Circolazioni odierne: la mobilità dei lavoratori stranieri nelle campagne italiane

1.       Introduzione

La circolarità del lavoro caratterizza parte dell’agricoltura italiana sin dalla seconda metà dell’Ottocento. Alcune inchieste di fine secolo, ad esempio quelle condotte dagli igienisti come Angelo Celli, mettono in evidenza la mobilità dei braccianti nel Centro Italia a seguito delle stagioni e delle relative colture.

Questo aspetto di lungo periodo del lavoro agricolo ha ridotto successivamente la propria incidenza, soprattutto dal secondo dopoguerra, trasformandosi in pendolarità giornaliera, specialmente quando ha interessato prevalentemente la forza lavoro bracciantile femminile. È il caso, ad esempio, della Piana del Sele in provincia di Salerno, a cui hanno dedicato attenzione Rocco Scotellaro e Gabriella Gribaudi. Dagli anni ‘80 a fianco a questa pendolarità, che in una serie di enclave agricole si è conservata, si è andata strutturando la circolarità dei lavoratori immigrati. Questi ultimi, in una loro parte, hanno iniziato a costruire circuiti migratori interni collegati alla stagionalità di una serie di colture, prevalentemente, ma non esclusivamente, nel Mezzogiorno. Come mostrato nella ricostruzione dello stato dell’arte delle conoscenze svolta nel paragrafo 2, alcune ricerche, tra cui soprattutto quelle di Domenico Perrotta, Francesco Caruso e Alessandra Corrado, hanno messo in evidenza una vera e propria “migrazione transumante”, collegata alle stagioni agricole e alle possibilità di impiego nelle operazioni di raccolta. Così come l’osservazione sul campo di Domenico Perrotta, insieme a quelle di Enrica Rigo e Nick Dines, ha rilevato come soprattutto negli anni più acuti della crisi iniziata nel 2008-2009 l’agricoltura sia diventata un settore rifugio per parte delle persone immigrate espulse dal sistema produttivo di fabbrica del Nord. La costruzione di circuiti stagionali ha investito e continua ad interessare biografie individuali e familiari, reti sociali di connazionali e corregionali, forme di resistenza silenziosa oltre che esperienze di autorganizzazione sindacale e sociale, anche esse in parte poco visibili, come è messo in evidenza nel paragrafo 3. Dalla ricostruzione dello stato dell’arte e di una serie di esperienze personali di mobilità per lavoro agricolo si ottiene un quadro del modo in cui aspetti strutturali e aspetti soggettivi si intrecciano nella definizione delle mobilità connesse al lavoro agricolo nell’Italia dell’ultimo trentennio. Nel paragrafo 4 vengono proposte alcune chiavi interpretative del fenomeno, elaborate considerando la composizione della popolazione coinvolta, i ghetti e gli insediamenti informali che lo caratterizzano, la compresenza di lavoro nero e lavoro grigio, l’intermediazione di manodopera. Il fenomeno viene inquadrato nell’ambito degli studi sulla mobilità[1] e le interconnessioni[2], intendendo il movimento come componente costitutiva della composizione della forza lavoro agricola. Infine, nel conclusivo paragrafo 5, si riportano alcune possibili ipotesi di lavoro futuro, che tengano presenti sia i limiti delle ricerche svolte sia i cambiamenti in corso, soffermandosi soprattutto sulla necessità della costruzione di più appropriati dati statistici e di ulteriori etnografie sistematiche. Tali ipotesi suggeriscono di aprire ai metodi della con-ricerca per dare rilevanza al punto di vista di chi vive questo tipo di condizione sociale e lavorativa. In questa prospettiva si deve ricorrere a fonti non convenzionali, come quelle che vengono dalle infrastrutture dei movimenti sociali e movimenti migranti, esemplificate dal caso del Centro Sociale Ex Canapificio di Caserta su cui si fonda il paragrafo 3.

2.       Lo stato dell’arte della ricerca

Le ricerche disponibili evidenziano la rilevanza della circolarità della manodopera per una parte dell’agricoltura italiana, specialmente nel Sud, giungendo anche ad individuare dei sistemi migratori che interessano alcune migliaia di lavoratori. Considerando la natura informale e semi-formale di una parte di questo tipo di occupazione è difficile fare una ricostruzione statisticamente fondata del fenomeno. Tuttavia, attraverso una rassegna delle ricerche realizzate nell’ultimo decennio è possibile ricostruire le caratteristiche finora note del fenomeno della circolarità nell’agricoltura italiana odierna. Alessandra Corrado ha ricostruito una tipologia delle diverse dinamiche di mobilità a livello territoriale, le quali si organizzano in base alle diverse condizioni di soggiorno e ai differenti tempi di permanenza[3]. Le dinamiche individuate sono le seguenti: “a) una migrazione di transito, prima di un successivo trasferimento nelle regioni del centro-nord del Paese o all’estero; b) una migrazione di ritorno, dalle regioni del Nord; c) una migrazione transumante, attraverso diverse regioni del Sud, in rapporto alle stagioni agricole e dunque alle opportunità di impiego nelle operazioni di raccolta; d) una migrazione circolare, da e verso il paese di origine; e) una migrazione di insediamento, più o meno stabile”.

Domenico Perrotta, invece, ha registrato la rilevanza dei circuiti stagionali per una parte dell’agricoltura italiana e della manodopera straniera occupata al suo interno[4]. In particolare, sono state individuate due popolazioni con percorsi, presenza e caratteristiche differenti: quella di origine africana e quella proveniente da alcuni paesi dell’Europa orientale.

Nel caso dei lavoratori agricoli africani sono state individuate tre strategie di mobilità tipiche. Una è quella della mobilità Sud-Nord. Essa è stata quella privilegiata fino alla crisi del 2007-2008. La seconda è quella della mobilità Nord-Sud, sviluppatasi a seguito della crisi. La terza, quella che maggiormente interessa nel nostro caso, è definita come strategia dei circuiti stagionali, individuata probabilmente in maniera iniziale dal rapporto di Medici senza frontiere del 2005[5] e, successivamente, riconosciuta e indagata in altri contributi, tra cui quelli di Caruso, Filhol e Corrado[6]. La mobilità connessa ai circuiti stagionali è collegata ai periodi di grande raccolta in alcune regioni dell’Italia meridionale. Il percorso più conosciuto è quello che interessa la Puglia e la Basilicata e poi la Calabria, con lavoratori originari soprattutto dell’Africa occidentale (Senegal, Mali, Burkina Faso, Ghana ecc.), titolari di status amministrativi eterogenei, che si spostano, in estate, nell’area della Capitanata e nella zona del Melfese-Alto Bradano per la raccolta del pomodoro da industria; in Autunno essi raggiungono le Piane della Calabria impiegati nella raccolta delle clementine e delle arance, sia verso la Piana di Gioia Tauro, sia verso la Piana di Sibari, cui si aggiunge la Piana di Metaponto, dove c’è domanda di manodopera per lavorazioni in campo aperto e in serra nei mesi più caldi[7]. Con la fine dell’inverno, una parte di questi lavoratori si sposta nell’area metropolitana tra Napoli e Caserta, altri presso familiari nel Nord Italia, e chi può torna per alcuni mesi nel paese di origine per riprendere, successivamente, il circuito.

A questo percorso di mobilità bracciantile particolarmente conosciuto, si affiancano altri: quello verso la Sicilia per la raccolta delle patate nel siracusano in primavera o delle olive nel trapanese in autunno; quello verso il Salento per la raccolta delle angurie e dei pomodori; il percorso di braccianti tunisini tra il Ragusano e il Salento, che lavorano alcuni mesi all’anno nelle serre della “fascia costiera trasformata” in Sicilia[8], per poi spostarsi a Nardò in giugno-luglio per la raccolta delle angurie[9]. Infine, un ulteriore percorso è quello che fuoriesce dal Meridione e ha interessato dai primi anni del secondo decennio l’area di Saluzzo (Cuneo), dove alcune centinaia di migranti di origine africana cercano impiego a partire dalla primavera, finita la stagione degli agrumi in Calabria[10].

Nel caso dei lavoratori provenienti dall’Europa orientale, Perrotta ha registrato soprattutto i percorsi delle persone che migrano dalla Romania occupate in agricoltura. C’è un tipo di mobilità circolare determinato in maniera non ufficiale tra Romania e Italia che riguarda proprio il lavoro stagionale in agricoltura. La manodopera impiegata si organizza attraverso il sostegno di reti di familiari, amici e conoscenti, tra i quali possono esserci dei caporali. Essa è composta da persone che risiedono nell’area in cui trovano lavoro, per poi tornare nel paese di origine dopo due, tre mesi. Perrotta evidenzia che “traiettorie di questo tipo sono frequenti nelle regioni del Sud Italia, sia nelle zone (…) delle ‘grandi raccolte’ (Capitanata, Piana di Gioia Tauro), sia nelle zone di agricoltura in serra (ad esempio nel Ragusano), ma anche in aree agricole del Nord, come il Trentino-Alto Adige e le aree rurali di Emilia-Romagna, Lombardia e Piemonte”[11]. A questo tipo di mobilità si aggiunge quello degli immigrati rumeni stabilmente residenti in Italia che, attraverso una strategia di “migrazione nella migrazione” si spostano per lavorare nelle raccolte agricole in assenza temporanea di occupazione. Di questa popolazione, come nota Ciniero, fa parte anche quella rom composta da “cittadini comunitari che lavorano stagionalmente in Italia tra settembre e maggio”, tornando in circa l’80% dei casi in Romania[12] e in parte in Bulgaria dalla Puglia[13].

Corrado e Perrotta[14] hanno rilevato il nesso tra tempi e ritmi dell’agricoltura e “ritmi sociali”[15] della mobilità e del lavoro, rilevando come i protagonisti della migrazione dall’Est Europa (Romania e Bulgaria) si muovano soprattutto da aree rurali e siano spesso piccoli contadini. Le loro “pratiche sociali di mobilità circolare sono dunque fondamentali, non solo per la valorizzazione economica, ma anche per la riproduzione dell’agricoltura familiare che, seppur marginalizzata dal diffondersi delle catene della grande distribuzione organizzata, risulta ancora importante per la sussistenza familiare e la resistenza al lavoro salariato”, svolgendo in alcuni contesti, specialmente quello della Piana di Sibari, una funzione di sostegno alla riproduzione dell’agricoltura familiare sia nel paese d’origine sia nei luoghi di inserimento.

Il fenomeno è conosciuto soprattutto mediante etnografie e ricerche sul campo, con limitati dati statistici a sostegno. Al tempo stesso, si tratta di un fenomeno in cambiamento dopo la strutturazione che lo ha caratterizzato dalla fine degli anni ‘80 alla fine del 2010, in quanto:

le testimonianze di diversi lavoratori stagionali residenti in quella che già dieci anni fa veniva definita la ‘capitale’ del circuito stagionale del lavoro agricolo (Msf, 2005), cioè l’area di Castel Volturno nella provincia di Caserta, concordano nella percezione di una diminuzione drastica del numero dei partecipanti ai “circuiti stagionali” e nella riduzione dei periodi di “transumanza” nelle diverse aree agricole del circuito stagionale, ormai ridotti a poche settimane, nei mesi estivi nel Foggiano per la raccolta del pomodoro e nella piana di Gioia Tauro nei mesi invernali per la raccolta agrumicola: “dieci anni fa eravamo almeno duemila persone che ci spostavamo a Foggia e poi in gran parte ci ritrovavamo a Rosarno pochi mesi dopo, oggi saremo al massimo ottocento persone” (intervista a Malik, bracciante maliano)[16].

In termini generali, vale quanto riportato da Corrado in merito al concetto di rururbanizzazione:

come alternativa al compimento di una nuova migrazione verso nuove destinazioni o verso i paesi di origine, vedremo che la strategia adottata è quella di spostarsi in altre località interne ai contesti nazionali, spesso in provincia, in piccoli comuni e in aree rurali, invertendo gli itinerari del passato e percorrendo la penisola da nord o sud, vivendo dinamiche di mobilità circolari o di pendolarismo (tra aree o regioni diverse, tra città e campagna)[17].

E, ancora più precisamente:

vi è poi il modello di produzione di massa e del lavoro temporaneo e precario, tipicamente quello di Rosarno, di Foggia o Saluzzo. Per fronteggiare la discontinuità del lavoro, molti immigrati aumentano la disponibilità alla mobilità, inseguendo le differenti stagioni di raccolta. L’agricoltura delle regioni più a sud si trova così a beneficiare di un «esercito di riserva» che si muove in relazione ai picchi di fabbisogno di forza lavoro, ma sempre di più di richiedenti asilo e rifugiati[18].

È necessario ricordare che questo tipo di mobilità si sostiene, di solito, sulla presenza di insediamenti abitativi informali, che assumono anche le caratteristiche di ghetti rurali, dei quali vari autori nel tempo hanno rilevato la presenza[19]. Tuttavia, ci sono parziali eccezioni. Ad esempio, nella Piana di Sibari sono impiegati prevalentemente migranti dall’Est Europa, gli occupati in agricoltura risiedono in case diroccate e abbandonate, in campagna o nei centri storici dei diversi comuni del comprensorio, presso le aziende agricole o nei centri urbani lungo la costa, in case di villeggiatura vuote. Sono spesso gli stessi datori di lavoro o i caporali a provvedere all’alloggio, oltre che al trasporto sui campi: “ciò avviene soprattutto nei casi di rapporti strutturati nel corso del tempo o di forme di reclutamento fin nei luoghi di origine, attraverso reti transnazionali che supportano dinamiche migratorie circolari. Tali forme di mobilità, come sostenuto da Corrado e Perrotta, si danno all’interno di uno spazio economico e sociale che coinvolge più territori, modalità di produzione e riproduzione”[20].

In conclusione, la bibliografia disponibile sulla mobilità per lavoro agricolo in Italia evidenzia tre elementi. Il primo riguarda la specifica composizione razziale e di genere della manodopera coinvolta in tale mobilità, in cui prevalgono i maschi, soprattutto neri e in parte dell’Europa orientale (Romania e Bulgaria), cui si affianca la presenza femminile, solitamente impegnata nei servizi di riproduzione in una serie di ghetti e campi, compresi i servizi sessuali. Irene Peano, in particolare, ha prestato attenzione a questa condizione, evidenziando come “parallelamente all’estensione delle supply chain dell’agro-industria su scala globale si sono sviluppati processi analoghi e a questi connessi: ai cicli di sostituzione della manodopera da parte di lavoratrici e lavoratori migranti è corrisposta la riorganizzazione delle ‘infrastrutture dell’intimità’ che permettono la riproduzione sociale nella sua accezione più ampia”[21]. Il secondo elemento si riferisce al fatto che la mobilità organizzata è connessa alle raccolte (dunque, ad una parte dell’agricoltura stagionale), ed interessa, pertanto, solo alcune enclave agricole. Non tutta l’agricoltura italiana e del Sud Italia dipende da questo tipo di percorsi, ma solo quella parte maggiormente collegata alla stagionalità e a specifiche colture. Il terzo elemento riguarda il fatto che alcuni percorsi di mobilità sono più vissuti di altri, producendo una specifica geografia che mette al centro alcuni territori, tra cui in particolare quello di Caserta, verso il quale si propone un breve approfondimento nel paragrafo successivo.

3.       Esperienze di mobilità per lavoro agricolo: La Castel Volturno Area e il caso del Centro Sociale ExCanapificio di Caserta

La sovrapposizione e riconfigurazione territoriale dovuta all’avanzata caotica dell’area metropolitana di Napoli lungo il litorale Domitio in un contesto storicamente rurale e con una forte vocazione agricola come quella dell’agro aversano, unita alla svalutazione dell’immenso patrimonio immobiliare sorto abusivamente per finalità turistiche pochi decenni prima, hanno rappresentato l’elemento determinante per il radicamento sul territorio casertano di reti, progetti e percorsi migratori. Fin dai primi anni ‘80 questi territori conoscono il fenomeno migratorio: Villa Literno, Mondragone, Pescopagano, Castel Volturno, diventano importanti mete di migliaia di africani aspiranti braccianti; “zone di confinamento” delle migrazioni irregolari, in cui i continui cicli migratori hanno riconfigurato quella che oggi viene considerata la “Castel Volturno Area” in ciò che Francesco Caruso definisce come un hub di connessione transcontinentale[22], dotato di una infrastrutturazione informale e autogestita di supporto, difesa e consolidamento dei percorsi migratori tra i paesi dell’Africa Subsahariana e la presunta “Fortezza Europa”. Sul finire degli anni ‘80, in seguito all’assassinio di Jerry Masslo, si cominciano a sperimentare le prime forme di solidarietà e di autorganizzazione dei braccianti sul territorio. In particolare si sperimentano forme di alleanza tra mondo dell’associazionismo e migranti, fino ad arrivare, nel 2002, alla nascita del Movimento Migranti e Rifugiati di Caserta e Castel Volturno (MMRC), con sede a Caserta presso il Centro Sociale ExCanapificio, punto di riferimento e di assistenza legale per migliaia di migranti presenti sul territorio.

Presso gli sportelli del Centro sociale, dal 2002 al 2019, sono stati ascoltati ed intervistati decine di migliaia di immigrati. L’attività portata avanti agli sportelli del centro sociale casertano nasce e si sviluppa, infatti, ribaltando il concetto di presa in carico di un migrante, partendo dall’ascolto e archiviando storie di vita e testimonianze degli utenti dello sportello. Quello che ha spinto alla nascita, alla crescita e al consolidamento del MMRC, che oggi conta più di 3000 iscritti, è ascrivibile essenzialmente ad un unico fattore, ossia all’impostazione sistematica di vertenze mirate, su tutte quella volta ad attuare un percorso di emersione dall’irregolarità giuridica. L’attività di intervista è stata, dunque, il baricentro di analisi in grado di far emergere criticità sociali e giuridiche da mettere in discussione; strumento politico volto ad interfacciarsi – dati alla mano – con le Istituzioni locali e nazionali preposte alla regolamentazione del fenomeno migratorio. Ciò ha di fatto portato alla raccolta di una notevole quantità di dati e informazioni, censiti in un database interno. Su un campione di oltre 12.000 migranti e richiedenti asilo, passati agli sportelli del centro sociale dal 2002 al 2019, risulta possibile mappare le principali tendenze che hanno caratterizzato i flussi migratori nell’Italia meridionale in questo arco temporale. Nello specifico, il database può essere interrogato in merito a: genere, età, itinerario migratorio (specificità dei flussi primari e secondari), percorso e status giuridico, attività lavorativa (stagionale, regolare, irregolare ed eventuali situazioni di sfruttamento).

Risulta dunque particolarmente interessante ricercare nello storico di questi dati le linee di tendenza che hanno caratterizzato il bracciantato dell’Agro Aversano e il ruolo ricoperto dalla Castel Volturno Area nei movimenti circolari dei braccianti.

Nei primi anni di attività degli sportelli si osserva una diffusione sistematica del lavoro nero in agricoltura, confermato ad esempio dal caso emblematico di A.J. Nigeriano, classe 1964 entrato in Italia nel 2003 e regolarizzato (motivi umanitari) solo nel 2018 grazie all’assistenza legale trovata allo sportello legale del Centro Sociale ExCanapificio. Nel suo storico si legge:

• […] partito dal suo paese arrivando in Niger a bordo di un autobus e poi a bordo di un pick up raggiunse la Libia, dove ha sostato per tre settimane prima di intraprendere il viaggio verso l’Italia

• Il suo barcone impiegò circa 7 giorni di navigazione per poi arrivare sulla costa di Lampedusa nel 2003;

• Da quando è in Italia ha da subito cercato un lavoro. Attualmente pur vivendo a Gricignano di Aversa si reca a Foggia durante il periodo di raccolta qui non avendo un’abitazione stabile dorme in capannoni fatiscenti con altri connazionali.

•Durante la raccolta lavora fino a 12 ore al giorno dalle 6 del mattino fino alle 18 di sera per 25/30 euro. Durante il resto dell’anno vive a Gricignano d’Aversa e lavora nelle terre limitrofe […].

Ultimamente i dati raccolti ci parlano invece di un cambio, di un’inversione di tendenza, con una lenta e silenziosa emersione, seppur subordinata e differenziata, relegata nelle nicchie occupazionali e abitative povere:

abbiamo notato in questi ultimi anni un aumento esponenziale dei contratti grigi. Sono aumentati controlli denunce ed ispezioni: un agricoltore preferisce dunque dichiarare al ribasso piuttosto che non dichiarare per nulla, perché sa che comunque rischia di andare incontro a sanzioni. E quindi anche l’agricoltore, che fondamentalmente è vittima a sua volta di un sistema che lo vede costretto a vendere i suoi prodotti ad un prezzo ribassato sul mercato, preferisce tenerti con contratto piuttosto che a nero (Intervista a Mariarita Cardillo, operatrice legale del Centro Sociale ExCanapificio).

La crescita rilevante della componente migrante nel mercato del lavoro agricolo rientra dunque a pieno titolo nel processo più generale di grigizzazione dell’impiego in agricoltura[23], riflessa per l’appunto nel numero di lavoratori immigrati formalmente ingaggiati, come peraltro recentemente rilevato anche nel contesto rosarnese[24].

Ovviamente, non va dimenticato come questo significativo balzo in avanti è legato a doppio filo con il ricorso sistematico al lavoro nero in agricoltura fino al recente passato, ma che tuttavia oggi risulta significativamente ridotto. Processo questo che potrebbe essere però minato alla base a seguito delle più recenti riforme legislative[25], che, se non ci sarà un’inversione di tendenza nel sistema legislativo, comporteranno nel giro di pochi anni la perdita del permesso di soggiorno per migliaia di immigrati titolari protezione per motivi umanitari, regolarizzati nel corso di questi anni.

4.       Analisi teorica sul tipo di mobilità

Parlando dei modelli di mobilità nell’attuale panorama globale, Glick Schiller e Salazar[26] mettono in campo il concetto di regimi di mobilità. Affermano che nell’articolazione dei percorsi di (im)mobilità delle persone intervengono una serie di fattori strutturali che possono agevolare o limitare le possibilità di movimento. Questo processo appare palese nei percorsi di mobilità transnazionale dove vari regimi interconnessi di carattere giuridico, sociale, economico e simbolico, influenzano in maniera strutturante le decisioni, le capacità, le modalità e la possibilità stessa di muoversi[27].

Come visto lungo l’articolo, in realtà, queste strutture possono intervenire e strutturare la vita dei soggetti anche fuori da regolamenti istituzionali, da sistemi di governo del movimento e dalla stessa dicotomia tra formale e informale.

L’analisi delle mobilità circolari dei braccianti stranieri in Italia in realtà, mette in luce una correlazione diretta tra sistema di lavoro agricolo, il gli spazi del lavoro e lo status legale dei lavoratori. Questa relazione produce sistemi di mobilità dove come sottolineato da De Brujin e Van Dijk spazio, status e movimenti assumono un carattere interconnesso[28]. Questo sistema, sicuramente attinge a forme storicizzate della condizione bracciantile sia a livello locale, come ad esempio negli studi sulle civiltà contadine del meridione Italiano[29], che in ambito internazionale – con la costruzione di un “proletariato agricolo nomade” tra Ottocento e Novecento[30]. Tuttavia questo sistema possiede caratteri nuovi che afferiscono alla condizione sociale dei lavoratori migranti, determinandone in maniera strutturale le traiettorie di (im)mobilità.

L’attenzione alle migrazioni circolari in campo agricolo, in questo modo, permette di porre l’attenzione su quei fattori che Faist definisce come micro, meso e macro, i quali entrano nella determinazione dei percorsi di vita dei braccianti agricoli[31]. Il focus sullo status dei braccianti ad esempio permette di tenere in considerazione il processo di interrelazione tra i percorsi di vita dei lavoratori agricoli e le politiche di costruzione della cittadinanza Europea.

Come visto nell’articolo ad esempio è possibile notare che per i lavoratori dell’Est Europa appartenenti all’Unione europea (come, ad esempio, i romeni) il contesto di origine rappresenta una risorsa fondamentale nella costruzione di modelli di mobilità circolari. Ciò non emerge per migranti extraeuropei in cui la “casa” pur rappresentando un punto di riferimento centrale nella costruzione del progetto migratorio, assume i connotati dello spazio diasporico così come lo disegna Robert Brubaker[32]: un contesto verso cui tendere in un futuro più o meno lontano per concludere il progetto migratorio piuttosto che un punto di riferimento nella costruzione dei percorsi di mobilità transnazionali.

I regimi di costruzione differenziale del movimento interni alla cosiddetta Fortezza Europa entrano così nella costruzione del progetto migratorio ben dopo l’attraversamento della frontiera. Per alcuni rendono più semplice la possibilità di costruire circolarità connesse al contesto di origine, per altri la complicano o la rendono quasi impossibile.

Le mobilità circolari a carattere transnazionale dei migranti impiegati in agricoltura, però, non sono connesse solamente al contesto d’origine. Come emerge nel lavoro di Schapendonk, e Steel stanno infatti strutturandosi percorsi migratori strutturalmente mobili all’interno dell’UE[33]. Ciò accade soprattutto tra i soggetti che dall’inizio del nuovo millennio sono giunti in Europa attraverso la rotta Mediterranea. L’attenzione alle migrazioni circolari permette così di prendere in considerazione la relazione costitutiva tra sistema di accoglienza e sfruttamento agricolo. Questa relazione, come evidenziato da una serie di studiosi[34], lega a doppio filo migranti e sistema agricolo già durante il periodo di accoglienza, che rappresenta per molti un limbo che porta all’irregolarità[35].

Per molti dei soggetti ospitati nelle strutture d’accoglienza, in realtà, questo legame con lo spazio agricolo rimane costitutivo a prescindere dai percorsi di mobilità attivati in uscita dai centri. Le campagne (in special modo quelle del Sud, ma anche l’agro Pontino o a Saluzzo) costituiscono infatti poli attrattivi fondamentali a carattere tanto translocale quanto transnazionale nelle circolarità lavorative. Durante l’estate e in particolare durante il periodo della raccolta, le campagne del Sud diventano meta di percorsi sia dal Nord Italia che dal Nord Europa per soggetti migranti con vari gradi di vulnerabilità e precarietà. Per rifugiati, migranti lungo soggiornanti così come per richiedenti asilo e irregolari, gli spazi agricoli rappresentano così parte integrante di un progetto migratorio di dimensione più o meno ampia (regionale, nazionale, europea) ma ugualmente basato sulla precarietà e contrassegnato da violenza istituzionale e vulnerabilità.

L’attenzione alle mobilità circolari pone infine l’accento sull’intima interconnessione tra contesti agricoli spazialmente distanti. Una connessione che assume un valore preponderante in special modo per i lavoratori agricoli provenienti dall’Africa. La differenziazione della produzione agricola nelle campagne del sud mette in moto un sistema di mobilità lavorativa interregionale a carattere circolare tra spazi definiti come afro-europei[36]. In questi spazi vige un sistema tanto informale quanto organizzato di costruzione del territorio e sono basati su sistemi sociali, culturali, economici e simbolici che trascendono l’idea egemonica di cittadinanza, spazio e identità europea. Questi spazi che, come Nota Heather Merrill, risultano essere formalmente disconnessi dal più ampio contesto locale[37], diventano risorse a disposizione dei movimenti dei braccianti componendo un sistema spaziale gerarchicamente interconnesso e organizzato con un sistema di centri e periferie. In questo senso, come emerso nell’articolo, uno spazio agricolo che nel discorso pubblico rappresenta un centro del degrado, dell’illegalità e dello sfruttamento quali l’area di Castelvolturno, costituisce in realtà, un hub fondamentale di un insediamento a carattere translocale che si snoda tra le regioni del Sud Italia, tra ghetti più o meno organizzati, occupazioni abitative, affitti in nero o in grigio. Uno spazio interconnesso basato su precarietà e sfruttamento che nutre non soltanto il sistema produttivo agricolo ma anche il sistema clientelare su cui storicamente si regge lo spazio agricolo meridionale. Un sistema dove fioriscono vecchi e nuovi intermediari (i cosiddetti caporali) che riproducono una rete fatta di informalità, concentramento delle risorse, disinvestimento territoriale. È in questo quadro costitutivo della condizione delle campagne del Sud Italia che si orientano i percorsi sociali ed economici dei braccianti agricoli.

Le migrazioni circolari di tipo bracciantile risultano essere così uno spazio privilegiato dove prendere in considerazione il processo di sovrapposizione tra sistema produttivo, spazio agricolo, status legale e mobilità. Una sovrapposizione basata sullo sfruttamento delle persone e dei territori, su forme di lavoro nero e grigio, sul mantenimento dello status quo a livello locale, nazionale e internazionale.

5.       Conclusioni

È evidente che le migrazioni circolari assumano una rilevanza centrale nella comprensione dell’attuale rapporto tra migrazioni ed agricoltura in Europa ed in Italia. Questa relazione, basata sullo sfruttamento della forza lavoro e sulla mobilità, è tale da identificare lo spazio agricolo (che ha storicamente costituito e costituisce tuttora il centro delle retoriche su identità locali “autentiche”) come luogo di elezione delle migrazioni.

Questo fenomeno ha risvolti importanti sia per quanto riguarda (1) le modalità attraverso cui intendiamo lo spazio agricolo, che (2) le forme attraverso cui intendiamo i percorsi di (im)mobilità. Allo stesso tempo chiama alla necessità di (3) costruire forme di produzione del sapere adeguate che riescano a dare conto della complessità attraverso cui si articola il fenomeno in questione. Le migrazioni circolari in campo agricolo possono in questo modo costituire un punto di vista privilegiato attraverso cui leggere i fenomeni su cui si articola un vero e proprio spazio di frontiera Afro-europeo.

1) Migrazioni circolari e idee di spazio (locale, nazionale e europeo)

L’analisi ha mostrato inequivocabilmente l’esistenza di un piano di continuità tra le vecchie e nuove forme di mobilità circolare nelle campagne del Sud. Questi modelli di riproduzione della forza lavoro agricola risultano affatto contingenti e ci interrogano sulla rilevanza del fenomeno delle migrazioni circolari nei processi di riproduzione dello spazio locale.

Oggi come agli inizi del Novecento le migrazioni per lavoro agricolo si muovono tra nodi di connessione e luoghi del lavoro, spazi di concentramento e luoghi di reclutamento. Oggi come allora si fondano in una dimensione spaziale ampia che chiama in causa facilitatori e infrastrutture della mobilità.

Appare palese che il fenomeno che Colloca e Corrado hanno definito “globalizzazione delle campagne” abbia enormemente ampliato la scala e l’intensità delle connessioni tra questi spazi. Tuttavia, sebbene attraversate da una forza lavoro globale, le configurazioni socio-spaziali prodotte nei contesti agricoli sembrano basarsi su rapporti di forza storicamente consolidati. L’analisi delle migrazioni circolari in agricoltura, in questo senso, parla degli spazi che attraversa, delle sue configurazioni sociali, dei suoi modelli di culturali, dei suoi processi di riproduzione delle strutture economiche e politiche.

Può aprire così scenari interessanti sulle forme di composizione e ricomposizione delle identità locali e sulle modalità attraverso cui si riproduce la frattura identitaria migranti/nazionali. Allo stesso tempo permette di guardare alle forme di ricomposizione creativa di queste forme di distinzione, rendendo visibili gli effetti a medio e lungo termine di una presenza globale storicizzata negli hub di riferimento dei circuiti agricoli. La presenza migrante in agricoltura ha trasformato e riadattato la geografia culturale dei luoghi che attraversa, ha costruito nuove alleanze e nuove forme di riproduzione locale i cui effetti a lungo termine sono ancora tutti da comprendere. Basti immaginare che la scuola comprensiva Virgilio nella frazione di Santa Cecilia di Eboli (cuore dello sfruttamento agricolo della piana del Sele) abbia un terzo degli alunni iscritti di nazionalità non italiana. Le migrazioni circolari in campo agricolo risultano così punti di vista privilegiati dove leggere i processi di produzione della provincia globale e le nuove idee di località di nazione e di Europa che da essa conseguiranno.

2) Migrazioni circolari e percorsi di (im)mobilità

L’analisi ha altresì mostrato l’esistenza di slittamenti importanti per quanto riguarda la costruzione dell’esperienza delle migrazioni circolari e di reti di riferimento differenziate per status e razza che influenzano pesantemente le vite dei soggetti coinvolti. Ad esempio si è evidenziato (paragrafo 4) come regimi delle migrazioni differenziali dei soggetti coinvolti producano differenti idee del contesto di origine e in definitiva del concetto stesso di “casa”: per i soggetti più precari (da un punto di vista di status, di condizione economica, di risorse sociali) l’idea di casa (il nodo centrale dei percorsi migratori circolari) se da un punto di vista di immaginari assume un valore centrale, dal punto di vista operativo ha una funzione contingente e contestuale. I processi di riconfigurazione dello spazio locale nelle campagne del Sud hanno prodotto i famosi ghetti che in realtà funzionano come sia come hub territoriali in uno spazio interconnesso che come contesti di appaesamento dove riprodurre idee di casa.

Il fenomeno preso in considerazione in questo modo aiuta a rimettere in gioco molti dei pilastri concettuali su cui si basa la lettura del fenomeno migratorio nel discorso pubblico: la definizione stessa di progetto migratorio, di contesti di transito ed arrivo, di displacement, vanno risemantizzate. Le limitazioni costitutive ai regimi migratori attraverso cui si riproduce la presenza di forza lavoro migrante in agricoltura, così come le forme di ri-elaborazione dal basso di questa presenza chiamano direttamente in causa la necessità di riconsiderare quella che Malkki definisce come “metafisica sedentarista”[38], la tendenza a inquadrare la mobilità umana come un’anomalia; tendenza che ancora oggi è egemonica nelle attività di governance delle migrazioni transnazionali.

Le migrazioni circolari, apparendo come fenomeno costitutivo nelle campagne del Sud, rompono l’idea di progetto migratorio di partenza arrivo e transito e chiamano in causa da un lato alla necessità di azioni di governance che tengano conto delle aspirazioni delle persone e dall’altro a uno sforzo di analisi di quello che comunemente viene definito come “limbo” ma che come visto nell’articolo può configurarsi come costitutivo all’esperienza migratoria.

3) Lavorare la frontiera

Lavorare questo spazio strutturalmente liminale e strutturalmente fondato sulla mobilità dei soggetti coinvolti, significa attivare una serie di strumenti che tengano conto del fenomeno da un punto di vista spaziale, politico, economico, sociale.

Gli spazi agricoli del Sud Italia stanno rapidamente assumendo la funzione di contesti di frontiera, dove le vecchie e nuove strutture economiche e sociali riproducono la frattura afro-europea, quella che Anzaldúa definisce come la “ferita aperta dove il Terzo Mondo viene a scontrarsi con il primo e sanguina” [39].

Gli attuali regimi migratori che costruiscono una distinzione socio-razziale dell’esperienza della (im)mobilità chiamano in primis alla necessità di produrre analisi differenziate e di decostruire la categoria “migrante” in base a razza, classe e genere.

Allo stesso tempo, questo spazio di frontiera chiama però alla necessità di sguardo analitico profondo che tengano conto delle continuità e delle discontinuità su cui si regge oggi questo sistema socio-spaziale-legale che determina l’esperienza migratoria.

Studiare la frontiera significa riprendere i tropi della mai sopita questione meridionale o dell’antropologia del mediterraneo e reinnestarle all’interno di uno spazio iper-marginale e iper-ghettizzato[40] e allo stesso tempo iper-globalizzato e iper connesso. Significa inoltre prendere in considerazione il carattere creativo di questo spazio, i fenomeni di rielaborazione politico-sociale dal basso che vengono messi in gioco per “navigare” il sistema di costrizioni che orienta le vite dei soggetti coinvolti.

Studiare la frontiera significa infine costruire alleanze. In uno spazio segnato da disuguaglianze strutturali ma co-abitato, la comprensione della frontiera non può che passare per un coinvolgimento attivo nei processi che ne determinano i funzionamenti. Il caso del “movimento migranti e rifugiati” di Caserta oltre a mostrare in maniera palese una possibile declinazione politica dell’attività di raccolta dati, illumina uno dei nodi centrali attraverso cui si riproduce la valenza economica, sociale e spaziale di questi spazi agricoli interconnessi. La lotta per il “documento” non è una mera fuoriuscita dall’invisibilità a livello istituzionale. È la possibilità concreta di costruire percorsi di mobilità alternative, di diminuire fortemente le costrizioni che gravano sulla produzione delle soggettività migranti.

In questo senso lavorare la frontiera chiama a costruire alleanze tra studiosi, attivisti, policy maker e gruppi migranti al fine di produrre conoscenza e strumenti di azione utili all’emancipazione sociale e politica collettiva.


[1]           Nina Glick Schiller e Noel Salazar, Regimes of Mobility Across the Globe, “Journal of ethnic and migration studies”, 39 (2012), pp. 183-200.

[2]           Miriam De Bruijn e Rijk van Dijk, Connectivity and the Postglobal Moment: (Dis)connections and Social Change in Africa, in The social life of connectivity in Africa, a cura di Idd., New York, Palgrave Macmillan, 2012, pp. 1-20.

[3]           Alessandra Corrado, Ruralità differenziate e migrazioni nel Sud Italia, “Agriregionieuropa”, 28 (2012), pp. 72-75.

[4]           Domenico Perrotta, Il lavoro migrante stagionale nelle campagne italiane, in L’arte di spostarsi. Rapporto 2014 sulle migrazioni interne in Italia, a cura di Michele Colucci e Stefano Gallo, Roma, Donzelli, 2014, pp. 21-38.

[5]           Medici senza frontiere, I frutti dell’ipocrisia. Storie di chi l’agricoltura la fa. Di nascosto. Indagine sulle condizioni di vita e di salute dei lavoratori stranieri impiegati nell’agricoltura italiana, Roma, Sinnos editrice, 2005.

[6]           Francesco Caruso, Dal ghetto agli alberghi diffusi: l’inserimento abitativo dei braccianti stagionali nei contesti rurali dell’Europa meridionale, “Sociologia urbana e rurale”, 116 (2018), pp. 78-92; Romain Filhol, Les travailleurs agricoles migrants en Italie du Sud. Entre incompréhension, instrumentalisation et solidarités locales, “Hommes & Migrations”, 1301 (2013), pp. 139-147; A. Corrado, Ruralità differenziate, cit.

[7]           Questi fenomeni vengono descritti riguardo alla Piana di Gioia Tauro da Carlo Colloca, Campagne meridionali, immigrati e lotte sociali. Il caso Rosarno, in La globalizzazione delle campagne. Migranti e società rurali nel Sud Italia, a cura di Id. e Alessandra Corrado, Milano, FrancoAngeli, 2013, pp. 30-46. Per quanto riguarda la piana di Sibari si veda nello stesso volume A. Corrado, Territori circolanti. Migrazioni e agricoltura nella Piana di Sibari, pp. 45-70.

[8]           Valeria Piro, Che cos’è la giusta paga? Negoziazioni sul prezzo del lavoro in una serra siciliana, “Etnografia e Ricerca Qualitativa”, 2 (2014), pp. 219-44.

[9]           AA.VV., Sulla pelle viva. Nardò: la lotta autorganizzata dei braccianti agricoli, Roma, Deriveapprodi, 2012.

[10]          D. Perrotta, Il lavoro migrante stagionale nelle campagne italiane, cit.

[11]          Ibid., p. 28.

[12]          Associazione 21 Luglio, I Margini del margine. Rapporto annuale 2018 dell’Associazione 21 luglio, in https://www.21luglio.org/2018/wp-content/uploads/2019/04/rapporto-annuale-2018.pdf, p. 10.

[13]          Antonio Ciniero, Analisi dei processi di esclusione/inclusione sociale dei gruppi rom. Un caso studio, “Palaver”, 8 (2019), pp. 103-155

[14]          Alessandra Corrado e Domenico Perrotta, Migranti che contano. Percorsi di mobilità e confinamenti nell’agricoltura del Sud Italia, “Mondi migranti”, 3 (2012), pp. 103-128.

[15]          Alain Tarrius, Les Fourmis d’Europe, Paris, L’Harmattan, 1992.

[16]          Francesco Caruso e Alessandra Corrado, Migrazioni e lavoro agricolo: un confronto tra Italia e Spagna in tempi di crisi, in L’arte di spostarsi, cit., p. 63.

[17]          Vedi Alessandra Corrado, Migrazioni, processi di rururbanizzazione e lavoro, “Urban@it”, Working paper, https://www.urbanit.it/wp-content/uploads/2018/10/BP_Corrado.pdf, p. 5.

[18]          Ibid., p. 8.

[19]          Si veda tra gli altri Gennaro Avallone e Salvo Torre, Dalla città ostile alla città bene comune. I migranti di fronte alla crisi dell’abitare in Italia, “Archivio di studi urbani e regionali, 115 (2016), pp. 51-74, nonché sullo stesso fascicolo il lavoro di F. Caruso, Dal ghetto agli alberghi diffusi, cit.

[20]          A. Corrado e M. Perrotta, Migranti che contano, cit., p.113.

[21]          Irene Peano, Supply chain affettive tra agro-industria e migrazioni, contenimento e rifugio, in Un mondo logistico: Sguardi critici su lavoro, migrazioni, politica e globalizzazione, a cura di Nicola Cuppini, e Irene Peano, Milano, Ledizioni, 2019, p. 69.

[22]          Francesco Saverio Caruso, La politica dei subalterni. Organizzazioni e lotte del bracciantato migrante nel Sud Europa, Roma, Deriveapprodi, 2015.

[23]          Gennaro Avallone, Sfruttamento e resistenze. Migrazioni e agricoltura in Europa, Italia, Piana del Sele, Verona, Ombre corte, 2017.

[24]          Cleto Corposanto, Charlie Barnao e Francesco Saverio Caruso, Monitoraggio della presenza degli immigrati nell’area di Rosarno, Rapporto finale di Ricerca, Dipartimento di Giurisprudenza, Economia e Sociologia – Università di Catanzaro e Comune di Rosarno, 2019.

[25]          Il decreto legge 113/2018 ha abrogato la norma che consentiva il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi umanitari, il cui rinnovo è ora subordinato ad un regolare contratto di lavoro o al parere della commissione territoriale di riferimento. L’articolo 13 stabilisce inoltre che il permesso di soggiorno per richiesta asilo non permetterà l’iscrizione anagrafica, rigettando nell’invisibilità amministrativa una parte considerevole del bracciantato migrante, alla luce della progressiva refugeeization dello stesso (Nick Dines ed Enrica Rigo, Postcolonial citizenships and the ‘refugeeization’ of the workforce: migrant agricultural labor in the Italian Mezzogiorno, in Postcolonial transitions in Europe: contexts, practices and politics, a cura di Sandra Ponzanesi e Gianmaria Colpani, Lanham MD, Rowman & Littlefield, 2015, pp. 151-172).

[26]          N. Glick Schiller e N. Salazar, Regimes of Mobility Across the Globe, cit.

[27]          Basti pensare all’importanza del regime dei passaporti e delle frontiere, ai processi di inclusione/marginalizzazione negli stati nazione di arrivo o all’attivazione di reti migratorie nella costruzione dell’esperienza migrante.

[28]          M. De Bruijn e R. van Dijk, Connectivity and the Postglobal Moment, cit.

[29]          Non è la sede per affrontare il panorama di studi sulle cosiddette civiltà contadine. Considerando i lavori provenienti dall’osservazione diretta e quindi senza considerare teorici della questione meridionale, ha senso concentrarsi sul secondo dopoguerra. Un ruolo preminente in tal senso la scuola di Portici e la figura di Manlio Rossi Doria. Tra le figure che in maniera più o meno diretta hanno gravitato attorno alla scuola possiamo ricordare De Martino, Seppilli, Scotellaro, Carlo Levi.

[30]          Indicativo è in tal senso il lavoro sulla condizione degli Hobo negli Stati Uniti di Nels Anderson, The Hobo: The story of Chicago’s prohibition era, London, Hutchinson, 1927.

[31]          Thomas Faist, The mobility turn: a new paradigm for the social sciences?, “Ethnic and racial studies”, 36 (2013), pp. 1637-1646.

[32]          Robert Brubaker, The “diaspora” diaspora. “Ethnic and racial studies, 28 (2004), pp. 1-19.

[33]          Joris Schapendonk e Griet Steel, Following Migrant Trajectories: The Im/Mobility of Sub-Saharan Africans en Route to the European Union, “Annals of the Association of American Geographers”, 104 (2014), pp. 262-270.

[34]          Si veda tra gli altri i lavori già citati di Perrotta, Il lavoro migrante stagionale, e di Dines e Rigo, Postcolonial citizenships, nonché quello di Gennaro Avallone, Il sistema di accoglienza in Italia. Esperienze, resistenze, segregazione, Salerno, Orthotes, 2019.

[35]          Non a caso, alcune delle aree più interessate dalla presenza di centri d’accoglienza nel meridione. sorgono nelle immediate vicinanze dei contesti agricoli. Esempio paradigmatico è il Cara di Borgo Mezzanone, sito a poche centinaia di Metri dall’omonimo “ghetto”. Sull’accoglienza come spazio liminale è indicativo il lavoro di Giuseppe Grimaldi, Tra sbarco e approdo: liminalità e valore performativo del transito dei richiedenti asilo eritrei ed etiopi nel quartiere di Milano Porta Venezia. “Mondi Migranti”, 29 (2016), pp. 229-237.

[36]          Si veda tra gli altri il lavoro di Timothy Raeymaekers, The laws of impermanence: displacement, sovereignty, subjectivity, in Handbook on Critical Geographies of Migration, a cura di Katharyne Mitchell, Reece Jones e Jennifer L. Fluri, Cheltenham UK, Edward Elgar Publishing, 2019, pp. 58-68.

[37]          Heather Merrill, Postcolonial Borderlands: Black Life Worlds and Relational Place in Turin, Italy, “ACME: An International Journal for Critical Geographies”, 13, 2 (2014), pp. 263-294.

[38]          Lisa Malkki, National geographic: The Rooting of Peoples and the Territorialization of National Identity among Scholars and Refugees, “Cultural Anthropology”, 7 (1992), pp. 24-44.

[39]          Gloria Anzaldúa, Borderlands: la frontera. The new mestiza, San Francisco, Aunt Lute, 1987, p. 3.

[40]          Loïc Wacquant, Three pernicious premises in the study of the American ghetto, “International Journal of Urban and Regional Research”, 21 (1997), pp. 341-353.