La grande emigrazione italiana dell’età liberale fu soprattutto un’emigrazione dalle campagne, e difficilmente avrebbe potuto essere altrimenti. L’Italia dell’epoca aveva una composizione sociale in larga parte legata al lavoro della terra (grafico 1) e le precarie condizioni di vita delle classi rurali – intendendo con questo termine un ampio spettro di situazioni, dai piccoli proprietari agli affittuari, dai mezzadri fino ai braccianti, ai salariati e agli avventizi a cavallo tra i mestieri dei centri urbani e quelli dei bisogni agricoli – entrarono in una fase di ulteriore sofferenza con la crisi agraria che colpì le campagne europee alla fine degli anni settanta dell’Ottocento, causata dall’arrivo in quantità prima impensabili di derrate alimentari granarie dalle aree a più intensa espansione agricola: il continente americano, l’Australia, la Russia.
Per quanto quella rurale non fosse mai stata una società statica o immobile, è indubbio che i volumi di flussi di migranti con l’estero che si registrarono tra il finire del diciannovesimo secolo e l’inizio del ventesimo furono una delle manifestazioni della “disarticolazione del vecchio mondo”, come l’ha definita Piero Bevilacqua[1]. La cosiddetta crisi agraria fu infatti uno dei segnali di un cambiamento epocale dell’agricoltura italiana: la tendenza alla suddivisione della proprietà terriera conseguente alla riforma del codice civile d’impronta napoleonica, la pressione fiscale in costante aumento – fenomeno globale che mise in crisi i regimi agrari dall’Europa all’Asia[2] –, l’abolizione degli usi civici e quindi dei tradizionali diritti comunitari di utilizzo dei beni ambientali, il cambiamento nei caratteri della manifattura rurale e nelle modalità di espressione dei rapporti di classe nelle campagne, con l’esplosione della grande conflittualità tardo ottocentesca, furono altri decisivi segnali del mutamento[3].
Quando la classe dirigente italiana si trovò costretta a reagire di fronte all’aumento progressivo delle partenze dei rurali fuori dai confini nazionali, diretti all’esterno rispetto al corpo geografico della nazione, le riflessioni intrecciarono spesso considerazioni di stampo patriottico con preoccupazioni legate alle prospettive economiche della produzione agricola. Era evidente infatti anche agli osservatori coevi che i serbatoi delle emigrazioni erano le campagne. Sin dai primi anni unitari si iniziarono a levare voci di protesta, i cui riferimenti erano più che altro rivolti alle singole situazioni locali. Ercole Lualdi, deputato di Busto Arsizio, presentò nel 1868 la prima interrogazione parlamentare sull’argomento; per quanto nota, è bene ricordare tale orazione, in cui erano presenti molti dei più diffusi motivi di timore verso un aumento degli espatri. Venivano citati villaggi che si vuotavano mentre la “gente se ne va piangendo e maledicendo ai signori e al Governo”; si parlava della elusione dello “spirito della legge sulla leva”, a causa del gran numero di minori che partivano; si prospettavano, infine, scenari apocalittici, per cui “se andiamo avanti di questo passo, mancheranno gli uomini necessari per lavorare i terreni e per sviluppare l’industrie”[4]. Lo sviluppo manifatturiero italiano, in particolare settentrionale, si stava basando proprio sulla presenza di una popolazione rurale abbondante e disponibile, pronta a prestare servizio in cambio di salari minimi nei filatoi, nelle officine tessili o in altri opifici opportunamente dislocati nelle campagne e nei fondivalle. Nelle orecchie dei proprietari terrieri italiani riecheggiavano poi con molta probabilità le lamentele che, da decenni, si levavano in tutta l’Europa settentrionale sulla progressiva difficoltà a reperire la manodopera rurale per le impegnative operazioni agricole estive, problema che si era reso più acuto alla metà del secolo[5].
Ci fu chi propose una peculiare immagine organicistica della nazione, definendo l’emigrazione come “la vita che si ritira dallo stomaco e dagli arti inferiori cui il capo nega nutrimento”[6]: se l’Italia era un soggetto unico e indivisibile, l’espatrio di migliaia di rurali significava una perdita netta degli strati più bassi, costretti alla fame dalle élites, con il risultato di avere un “corpo mutilato”. Ovviamente le classi contadine erano identificate con le parti umili del corpo, quelle legate alle funzioni elementari della digestione, lo stomaco, o alle operazioni meccaniche e muscolari, gli arti inferiori.
Queste ragioni, avanzate quando i dati elaborati da Leone Carpi stimavano la componente contadina intorno ai quattro quinti del totale degli emigrati[7], vennero poi riprese e sviluppate, soprattutto a partire dagli anni ‘80, una volta che i flussi complessivi si erano fatti più corposi. A partire da allora si moltiplicarono i fautori di un rigido controllo verso l’emigrazione, i cui argomenti però non mutarono però da quelli avanzati da Lualdi: da una parte il sentimento antinazionale espresso dagli espatri (il “voto con i piedi”), dall’altra la paura di perdere insieme a dei compatrioti anche la manodopera necessaria per far funzionare le economie rurali e garantire lo svolgimento delle operazioni agricole.
Erano soprattutto i proprietari terrieri e gli imprenditori agrari a premere per una restrizione degli espatri, e per fare ciò formularono in un unico discorso queste due minacce: l’esodo dei rurali causava l’abbandono della terra, e con questo l’aumento dell’incolto e la diminuzione della ricchezza nazionale. Da tutta Italia si levavano voci di associazioni agricole preoccupate per la “diserzione” dei contadini dai campi, considerata come un venir meno alle proprie responsabilità patriottiche. In una visione neo-mercantilista, la quantità della popolazione, più che il suo benessere, diventava l’indice della ricchezza e della forza di una nazione. In un momento in cui i governanti italiani erano impegnati ad attivare processi di fedeltà e di attaccamento allo Stato, ambienti molto influenti segnalavano nell’emigrazione una pericolosa defezione nei confronti dell’autorità costituita, nonché la causa di un impoverimento complessivo. La perdita netta di popolazione divenne una paura sempre più diffusa, per il concorso di un sistema statistico che non teneva il conto dei rimpatri, mentre aveva luogo un effettivo aumento delle partenze con l’avvicinarsi della fine del secolo.
Le statistiche raccolte dalla Direzione di statistica del Ministero dell’agricoltura, industria e commercio prima, e dal Commissariato generale dell’emigrazione poi, indicavano una chiara composizione professionale delle partenze. Agricoltori e braccianti risultarono essere le figure dominanti per tutta la fase della grande emigrazione, con la quota largamente maggioritaria degli agricoltori che scese sotto il 50% solo a cavallo dei due secoli e perse progressivamente quota a favore dei braccianti, i quali da posizioni inferiori al 20% negli anni ‘80 arrivarono intorno al 1910 a rappresentare il 30% degli espatri, anno in cui superarono in quantità gli agricoltori (grafico 2). Questo andamento era certamente dovuto in buona parte a un mutamento nei criteri di rilevazione statistica, che indicarono inizialmente il mestiere svolto in patria e poi invece l’attività che si sarebbe andata a compiere all’estero[8]. Ma era anche indice di un mutamento nelle possibilità di impiego oltreoceano e nella qualità dei lavori in vista dei quali si decideva di partire.
La fase della colonizzazione agricola dei paesi sudamericani, ad esempio, ebbe i suoi momenti di picco tra gli anni ‘70 e ‘80 dell’Ottocento in Argentina, tra anni ‘80 e ‘90 in Brasile (dove non a caso la schiavitù fu abolita solo nel 1888[9]) e di nuovo negli anni ‘90 in Argentina[10], e si rivolse soprattutto ai rurali settentrionali. L’estensione delle terre coltivate era in effetti a livello globale un fenomeno reale e imponente, che giustificava la potenza del mito della colonizzazione agricola. Oltre ai territori a ovest della confederazione degli Stati Uniti, con il progressivo avanzare della frontiera, c’erano anche enormi estensioni di terre in Canada, America Latina e Oceania che attendevano solo l’arrivo del lavoro europeo per poter fruttare, in collaborazione con l’appoggio dei governi di immigrazione. Anche nel continente asiatico (soprattutto in Siberia e Cina settentrionale) e in Africa le terre coltivate aumentarono, ma non grazie all’apporto dei coloni europei[11]. Gli italiani vennero incentivati a partire per il Sud America dalle politiche governative degli stati di arrivo e dalle strategie commerciali – in forme più o meno oneste – delle società di navigazione. Dal Veneto, dal Friuli, dal Piemonte intere famiglie si spostarono con la promessa di un pezzo di terra da coltivare, e si ritrovarono a difendere avamposti sperduti circondati dalla foresta, spesso protagonisti dell’allontanamento e dello sterminio delle popolazioni native[12].
Le statistiche riescono a dare conto delle indicazioni offerte dagli emigranti al momento dell’espatrio. Risulta evidente un avvicendamento tra le differenti ripartizioni d’Italia che riflette il più generale e noto andamento delle emigrazioni italiani transoceaniche: negli ultimi anni del secolo avvenne una sorta di passaggio di testimone tra agricoltori e braccianti settentrionali e agricoltori e braccianti meridionali, con questi ultimi che – pur in una fase discendente dell’importanza dei rurali nei flussi complessivi – ne rappresentano una quota rilevante. In parte questo era una conseguenza sia di un progressivo svilimento dell’offerta di lavoro agricolo che proveniva dalle economie di frontiera in forte espansione, che della parallela apertura delle società meridionali all’opzione migratoria transoceanica: la disponibilità da parte dei rurali dell’Italia settentrionale diminuiva mentre erano i meridionali a cogliere le richieste dei sistemi agricoli americani.
Secondo l’analisi compiuta da Ercole Sori – vecchia di quaranta anni ma sempre valida – i governi dei paesi di colonizzazione (in particolare dell’America Latina ma anche del Canada e del Sud Africa) rimanevano fortemente interessati a importare manodopera dall’Europa per le economie agricole, anche se le condizioni risultavano sempre meno convenienti per i lavoratori. A tal fine furono utilizzate varie strategie per poter tenere alta nelle società di partenza la convinzione di un roseo futuro per gli aspiranti coloni agricoli: l’elaborazione di ambiziosi piani pubblici e privati di colonizzazione agricola senza alcuna reale intenzione di realizzarli concretamente, la creazione di un piccola proprietà agricola dislocata nelle aree poco fertili e ai margini delle grandi colture, in modo da spingere le famiglie coloniche alla messa a disposizione di manodopera a basso costo, l’impiego di contratti agrari in cui era predominante la compartecipazione o forme di mezzadria, in cui l’illusione di maggiori possibilità per i coloni nascondeva una realtà ben più dura e vessatoria[13].
Un’altra strategia fu quella di promuovere la chiamata diretta di braccianti attraverso programmi condotti direttamente dalle compagnie. Un caso interessante è quello dei 525 braccianti italiani sbarcati nell’aprile 1900 a Veracruz, in Messico, per prestare lavoro in una vasta piantagione di zucchero e caffè dell’area di Motzorongo, al confine tra lo Stato di Veracruz e quello di Oaxaca, di proprietà nordamericana. Un secondo carico di altri 500 braccianti partito da Genova sarebbe dovuto arrivare un mese dopo nello stesso porto: ad attenderli tuttavia erano gli stessi immigrati italiani, scappati una volta scoperte le reali condizioni di lavoro, tra cui l’assenza dell’alloggio e del vitto promessi. “Hemos sido víctimas de un engaño urdido por una empresa que después de prometernos miles de faramallas nos entregó una vez embarcados un contrato, pero falso”[14], scrissero gli italiani in un volantino distribuito nel porto di Veracruz.
Le cifre sulla composizione professionale degli emigrati ci parlano comunque di una crescita di importanza della componente bracciantile meridionale nei primi anni del Novecento rispetto agli agricoltori settentrionali, e in particolare di quella parte che non si identificava solamente nei lavori agricoli ma anche nei mestieri di costruzione delle infrastrutture e delle abitazioni. Tuttavia sono numeri che si riferiscono alle dichiarazioni degli espatriandi al momento della partenza. Guardando quel che succedeva nei paesi di arrivo la situazione diventa decisamente differente. In Argentina, ad esempio, anche se al loro sbarco gli immigrati italiani si dichiaravano per larga parte agricoltori, secondo il censimento argentino del 1895 solo il 14,9 % degli immigrati svolgeva un lavoro agricolo[15]. “La nostra emigrazione, composta per massima parte di gente dei campi, – veniva scritto a inizio Novecento – dà alla terra un numero esiguo ed invece un numero esorbitante ai mestieri più vili e precari e si svia e si disperde in mille direzioni […]. È deplorevole soprattutto la dispersione e l’apostasia dall’antico mestiere degli agricoltori, che sono l’espressione più sincera e gagliarda e tenace della stirpe, nell’America settentrionale”[16].
Se la colonizzazione agricola, ovvero lo spostamento di lavoratori agricoli che potessero in prospettiva diventare piccoli coltivatori e assicurare così il popolamento delle nuove terre, era diventata un vero e proprio mito globale, lo stesso successo commerciale dei prodotti agricoli dei paesi di immigrazione accresceva soprattutto il bisogno di lavoro stagionale e finiva per rivelarsi incompatibile con l’idea di fissare i lavoratori alla terra come coloni: sortiva al contrario l’effetto della creazione di un proletariato precario e mobile tra mestieri urbani e rurali[17]. Non si trattava di una caratteristica esclusiva dell’immigrazione italiana nella repubblica platense. Anche negli altri paesi di immigrazione coloro che partivano agricoltori o bracciati agricoli svolgevano lavori che poco o nulla avevano a che fare con il settore dell’agricoltura. “La gran maggioranza degli emigrati italiani, – ha scritto Ercole Sori – soprattutto dopo la metà degli anni ‘90, non fu colonizzatrice, né finì in qualche modo in occupazioni agricole o, se vi finì, ne fu respinta abbastanza in fretta”[18]. I rurali italiani che partivano trovavano impiego per lo più in mestieri urbani: “un urbanesimo, si potrebbe dire, i cui poli d’attrazione cittadina erano, e in misura minore sono ancora, Brooklyn e San Paolo, più di Milano e Torino ieri, come Milano e Torino oggi”, avrebbe scritto Francesco Compagna negli anni del boom economico[19]. Da questa evidenza Antonio Gramsci traeva la sua interpretazione del ruolo dell’emigrazione italiana nello sviluppo dell’economia mondiale, poi ripresa da Andreina De Clementi – insieme a una decisiva rilettura di Lenin – nel dibattito degli anni ’70 del Novecento sulla formazione della classe operaia italiana: le campagne italiane avrebbero fornito manodopera non tanto per l’espansione delle aree coltivate nelle terre di frontiera, quanto per l’espansione dei settori secondario e terziario – costruzioni, manifattura e servizi – a livello globale[20].
Il passaggio di tanti rurali ai lavori urbani o di fabbrica non costituisce una sorpresa per chi conosca l’importanza della pluriattività nella vita quotidiana delle società rurali italiane: il bisogno di integrare i proventi del lavoro della terra esercitando i mestieri più disparati era una caratteristica comune nelle campagne dello Stivale, che si sarebbe rivelata utilissima nella ricerca di un lavoro remunerativo una volta giunti dall’altra parte dell’oceano[21]. Eppure le preoccupazioni delle classi dirigenti italiane e del clero si concentrarono a lungo su questo aspetto, ritenuto estremamente pericoloso: con il passaggio dalle campagne nostrane ai mestieri urbani all’estero si rischiava la perdita di una presunta genuinità agreste, dell’attaccamento alle tradizioni religiose e a determinati comportamenti sociali di deferenza e rispetto delle gerarchie. Non solo la patria avrebbe perso un cittadino, ma la comunità cattolica avrebbe perso un’anima. Quella di orientare l’emigrazione italiana verso i lavori agricoli rimase a lungo uno degli assi di impegno sia dell’associazionismo religioso che dell’intervento statale[22].
In questo quadro di preoccupazione per lo smarrimento dell’identità professionale degli emigrati italiani, tuttavia, emerge una tipologia migratoria dai caratteri assolutamente originali, una migrazione che partiva rurale e tornava rurale nell’arco di pochi mesi, per poi ripartire con le stesse caratteristiche. Si tratta della cosiddetta emigrazione golondrina, diretta dalle campagne italiane in particolare verso le estensioni coltivate della pampa argentina: lavoratori che – come le rondini – oscillavano con movimenti stagionali tra un continente e un altro, conservando sempre lo stesso mestiere di mietitori. Erano anzi proprio le mansioni lavorative legate ai tempi di maturazione dei prodotti della terra a spingere questi migranti a seguire le occasioni di lavoro sui due emisferi.
L’aggettivo golondrina viene utilizzato correntemente in castigliano per parlare di una migrazione caratterizzata da un modello ciclico, per lo più stagionale e legato ai lavori della terra. Il termine è utilizzato sia per la mobilità interna che per quella transoceanica, in quest’ultimo caso si fa spesso riferimento ai canali di circolazione tra penisola iberica e America Latina[23], pur conservando in genere un’accezione ampia. Per quel che riguarda l’Italia invece, le migrazioni golondrinas – almeno nelle parole della stampa e dei commentatori – vennero ad assumere delle caratteristiche peculiari, dai tratti molto decisi, edificando da subito una vera e propria mitologia su questa specie di braccianti giramondo.
Una delle prime descrizioni particolareggiate del fenomeno risale ai primi del Novecento, e venne fornita da Pompeo Ghinassi sulle pagine del “Giornale degli economisti”. Ne riportiamo un lungo stralcio:
meritano di essere ricordate le squadre dei mietitori, particolarmente care all’onorevole Luzzatti, le quali, simili agli uccelli trasmigratori, passano dall’uno all’altro emisfero coll’estate, cioè per il periodo dei grandi lavori. S’imbarcano a Genova in autunno a migliaia su piroscafi che li trasportano a prezzi molto bassi (l’anno scorso il ritorno in Italia non costò più di 45 lire, compreso il vitto), scendono a Buenos Aires e si spargono in tutte le direzioni, assoldati da un imprenditore o alla ventura, per prendere parte ai lavori del raccolto. Il raccolto in un paese che si estende per circa quindici gradi di latitudine non è simultaneo, ma si protrae da tre a quattro mesi, durante i quali i nostri giornalieri passano da un’estancia all’altra, sempre pronti e instancabili, lavorando senza tregua, sotto la vampa d’un sole infocato, dormendo la notte sotto la volta del cielo stellato. Finiti i lavori e messo da parte un buon gruzzolo, riprendono la via del mare, tornano al paese natale che si risveglia i tepori della nascente primavera, dove altri lavori attendono il loro braccio fino all’autunno, la stagione in cui questi gagliardi irrequieti indomabili figli del lavoro – per lo più italiani del mezzogiorno – riprendono ancora le vie del mare. Alcuni neanche rivedono il villaggio natio: scesi a Genova, dal transatlantico in arrivo da Buenos Aires salgono in quello che parte per gli Stati Uniti del nord, dove giungeranno in tempo per prendere parte anche a quel raccolto. Pochi lavoratori al mondo possono vantare una fibra tanto resistente. Eppure l’Italia nel mondo ed il mezzogiorno in Italia passano per il paese del dolce far niente.[24]
A questa descrizione faceva riferimento Ercole Sori nel fondamentale volume già citato del 1979 per trattare l’argomento, definendo i lavoratori golondrinas come “un esercito di nomadi […] che inseguiva le estati e i tempi di maturazione delle messi su due emisferi”[25]. L’altra fonte di informazioni di Sori era un saggio di Angelo Trento che – senza riportare a sua volta ulteriori fonti – collocava la fase più significativa dell’emigrazione golondrina tra il 1891 e il 1904, caratterizzandola come originaria in particolare dalla pianura padana[26].
Il richiamo fatto da Ghinassi a Luigi Luzzatti deve con ogni probabilità essere ricondotto alla conclusione di un importante discorso parlamentare del novembre del 1900, in cui – per perorare la proposta di legge che avrebbe poi dato vita al Commissariato generale dell’emigrazione – il deputato veneto lodò la laboriosità degli emigrati italiani che andavano in Argentina per fare la stagione di mietitura e tornavano poi in tempo per svolgere lo stesso compito in patria. Nelle parole di Luzzatti risultava fondamentale l’elemento che poi avrebbe caratterizzato l’immagine delle golondrinas italiane negli anni a venire, ovvero la ciclicità e la ripetizione costante del viaggio transoceanico:
Io li vedo nell’istante, in cui ora parliamo, imbarcarsi a Genova e recarsi nel Plata per giungere a tempo a mietere le messi dell’America del Sud, dopo aver mietuto coi biblici sudori della loro fronte quelle del paese natio, e, infaticabili come le forze primordiali della natura, si affretteranno poi a tornare in patria per riprendere le opere campestri nella mite primavera nostra![27]
Nella letteratura internazionale sulle migrazioni questa raffigurazione dell’emigrazione golondrina è passata senza alcuna modifica, compresa l’esaltazione delle virtù di capacità lavorativa e intraprendenza[28]. L’immagine di un “esercito di nomadi”, dei “gagliardi irrequieti indomabili figli del lavoro” che ogni anno vanno e vengono da una parte all’altra dell’oceano per ripetere le stesse operazioni agricole, di cui abbiamo rintracciato le origini italiane di inizio Novecento (ma andrebbero rintracciate anche quelle argentine) e la sua ripresa nella storiografia nostrana degli anni ‘70, è entrata a pieno titolo nel repertorio delle figure migranti più famose e ricordate al mondo. La quantificazione di questo “esercito” rimane estremamente incerta, con stime che hanno oscillato a seconda degli studiosi tra le 7.500 unità e le 250.000 annue[29]. I migration studies danno in buona sostanza per scontata l’esistenza delle golondrinas, così come le aveva raccontate Pompeo Ghinassi, assumendo come realistica la cifra di 20.000 migranti l’anno[30]. Eppure, fin dai primi del Novecento, l’effettiva consistenza di questa categoria era stata oggetto di forti critiche, che investivano persino la sua stessa esistenza.
Luis Moltedo, ex agente marittimo per la Navigazione Generale Italiana e la Lloyd, a partire dall’estate del 1911 pubblicò sulla stampa argentina alcuni interventi in cui contestava la forma con cui era comunemente presentata la migrazione transoceanica golondrina: “la inmigración golondrina no existe ni ha existido nunca en nuestro pays, […] las corrientes inmigratoria observadas en determinadas épocas del año, no son sino el resultado de fenómenos sociológicos que tienen su origen en razones de indole muy distinta a las que en apariencia se le atribuyen”[31]. La tesi di Moltedo era che le operazioni di raccolta agricola venivano sostenute in larga parte da lavoratori che già risiedevano in Argentina: il numero di immigrati che arrivavano in ottobre, all’inizio della stagione, attirati da questa possibilità di lavoro, doveva considerarsi molto minore di quello comunemente inteso. I guadagni che potevano essere tratti dal lavoro bracciantile infatti non erano tali da sostenere – pur tenendo in considerazione eventuali sussidi governativi – due viaggi transoceanici l’anno: chi arrivava per la mietitura rimaneva nel paese oppure se ne andava per non tornare l’anno successivo.
Gli interventi di Moltedo vanno contestualizzati in una fase di difficili relazioni diplomatiche tra i due paesi proprio intorno alla questione migratoria, il cui culmine venne raggiunto con l’epidemia di colera del 1911 e lo scontro sui controlli da effettuarsi sui vettori provenienti dalla Penisola. Poteva quindi risultare politicamente conveniente per un opinionista minimizzare l’apporto degli italiani all’economia argentina[32]. Meno di un anno prima Giuseppe Bevione era intervenuto dalle colonne de “La Stampa” per sostenere al contrario che “se il Governo italiano proibisse per una sola annata l’emigrazione “golondrina” i raccolti marcirebbero per tre quarti nei campi, e l’Argentina soffrirebbe più che se una immensa invasione di cavallette avesse straziato le sue culture da Tucuman allo stretto di Magellano, senza risparmiare un pollice di terra”[33].
Tuttavia le argomentazioni dell’ex agente marittimo argentino hanno trovato alcune significative conferme in sede storiografica. Già nel 1981 Raúl C. Rey Balmaceda, in un lavoro presentato nel corso delle “primeras jornadas nacionales de estudios sobre inmigración en Argentina”[34], riportava le tesi di Moltedo e provava a farne una sommaria verifica. Qualche anno più tardi un lavoro più compiuto e approfondito veniva svolto da Jeremy Adelman, il quale confermava l’inconsistenza del mito delle golondrinas. Negli archivi statali argentini riuscì a reperire un’indagine condotta dal dipartimento dell’immigrazione alla fine dell’Ottocento, da cui risultava come solo in circostanze particolarmente fortunate un bracciante italiano poteva guadagnare abbastanza dalla mietitura da poter tornare l’anno successivo. Gli ulteriori calcoli formulati da Adelman supportavano anche matematicamente questa tesi. In Argentina la mietitura iniziava a ottobre nel nord e finiva a febbraio nel sud, in ogni distretto durava al massimo un mese. I lavoratori si spostavano da nord a sud seguendo più campagne di mietitura, dunque i braccianti potevano trovare lavoro nel settore per cinque mesi consecutivi, tuttavia – considerando le possibilità reali di spostamento – una stima di due mesi di lavoro appare più ragionevole[35]. Difficilmente i proventi sarebbero bastati da soli per tornare in patria portando con sé anche qualche risparmio. La maggior parte dei salariati agricoli occupati proveniva dall’interno della Repubblica, in particolare da Buenos Aires e dintorni. Più che la golondrina europea dei viaggi transoceanici, dunque, a dominare la scena sarebbe stata la golondrina criolla degli spostamenti interni, figura – mutatis mutandis – estremamente diffusa anche all’interno dei confini italiani dell’epoca. Gli immigrati italiani dunque si sarebbero mischiati a quelli interni, ma la loro presenza sarebbe stata esaltata oltre misura dalla stampa e dalla propaganda ufficiale argentina, che li rappresentava come la grande maggioranza della forza lavoro. L’interesse in ballo era chiaro: “Official propaganda tried to publicise the wealth of the Pampas, and its capacity to enrich even the poorest of Europe’s peasantry to attract workers. Historians perpetuate the golondrina story to the exclusion of other forms of migratory labour. As a result, aspects of Pampean employment patterns which were hotly discussed at the time are obscured. Domestic migratory flows reflect patterns discernible elsewhere in Latin America, and which persist to this day”[36].
Dopo gli studi di Adelman, altri studiosi si sono rivelati più prudenti nell’utilizzo della categoria delle golondrinas per i braccianti immigrati in Argentina, pur senza aggiungere ulteriori materiali per chiarire la questione[37]. Una verifica della tesi Moltedo-Adelman può essere ora fornita attraverso l’analisi delle liste di sbarco degli immigrati italiani in Argentina. Il Centro de Estudios Migratorios Latinoamericanos, sotto la direzione di Luigi Favero, ha costruito negli anni ’90 del Novecento un database contenente i nominativi relativi a oltre un milione di arrivi avvenuti nel porto di Buenos Aires tra il 2 gennaio 1882 e il 5 dicembre 1920, per la precisione 1.021.391 records[38]. Uno studio condotto dallo scrivente sui primi 2.500 nominativi ha fornito degli interessanti risultati preliminari. Ovviamente i margini di errore sono molti: al netto dei possibili sbagli fatti dai funzionari nella trascrizione dei nominativi, alcuni dei quali, i più ovvi, sono stati considerati (Guiseppe o Giusseppe per Giuseppe, Abatte per Abate, Abbiatti per Abbiati, ecc.), uno studio sui rientri può solo muoversi per vie ipotetiche a partire dai dati compatibili per età e giorno di arrivo. Si tratta quindi di fare un confronto nei casi di nomi che ricorrono più volte sull’età dichiarata: se la differenza tra le età coincide (o si discosta di poco) dal lasso di tempo intercorso dallo sbarco precedente, allora può essere che si tratti dello stesso individuo. Si tratta solo di ipotesi, che rappresentano una stima per eccesso dei casi totali. Fatte queste premesse, nei primi 2.500 record i nominativi di uomini che potrebbero essere tornati in seguito a un primo sbarco sono 60. Spesso tra un arrivo e l’altro risultano essere passati molti anni. Nella tabella 1 si sono quindi trascritti solo quei casi in cui il probabile secondo sbarco sia avvenuto entro un lasso di tempo di cinque anni dal primo, con i relativi mestieri dichiarati all’arrivo.
Tabella 1: Migranti maschi con più di uno sbarco effettuato nell’arco di 5 anni (primi 2.500 records del database delle liste di sbarco degli immigrati italiani in Argentina)
Nome | Età | Data di sbarco | Mestiere | Golondrina? | |
1 | Francesco Abamo | 33 | 15 ottobre 1906 | Agricultor | Possibile |
35 | 20 ottobre 1908 | Civil | Possibile | ||
2 | Antonio Abate | 22 | 31 dicembre 1884 | Jornalero | |
25 | 19 gennaio 1886 | Jornalero | |||
45 | 19 giugno 1907 | Muratore | |||
3 | Francesco Abate | 39 | 9 febbraio 1886 | Agricultor | |
42 | 28 maggio 1889 | Bracciante | |||
4 | Luigi Abate | 19 | 27 novembre 1907 | Albañil | |
22 | 31 ottobre 1910 | Muratore | |||
5 | Pietro Abate | 20 | 3 gennaio 1884 | Agricultor | |
43 | 31 marzo 1907 | Lavoratore | |||
47 | 17 giugno 1910 | Sarto | |||
6 | Salvatore Abate | 35 | 14 giugno 1901 | Jornalero | |
40 | 29 giugno 1905 | Agricultor | |||
7 | Giuseppe Abba | 32 | 2 settembre 1885 | Tornero | |
34 | 1 novembre 1888 | Agricultor | Possibile | ||
8 | Pietro Abba | 56 | 11 ottobre 1888 | Jornalero | Possibile |
59 | 13 dicembre 1890 | Contadino | |||
9 | Natale Abbastante | 49 | 3 gennaio 1889 | Armero | |
53 | 2 luglio 1892 | Operaio | |||
10 | Giuseppe Abbate | 23 | 1 luglio 1898 | Zapatero | |
26 | 15 ottobre 1902 | Peon | Possibile | ||
11 | Luigi Abbate | 32 | 20 ottobre 1908 | Albañil | |
36 | 20 ottobre 1912 | Muratore | |||
12 | Francesco Abbruzzese | 35 | 10 ottobre 1899 | Pecheur | |
37 | 13 maggio 1901 | Matilot | |||
13 | Giovanni Abrate | 24 | 15 ottobre 1909 | Agricultor | Possibile |
26 | 30 luglio 1910 | Jornalero | |||
14 | Matteo Abrate | 30 | 16 novembre 1908 | Bracciante | Possibile |
35 | 6 gennaio 1914 | Muratore | |||
15 | Rocco Abriola | 28 | 28 gennaio 1885 | Jornalero | |
31 | 10 agosto 1888 | Agricultor | |||
16 | Anacleto Acatti | 22 | 19 dicembre 1897 | Agricultor | Possibile |
24 | 28 settembre 1899 | Bracciante | Possibile | ||
17 | Pietro Accardi | 20 | 8 aprile 1908 | Barbero | |
22 | 22 marzo 1910 | Jornalero | |||
18 | Corrado Accarpio | 32 | 18 giugno 1906 | Agricultor | |
35 | 7 giugno 1908 | Fabbro | |||
38 | 15 giugno 1911 | Murifabbro | |||
19 | Felice Accettura | 40 | 14 dicembre 1886 | Jornalero | |
43 | 5 maggio 1889 | Peon | |||
20 | Lorenzo Accinelli | 44 | 2 maggio 1914 | Cameriere | |
45 | 18 marzo 1915 | Comerciante | |||
50 | 29 marzo 1920 | Camarero | |||
21 | Michele Accinolo | 44 | 13 settembre 1910 | Agricultor | Possibile |
48 | 1 dicembre 1913 | Agricultor | Possibile | ||
22 | Roberto Acconci | 28 | 16 marzo 1905 | Industrial | |
20 aprile 1908 | Contador | ||||
23 | Raffaele Accorinti | 22 | 29 novembre 1898 | Agricultor | Possibile |
27 | 4 aprile 1904 | Agricultor |
Fonte: elaborazione dell’autore
Si tratta di 23 migranti, nessuno dei quali risulta avere effettuato il viaggio di rientro in Argentina l’anno successivo al primo sbarco. Si possono trovare viaggi a distanza minima di due anni, ma il lasso di tempo più frequente per un rientro breve è pari almeno a tre anni. Considerando anche il giorno di arrivo e la professione dichiarata, i profili compatibili con quelli di un lavoratore golondrina diminuiscono ulteriormente. Anche includendo tutti i braccianti, giornalieri e agricoltori che arrivarono nei mesi di settembre, ottobre, novembre e dicembre di ogni anno, si contano 12 episodi di sbarco su 50 totali. Sul totale del campione di 2.500 record, si tratta dello 0,48% di arrivi che risultano compatibili con un profilo da migrante golondrina, nessuno dei quali però con più di un rientro né con un rientro avvenuto nell’arco di 12 mesi.
Si tratta di un primo e superficiale affondo in una fonte ricchissima che andrebbe studiata con ben più elevato impegno e una strumentazione più sofisticata. Dovrebbe poi essere avviato un confronto con ulteriori documentazioni, come ad esempio gli elenchi delle Partes consulares, in cui sono annotate le liste degli emigranti in partenza dal porto di Buenos Aires[39]. L’impressione che se ne ricava sembra togliere ogni fondamento all’esistenza effettiva di “un esercito di nomadi” che ogni anno solcava l’oceano per tagliare e raccogliere il grano. Le migrazioni – e in particolare quelle italiane transatlantiche di questo periodo – avevano un alto tasso di circolarità, non tale però da far sì che l’oceano si riducesse a un breve corridoio da percorrere con agilità. Soprattutto i rientri successivi non riguardavano soltanto i lavoratori agricoli, ma anche muratori, operai, marinai, camerieri, ecc., esattamente come succedeva nelle mobilità tra i vari paesi d’Europa[40].
Se queste ipotesi dovessero trovare una conferma in analisi successive, rimarrebbe da sciogliere un quesito storico di grande interesse: come mai il mito delle golondrinas si è affermato in maniera così profonda e radicata nell’immaginario dei contemporanei e dei posteri? Certamente, come già sostenuto da Adelman, entrò in azione una strategia di promozione del lavoro agricolo in Argentina, terra così ricca e fortunata da arricchire anche la classe tra le più umili e povere dell’Europa, i braccianti rurali. Questa strategia entrò probabilmente in sintonia anche con quei settori sociali per cui le golondrinas potevano rappresentare una garanzia rassicurante della tenuta della professione bracciantile all’interno del quadro di una modernizzazione rapida e sconvolgente. Come abbiamo visto, l’apertura delle possibilità migratorie a livello globale rappresentava una minaccia per un ceto di proprietari e imprenditori agricoli che temeva il diradamento dell’offerta di manodopera per i lavori rurali. Esaltare la figura del bracciante giramondo, che con la fedeltà di una rondine sarebbe sempre tornato alla propria terra d’origine per compiere le umili mansioni che era stato abituato a fare, poteva rappresentare una forte rassicurazione anche per gli ambienti cattolici e conservatori. Solamente uno studio particolareggiato sulle origini e la fortuna dell’immagine delle golondrinas tra Italia e Argentina negli anni a cavallo tra Ottocento e Novecento può fornirci conferme e correzioni rispetto a queste ipotesi. Si tratta di un caso particolare che può illuminare la più vasta questione dei comportamenti migratori delle classi rurali italiane, così come gli orientamenti e le costruzioni retoriche dei gruppi dirigenti.
[1] Piero Bevilacqua, Società rurale e emigrazione, in Storia dell’emigrazione italiana, I, Partenze, a cura di Piero Bevilacqua, Andreina De Clementi ed Emilio Franzina, Roma, Donzelli, 2001, p. 101.
[2] Cfr. Christopher A. Bayly, La nascita del mondo moderno 1780-1914, Torino, Einaudi, 2009.
[3] P. Bevilacqua, Società rurale e emigrazione, cit., pp. 103-107.
[4] L’interpellanza venne discussa il 30 gennaio 1868. La citazione è tratta da Federico Manzotti, La polemica sull’emigrazione nell’Italia unita, Milano-Roma-Napoli-Città di Castello, Società editrice Dante Alighieri, 1969, p. 11.
[5] Edward John T. Collins, Offerta e domanda di manodopera agricola in Europa dal 1800 al 1880, in Agricoltura e sviluppo economico. Gli aspetti storici, a cura di Eric L. Jones e Stuart J. Woolf, Torino, Einaudi, 1973, pp. 85-131.
[6] Zeffiro Ciuffoletti, L’emigrazione nella storia d’Italia dal 1868 al 1914, in Id. e Maurizio Degl’Innocenti, L’emigrazione nella storia d’Italia 1868/1975. Storia e documenti, Firenze, Vallecchi, 1978, p. 30 (l’autore della metafora era il deputato Guglielmo Tocci, nel maggio 1872).
[7] Leone Carpi, Statistica illustrata della emigrazione all’estero del triennio 1874-76 nei suoi rapporti coi problemi economico-sociali, Roma, Tipografia del “Popolo romano”, 1878, p. 15. Per il 1869 Carpi stimava 93.059 emigrati dalle campagne su un totale di 143.109 (65%), per il 1870 83.752 su 101.114 (83%), per il 1872 115.164 su 146.265 (79%), per il 1873 112.143 su 151.781 (74%).
[8] Ercole Sori, L’emigrazione italiana dall’Unità alla seconda guerra mondiale, Bologna, il Mulino, 1979, pp. 33-34.
[9] “L’emigrazione italiana risolse una situazione di stallo nel momento in cui i fazendeiros dovettero abbandonare l’antico sistema basato sulla manodopera schiava; si può anzi affermare che fu essa a consentire l’abolizione della schiavitù”: Angelo Trento, Là dov’è la raccolta del caffè. L’emigrazione italiana in Brasile, 1874-1940, Padova, Editrice Antenore, 1984, p. 33.
[10] Fernando Devoto, Historia de los italianos en la Argentina, Buenos Aires, Editorial Biblos, 2006, pp. 257-278.
[11] Giovanni Federico, The economic history of agriculture since 1800, in The Cambridge World History, v. VII, Production, Destruction, and Connection, 1750–Present, I, Structures, Spaces, and Boundary Making, a cura di John R. McNeill e Kenneth Pomeranz, Cambridge, Cambridge University Press, 2015, pp. 86-87.
[12] Piero Brunello, Pionieri. Gli italiani in Brasile e il mito della frontiera, Roma, Donzelli, 1994.
[13] E. Sori, L’emigrazione italiana, cit., pp. 138-152.
[14] Volantino distribuito dagli italiani nel porto di Veracruz nel maggio 1900, riprodotto in José B. Zilli, Braceros Italianos para México (La historia olvidada de la huelga de 1900), Veracruz, Xalapa, 1986, p. 16. In questo caso tuttavia i lavori erano legati in prima battuta alla costruzione della ferrovia che attraversava la proprietà.
[15] Angelo Trento, Appunti sull’emigrazione italiana a Buenos Aires agli inizi del secolo e sul suo apporto al movimento operaio argentino, “Affari sociali internazionali”, 2, 1-2 (1974), p. 148.
[16] Pompeo Ghinassi, Gli agricoltori italiani nell’Argentina. (Continuazione; v. i fascicoli di luglio e di settembre), “Giornale degli economisti”, 13, 25 (1902), p. 353.
[17] Jeremy Adelman, The Harvest Hand: Wage-Labouring on the Pampas, 1880-1914, in Essays in Argentine Labour History, 1870-1930, a cura di Id., Basingstoke-London, Palgrave Macmillan, 1992, pp. 91-92.
[18] E. Sori, L’emigrazione italiana, cit., p. 138.
[19] Francesco Compagna, I terroni in città, Bari, Laterza, 1959, p. 125.
[20] Andreina De Clementi, Appunti sulla formazione della classe operaia, “Quaderni storici”, 11, 32 (1976), in particolare pp. 698-705.
[21] Si rimanda ai quadri forniti in P. Bevilacqua, Società rurale e emigrazione, cit., e Andreina De Clementi, Di qua e di là dall’oceano. Emigrazione e mercati nel Meridione (1860-1930), Roma, Carocci, 1999.
[22] Graziano Tassello (a cura di), Enchiridion della Chiesa per le migrazioni. Documenti magistrali ed ecumenici sulla pastorale della mobilità umana (1887-2000), Bologna, EDB, 2001.
[23] Così ad esempio in Dirk Hoerder, Cultures in contact. World migrations in the second millennium, Durham-London, Duke University Press, 2002, p. 342, dove si parla delle migrazioni tra penisola iberica, in particolare Galizia, e America Latina.
[24] Pompeo Ghinassi, Gli agricoltori italiani nell’Argentina “Giornale degli economisti”, 13, 25 (1902), pp. 225-226. Il corsivo è mio.
[25] E. Sori, L’emigrazione italiana, cit., p. 149. Il corsivo è mio.
[26] A. Trento, Appunti sull’emigrazione italiana a Buenos, “Affari sociali internazionali”, cit., p. 150.
[27] E proseguiva: “L’italiana anima mia esulta che noi alberghiamo una schiatta di così forti lavoratori, la quale feconda col lavoro i due Mondi e ne domina le stagioni diverse! (Applausi). È in nome di questi miracoli di operosità sana, grande e semplice come la rude virtù, che io vi chiedo, o signori, di approvare i provvedimenti a favore di tanta eletta parte dei nostri figli. (Benissimo! Bravissimo! – Vivissimi applausi – Moltissimi deputati vanno a congratularsi con l’oratore)”: Atti Parlamentari – Camera dei Deputati, Legislatura XXI – 1ª Sessione – Discussioni – Tornata del 29 novembre 1900, p. 723. Il discorso venne anche pubblicato in un opuscolo: Sull’emigrazione. Discorso del deputato Luigi Luzzatti pronunciato alla Camera dei deputati nella tornata del 29 novembre 1900, Roma, Camera dei Deputati, 1900.
[28] Mentre nei primi del Novecento si potevano ancora trovare descrizioni delle golondrinas di tutt’altro tono. Si legga questa, tratta da Francesco Scardin, Vita italiana nell’Argentina. Impressioni e note di viaggio, vol. 2, Buenos Aires, Talleres Gráficos de L.J. Rosso, 1903, p. 108: “Con un sacco in ispalla ripieno de’ suoi pochi indumenti egli cammina di colonia in colonia, il deriso lingera. […] Nelle colonie agricole si applica in qualificativo di lingera ai lavoratori che giungono dall’Italia per attendere alla trebbiatura del frumento e lino nei mesi da dicembre a marzo e che, generalmente, terminato questo periodo se ne ritornano in patria. […] La trebbiatura nei mesi d’estate è, dunque, l’episodio gagliardo; egli, il deriso pellegrino, l’eroe”.
[29] Raúl C. Rey Balmaceda, Acerca de la “migración golondrina” en la República Argentina, in Primeras Jornadas Nacionales de estudios sobre inmigración en Argentina. 5, 6 y 7 de noviembre de 1981, Ministerio de Cultura y Educación, Secretaría de Cultura, Comisión nacional de estudios sobre la inmigración en América, Buenos Aires, Eudeba, 1985, pp. 529-547. Ringrazio Matteo Sanfilippo per avermi dato la possibilità di prendere visione di questo lavoro.
[30] Samuel L. Baily, Immigrants in the lands of promise. Italians in Buenos Aires and New York City, 1870-1914, Ithaca, Cornell University Press, 1999 (che quantifica in 20.000 ogni anno i migranti golondrinas a inizio Novecento: p. 60); Blanca Sánchez-Alonso, Labor and Immigration, in The Cambridge Economic History of Latin America, vol. 2, The Long Twentieth Century, a cura di Victor Bulmer-Thomas, John H. Coatsworth, Roberto Cortés Conde, Cambridge, Cambridge University Press, 2006, p. 386.
[31] La inmigracion golondrina. Afirmacion de que no existe. Una nueva e interesante teoria. Lo que debe hacer el gobierno, “La Prensa”, 31 agosto 1911. Altri articoli apparvero in seguito sullo stesso giornale e su “La Nacion”: vennero poi raccolti e pubblicati l’anno seguente in Luis Moltedo, Fenomenos migratorios argentinos. Estudios y analisis. Publicados en varios diarios desde agosto a noviembre de 1911, Rosario, La Capital, 1912.
[32] Si veda la ricostruzione della vicenda in Marc I. Choate, Emigrant Nation. The Making of Italy Abroad, Cambridge-London, Harvard University Press, 2008, p. 199.
[33] Giuseppe Bevione, “La Stampa”, 5 ottobre 1910, cit. in Enrico Corradini, Classi proletarie: socialismo, nazioni proletarie: nazionalismo, in Il Nazionalismo italiano. Atti del congresso di Firenze, e relazioni di E. Corradini, M. Maraviglia, S. Sighele, G. de Frenzi, F. Carli, L. Villari, M. P. Negrotto, a cura di Gualtiero Castellini, Firenze, Quattrini, 1911, p. 23.
[34] R. Balmaceda, Acerca de la “migración golondrina”, cit.
[35] J. Adelman, The Harvest Hand, cit., p. 99.
[36] Ibid., p. 95.
[37] Cfr. Alicia Bernasconi, Imigrantes Italianos na Argentina (1880-1930): Uma Aproximação, in Fazer a América. A Imigração em Massa para a América Latina, a cura di Boris Fausto, São Paulo, Editora da Universidade de São Paulo, 2000, p. 88; F. Devoto, Historia de los italianos, cit., pp. 237-239; James Belich, Repleneshing the Earth. The Settler Revolution and the Rise of the Anglo-World 1783-1939, Oxford University Press, Oxford 2009, pp. 531-532.
[38] Luigi Favero, Le liste di sbarco degli immigrati in Argentina, “AltreItalie”, 7 (1992), pp. 126-138. Il database è attualmente in possesso del Centro AltreItalie di Torino. Ringrazio Alvise Del Pra’, Maddalena Tirabassi e Paola Corti per avermi aiutato a orientarmi in questo lavoro; il collega dell’ISMed-Cnr Giovanni Canitano per il fondamentale supporto tecnico.
[39] Cfr. L. Favero, Le liste di sbarco degli immigrati, cit.
[40] Si veda per un caso simile, anche da un punto di vista lessicale: Elisabetta Calderini, Rocco Curto e Gemma Sirchia, Hirondelles 1860-1914. Storia e vicende dei lavoratori dell’edilizia in Piemonte, Torino, Celid, 1985.