difesa degli immigrati suoi connazionali ma specialmente, fra essi, dei ragazzi e dei minori sottoposti a durissimo sfruttamento. Il libro, per sua espressa volontà, venne ripreso, rielaborato e portato a termine con intelligenza, competenza e non celato affetto da Francesco Durante che ne divenne così coautore: Rudolph J. Vecoli e Francesco Durante, Oh Capitano! La vita favolosa di Celso Cesare Moreno in quattro continenti, 1831-1901, Venezia, Marsilio, 2014.
[20] The Lost World of Italian-American Radicalism: Politics, Labor, and Culture, a cura di Philip V. Cannistraro e Gerald Meyer, Westport CN, Praeger, 2003 (a pp. 51-73, il contributo di Vecoli, The Making and Un-Making of the Italian Americans Working Class).
[21] Rudolph J. Vecoli, The Italian Diaspora, 1876-1976, in The Cambridge Survey of World Migration, a cura di Robin Cohen, Cambridge, Press Syndicate of the University of Cambridge, 1995, pp. 114-122.
[22] Rudolph J. Vecoli, Le fonti americane per lo studio dell’immigrazione italiana, in Gli Italiani negli Stati Uniti. L’emigrazione e l’opera degli italiani negli Stati Uniti d’America. Atti del III Symposium di Studi Americani, Firenze, 27-29 maggio 1969, Firenze, Università degli Studi di Firenze, 1972, p. 1.