- Introduzione
Le politiche migratorie sono generalmente considerate dal punto di vista dei paesi di arrivo, per cui le loro analisi storiche sono state quasi sempre delle storie delle politiche di immigrazione, conferendo poco spazio al ruolo dei paesi di partenza e alle politiche di emigrazione[1]. In questo lavoro intendiamo rovesciare il paradigma dell’immigrazione e indagare la nascita e la configurazione delle politiche migratorie dal punto di vista delle partenze[2]. In particolare, consideriamo le politiche di emigrazione adottate dall’Italia nel periodo delimitato dall’Unificazione alla crisi economica del 1929[3].
In questo lavoro si parte dall’assunto che i movimenti migratori che interessano l’Italia oggi, possono essere compresi e governati meglio allorquando si ricostruisca una loro visione complessiva legandoli a quelli passati. In altre parole, oltre a comprendere l’attuale fase migratoria nel contesto economico, politico e sociale che la caratterizza, è altresì fondamentale inserirla nelle linee di sviluppo storiche al termine delle quali stanno i problemi del presente.
L’ipotesi guida di questo lavoro è che l’unificazione dell’Italia, in quanto evento motore della costruzione del nuovo Stato, ha rappresentato anche l’innesco di una nuova strutturazione del fenomeno emigratorio italiano. Inoltre, la lunga sequenza degli eventi costituenti il processo di unificazione ha creato anche l’occasione per l’avvio dell’azione politica intorno all’emigrazione italiana e di una sua progressiva politicizzazione attraverso sia la legiferazione che la produzione di senso politico sull’emigrazione. Per unificazione dell’Italia non si intende soltanto l’unione di tutti gli Stati italiani preunitari nel Regno d’Italia. Accanto a questa dimensione più propriamente politico-territoriale, vanno considerati anche gli altri ambiti interessati dal processo di unificazione, quali quello amministrativo, finanziario, economico e dei rapporti del nuovo stato con la società, in particolare la legittimazione politica e sociale del nuovo Regno italiano[4]. La complessità di questo processo e lo squilibrio socioeconomico esistente tra le diverse regioni d’Italia, hanno conferito all’unificazione esiti e tempi differenziati[5], per cui mentre l’unificazione territoriale poteva dirsi conclusa con la proclamazione di Roma capitale d’Italia nel 1871, per molti anni ancora continueranno a persistere le altre questioni attinenti all’unificazione italiana, quale ad esempio quella meridionale che rappresenta a tutt’oggi la questione nazionale.
- L’Italia unita e le politiche di emigrazione: il periodo delle circolari
All’indomani dell’Unità d’Italia, alla classe politica del nuovo stato non si poneva solamente la questione sul come legiferare in tema di emigrazione, ma in premessa si poneva il perché legiferare, cioè in base a quali motivi si doveva regolare l’emigrazione e quali scopi lo stato doveva perseguire attraverso questo nuovo tipo di legislazione.
Cominciamo col dire che gli italiani già emigravano quando “l’Italia era solo un’espressione geografica”. L’emigrazione degli italiani è un’esperienza che ha origini più antiche della formazione dello stato italiano unitario e ha segnato e segna tuttora il suo sviluppo sociale ed economico. In merito all’emigrazione prima dell’Italia unita, bisogna ricordare il ruolo di due importanti regioni migratorie come il Veneto e dalla Liguria. La prima ha rappresentato la pioniera dell’emigrazione italiana verso l’America Latina, mentre la seconda ha costituito l’avanguardia dell’emigrazione italiana verso gli Stati Uniti[6]. Dunque, il regno Sabaudo, il nucleo fondante del futuro regno d’Italia, già conosceva bene l’emigrazione dei propri sudditi e aveva verso di essa un atteggiamento di notevole apertura, dato che ne traeva non pochi benefici[7]. E l’atteggiamento di laisser-faire maturato negli anni dalla classe dirigente piemontese, legittimato da Cavour stesso, nei confronti dell’emigrazione assunse una posizione egemonica per molti anni.
All’epoca l’emigrazione era considerata alla stregua di una semplice operazione commerciale tra due parti, con riserva dello Stato di intervenire se e solo se nel caso in cui i patti non fossero stati osservati e i contraenti avessero sollecitato tale intervento[8]. Dal 1861 fino al 1888, data della promulgazione della prima legge italiana sull’emigrazione, la materia era considerata di competenza del Ministero degli interni e regolata tramite circolari ministeriali. In generale, sulla materia servivano da riferimento due dispostivi legislativi: la legge del 13 novembre 1857 sul rilascio dei passaporti, la cui validità fu estesa al Regno d’Italia dopo l’unificazione; e gli articoli 65 della legge dell’unificazione amministrativa del Regno d’Italia, e art. 64 della legge di Pubblica sicurezza del 20 marzo 1865. Ad essi devono essere aggiunti anche le parti del regolamento di applicazione del suddetto testo che regolavano le agenzie pubbliche e pertanto anche le agenzie di emigrazione in mancanza di una legge speciale. Tenendo fermo il principio che l’emigrazione fosse un diritto individuale, per i legislatori italiani il problema principale era quello di stabilire un sistema di vigilanza efficiente sulle operazioni di arruolamento e di imbarco, sempre nella concezione che l’emigrazione in quanto diritto individuale si potesse tutelare nella misura in cui si tutelano le parti di un contratto. I problemi che nascevano con l’intensificarsi dei flussi in uscita dall’Italia venivano affrontati attraverso la diramazione di circolari contenenti istruzioni per le forze di pubblica sicurezza e i prefetti sulle procedure e i comportamenti da adottare sulle questioni attinenti all’emigrazione.
La prima circolare prodotta nell’Italia unita sulla materia è del 1° novembre 1861 contenente istruzioni in merito al rilascio dei passaporti per l’estero agli indigenti[9]. Essa consigliava ai funzionari addetti al rilascio dei passaporti di non accettare le richieste di quegli individui che non dimostrino di avere i mezzi necessari per il viaggio, oppure che lascino il fondato sospetto di volersi recare all’estero per abbandonarsi all’ozio, alla mendicità o al vagabondaggio[10]. Circolari ministeriali con questo contenuto si sono succedute solamente altre due volte negli anni seguenti ‒ precisamente nel 1862 e nel 1864 ‒ aggiungendo agli indigenti una volta i disoccupati e i minorenni e, la seconda volta, i suonatori ambulanti. Queste istruzioni però hanno avuto una scarsa applicazione, in quanto il rilascio dei passaporti avveniva dietro presentazione del nullaosta rilasciato dall’ufficio di Pubblica sicurezza e un certificato di buona condotta dato all’interessato dalle autorità municipali. Questi ultimi avrebbero dovuto garantire la reale serietà del progetto migratorio dei richiedenti. Queste autorità difficilmente rifiutavano di concedere nullaosta e certificati ai propri concittadini, anche se indigenti, anzi soprattutto.
Anche se forse sembra eccessivo accusare le nuove istituzioni italiane di completa indifferenza nei confronti dell’emigrazione[11], però sicuramente da parte di queste si registrava un trascurabile interesse, caratterizzato però da un generale atteggiamento di apertura nei confronti delle partenze, almeno fino al 1867. A spiegazione di questa relativa negligenza si possono citare due ordini di motivazioni.
Da un lato, pesava la perdurante bassa intensità dei flussi migratori in uscita che si muovevano ancora lungo le vecchie direttrici e con le tradizionali modalità delle migrazioni antecedenti all’Italia unita. L’emigrazione dunque non assumeva un carattere emergente e anzi concorreva nel mantenimento del delicato equilibrio tra l’eccedenza della forza lavoro nelle campagne italiane e la domanda di lavoro agricolo fortemente concentrata in determinati periodi dell’anno. Dal lato opposto, il governo si trovava ad affrontare le più urgenti questioni attinenti alla costruzione dello stato unitario e al completamento dell’unificazione territoriale con la liberazione di Venezia e Roma[12]. Gli stessi democratici assegnavano la priorità a questi ultimi aspetti e la loro relativa trascuratezza delle questioni amministrative e politiche interne, concorreva a rafforzare l’egemonia politica e culturale della destra moderata nel parlamento italiano. Il predominio dell’ispirazione liberale in politica, e di quella liberista in economia, spinsero dunque con più forza a concentrare l’azione di governo sulle questioni del completamento dell’unificazione territoriale e amministrativa dell’Italia e del risanamento del bilancio dello stato.
La circolare del 7 dicembre 1867 del Ministero degli interni in merito alla Vigilanza delle Autorità per diminuire l’emigrazione per le Americhe, ha segnato una discontinuità nell’atteggiamento dello Stato italiano nei confronti dell’emigrazione. In essa, il ministro invita i prefetti ad adottare tutte le misure previste dalla legge per ridurre al minimo le partenze per il continente americano. Questa circolare è importante non solo in senso cronologico, perché avvia l’orientamento restrittivo del governo nei confronti dell’emigrazione, ma anche in senso sistemico perché pone le basi della successiva legislazione. Innanzitutto, non potendo limitare in maniera diretta il diritto di emigrare, esso concentra il suo intervento sulle operazioni di arruolamento delle agenzie di emigrazione e sulle compagnie di navigazione che trasportavano gli emigranti. Questo intervento si espleta però esclusivamente attraverso gli strumenti legislativi già a disposizione all’epoca, quali quelli già ricordati della Legge di pubblica sicurezza, la concessione dei passaporti, il codice della marina mercantile e della navigazione, e infine il codice penale. Inoltre, in questo stesso testo fa la sua prima comparsa la principale giustificazione di questo nuovo atteggiamento del governo italiano e che sarà più volte reiterato nel corso del dibattito politico italiano in merito alla necessità di regolare l’emigrazione. Essa fa perno sulla necessità di “proteggere gli emigranti dai molti dolori e disinganni” a cui vanno incontro perché “illusi da promesse e da contratti sempre bugiardi e fallaci”[13]. In realtà dietro a questo nobile scopo agiva anche una più strumentale ragione di andare incontro agli interessi dei cosiddetti agrari, cioè i possidenti terrieri, perché, come si legge anche nella stessa circolare, molti prefetti hanno richiamato l’attenzione del Ministro dell’interno sull’emigrazione “facendo rilevare a ragione, fra altri, i danni gravissimi che per questo fatto possono venire all’agricoltura per mancanza di braccia pel lavoro”[14]. Il problema vero dunque era che l’emigrazione cominciava ad assumere un carattere emergente, cioè non solo cresceva il numero delle partenze ma esse si diffondevano anche in regioni precedentemente non toccate dal fenomeno. Inoltre, l’aumento delle partenze interessava prevalentemente l’emigrazione potenzialmente permanente, non a caso le direttive per la limitazione riguarderanno esclusivamente le partenze verso il continente americano.
La diffusione del modo di produzione capitalistico e la modernizzazione della produzione agricola in Italia fino a quegli anni aveva seguito un percorso proprio, centrato sulla creazione di un vasto semiproletariato, la cui pluriattività garantiva la pura sussistenza e nascondeva la cronica sottoccupazione agricola. La tradizionale emigrazione rotatoria degli italiani era funzionale a questo tipo di percorso in quanto rientrava nello schema delle pluriattività. Per questi motivi l’emigrazione non era considerata particolarmente influente fin a quando si concentrava nelle zone agricole particolarmente povere e/o riguardavano esclusivamente alcuni membri familiari. Questo particolare equilibrio entra in crisi in seguito alla crisi economica che colpisce l’economia italiana in generale e il settore agricolo in particolare, già alcuni anni prima della crisi agraria europea.
Questa crisi portò alla ripresa del processo di proletarizzazione nelle campagne italiane da cui ne scaturì una significativa accelerazione dell’emigrazione. Non a caso l’esordio della questione dell’emigrazione come tema di discussione nelle aule parlamentari italiane avvenne il 31 gennaio 1868, grazie a un’interpellanza parlamentare dell’onorevole Ercole Lualdi all’allora presidente del Consiglio Menabrea. Inoltre, sempre non a caso, nello stesso anno venne effettuato il primo studio statistico sulle partenze dall’Italia nell’ottica di fornire un quadro più dettagliato del nuovo fenomeno[15]. Infine, e sempre non a caso, è proprio nel 1870 che il Ministero dell’interno inviò un questionario ai prefetti in merito ai motivi e alle conseguenze dell’emigrazione[16].
Intorno alle preoccupazioni destate dall’emigrazione, si saldarono gli interessi degli agrari meridionali e di quelli delle regioni settentrionali, dalle cui campagne continuava a partire il contingente più numeroso di emigranti. Questo fronte spinse il governo italiano ad abbandonare la linea dello stato neutro in direzione di un maggiore controllo delle partenze, fino a proporre la proibizione dell’emigrazione[17]. Il governo italiano in un primo momento non intervenne negando all’emigrazione il carattere di emergente questione nazionale e imputando nei bassi salari praticati dalla classe possidente nelle aree di emigrazione la causa principale delle partenze. Ma questa resistenza mancò nella circolare del 18 gennaio del 1873 in cui oltre a confermare il contenuto della circolare Menabrea, si invitavano le autorità ad impedire l’emigrazione artificiale generata dagli agenti e a frenare con ogni mezzo quella lecita e spontanea. Il principale effetto di questa circolare fu quello di deviare il flusso delle partenze degli italiani verso i porti esteri, avvantaggiandone le compagnie di navigazione. Di conseguenza si aprì un’altra linea di scontro per il governo italiano, quella con le agenzie di emigrazione e le compagnie di navigazione.
Da una parte si ponevano gli agrari che negavano la natura sociale dell’emigrazione, imputando agli interessi degli agenti di emigrazione l’aumento delle partenze degli italiani. La distinzione tra un’emigrazione spontanea o libera, e una artificiale dovuta all’azione degli agenti che illudevano e ingannavano gli italiani con false promesse di futuro benessere, era finalizzata alla giustificazione dell’intervento regolativo dello stato in direzione di una maggiore tutela dell’emigrante. A questo blocco si contrapponevano gli armatori e gli agenti di emigrazione che in nome della libertà di emigrazione predicavano la liberalizzazione degli espatri. I protagonisti di questo fronte erano soprattutto gli armatori genovesi ai quali l’emigrazione forniva una valida alternativa economica in un momento di forte crisi, consentendo il finanziamento dell’innovazione tecnologica della flottiglia non sovvenzionata[18].
Prescindendo dalla strumentalità di questo dibattito, comunque segnalava dei problemi reali che richiedevano una risposta concreta in forme di politiche. Del resto questi stessi problemi si erano posti anche negli altri paesi europei e avevano portato a una regolamentazione dell’emigrazione. Anzi per l’Inghilterra, l’emigrazione aveva rappresentato sia la principale porta di ingresso per l’intervento statale in campo sociale che il principale veicolo dello sviluppo burocratico dello stato, attraverso l’istituzione di un’agenzia chiamata Emigration service[19].
Il dibattito sul ruolo reale degli agenti di emigrazione e delle compagnie di navigazione getta una luce fondamentale sui complessi meccanismi causali che generano i flussi migratori. Rilevando come l’emigrazione sia anche immigrazione, e come le politiche di immigrazione influenzino le politiche di emigrazione, per cui non si può fare un’analisi storico-sociologica delle politiche di immigrazione senza considerare quelle di emigrazione e viceversa.
Secondo Franzina l’analisi della dinamica degli arruolamenti tramite le agenzie di emigrazione serve per “spiegare le destinazioni finali dei flussi transoceanici e il loro stabilizzarsi in punti precisi del nuovo continente”[20]. Il paradosso di un’emigrazione italiana che nella sua componente settentrionale si dirigeva verso il sud America agricolo mentre quella meridionale si muoveva in prevalenza verso il Nord industriale, è spiegato dal complesso gioco dei meccanismi innescati dall’azione concomitante, da un lato, degli interessi armatoriali italiani in cui Genova ‒ in quanto già all’epoca vantava una significativa esperienza oltre che consolidate rotte commerciali ‒ rivestiva il ruolo di collettore principale con il fine economico di avviare gli emigranti nelle Americhe e, dal lato opposto, delle politiche di immigrazione del Brasile e dell’Argentina. Sono soprattutto le politiche di reclutamento di questi ultimi, in particolare del Brasile, a fornire l’innesco del commercio dell’emigrazione. Se la crisi economica del 1866 e, in un secondo momento, quella agraria del 1873 moltiplicarono gli stimoli alle partenze, le compagnie marittime e gli agenti di emigrazione fornirono gli strumenti affinché questi stimoli si traducessero in partenze effettive.
Per emigrare non bastava averne la volontà, bisognava anche sapere dove sarebbe stato meglio andare e con quali mezzi. Queste erano domande di non facile soluzione per i contadini italiani. Per le regioni italiane nord occidentali un ruolo prevalente nella localizzazione dei flussi migratori è stato giocato dalle compagnie marittime genovesi che vantavano un consolidato monopolio nel trasporto transoceanico, a cui si aggiungevano i pionieri ante Italia dell’emigrazione che svolgevano un ruolo a metà tra la catena migratoria e l’agente di emigrazione. Per le regioni italiane nord orientali invece le politiche di reclutamento brasiliane ebbero un ruolo prevalente nella localizzazione dei flussi migratori. E le compagnie genovesi non ebbero nessuna difficoltà ad adattare le loro rotte alle nuove destinazioni brasiliane.
In entrambi i casi si sviluppò una fitta rete di agenti e di sub-agenti formata da esponenti delle compagnie marittime, dagli impiegati delle agenzie di emigrazione dei paesi reclutatori e dagli agenti locali nei paesi di emigrazione, finalizzata a intercettare la domanda di emigrazione e a incanalarla verso le destinazioni di riferimento. In questo folto sottobosco era sicuramente possibile incontrare dei personaggi ambigui sull’orlo dell’illegalità che a volte perpetravano delle vere e proprie truffe a danno degli emigranti. Questi personaggi fornirono il destro alla vulgata antiemigrazione dei proprietari terrieri che fecero proprio degli agenti di emigrazione la causa prima e ultima dell’esodo degli italiani dalle campagne. Pertanto, negli anni seguenti furono licenziate numerose circolari, espressioni del compromesso raggiunto tra possidenti terrieri e governo italiano, nell’intento di limitare l’azione degli agenti e delle agenzie di emigrazione senza però proibire l’emigrazione. Nella pratica queste disposizioni non ebbero alcuna efficacia, anzi “l’emigrazione continuò a crescere e continuarono a crescere le male arti degli agenti. Era manifesto che a regolare siffatta materia occorreva una legge”[21]. E in effetti furono presentati vari progetti di legge sull’emigrazione che per vari motivi non riuscirono mai a passare l’esame delle camere, fino al progetto di legge Crispi-De Zerbi che divenne legge il 30 dicembre 1888.
- L’Italia unita e le politiche di emigrazione: il diritto dell’emigrazione.
Questa legge si proponeva di disciplinare le attività delle agenzie e degli agenti di emigrazione con l’istituzione del contratto di partenza o di emigrazione, e di una commissione provinciale di arbitri per dirimere le eventuali controversie[22]. Ma si rilevò completamente inadeguata ad affrontare le problematiche connesse alla tutela dell’emigrante improntata come era a una logica poliziesca di repressione. La sua inefficacia comportò una ripresa della produzione di circolari da parte del governo. Negli anni successivi le ondate migratorie sbriciolarono quello che era il pilastro fondamentale della legge, cioè la surrettizia distinzione tra emigrazione artificiale e naturale o spontanea.
La crisi agraria di fine secolo e la grande depressione aumentarono gli effetti spinta alla partenza che si diffusero anche nelle regioni meridionali. L’emigrazione italiana assunse un carattere di massa e ascese al rango di questione nazionale. Ormai agli occhi di tutti gli osservatori l’emigrazione era generata dalle condizioni di vita nelle zone di partenza e dai bassi salari, e a nulla valeva tentare di limitarla ma bisognava piuttosto tutelarla.
La legge approvata il 31 gennaio 1901, cui si aggiunse la legge n. 24 del 1901 per la tutela delle rimesse e dei risparmi degli emigranti italiani all’estero, costituiva un importante passo in avanti verso questa direzione. In questa nuova legge l’emigrazione veniva concepito come fenomeno sociale regolato da norme speciali e non più trattato come un fatto commerciale normato dal codice civile o penale. Con questa legge comincia un periodo di grande produzione normativa sulla questione emigratoria che terminò con il Testo unico del 13 novembre del 1919. Si tratta di un’elaborazione lenta, non orientata su di uno schema ideale, ma era il frutto di un’elaborazione nata dall’esperienza, fondata su un approccio pragmatico. Dove i problemi venivano affrontati man mano che si presentavano, e alla legislazione precedente si aggiungeva sempre qualche elemento nuovo, espressione della visione immediata della concreta esigenza sociale[23].
L’innovazione principale della legge del 1901 riguarda il trasferimento delle competenze in materia di emigrazione dal Ministero degli interni a quello degli affari esteri, alla cui dipendenza venne posta una nuova organizzazione amministrativa, il Commissariato generale dell’emigrazione a cui erano demandate tutte le incombenze relative al all’emigrazione che fino a quel momento erano state suddivise fra i vari ministeri. Tra queste ricordiamo la concessione della patente di vettore e la sorveglianza sulla loro attività; l’assistenza agli emigranti nei porti di partenza, in viaggio e all’estero; la tutela delle donne e dei minori emigranti; la repressione dell’immigrazione clandestina; la raccolta e la diffusione di notizie utili agli emigranti. Inoltre, fu istituita la figura del medico di bordo con il compito di verificare se le navi impiegate rispondessero ai requisiti imposti dalle normative sanitarie; e quella dell’ispettore dell’emigrazione con il compito di informare il Commissariato sulle condizioni dell’emigrazione.
Parallelamente alla legislazione nazionale, con la stipula del primo accordo bilaterale nel 1904 con la Francia, le autorità italiane inaugurarono una nuova linea di azione per la tutela dei propri emigranti attraverso accordi internazionali con oggetto la tutela dei lavoratori italiani emigrati all’estero. Per meglio perseguire questi obiettivi, la legge n. 538 del 1910 conferì maggiori poteri al Commissariato generale per l’emigrazione, ora in grado di intervenire nei paesi esteri in modo più incisivo al fine di garantire una maggiore tutela dell’emigrante in virtù del principio, finalmente affermato in modo esplicito, della libertà di espatrio per motivi di lavoro.
Fra i compiti istituzionali del Commissariato per l’emigrazione figurava quello della conoscenza e della diffusione delle informazioni sull’emigrazione e le condizioni di vita degli emigranti italiani all’estero. A tale scopo veniva pubblicato “Il Bollettino dell’emigrazione” che non solo riportava le circolari del Commissariato e le informazioni per e sugli emigranti, ma anche i risultati delle indagini sulle condizioni di vita degli italiani all’estero. Tra queste bisogna citare almeno quella di Adolfo Rossi nelle fazendas dello stato di São Paulo. I risultati di questa inchiesta furono pubblicati sul numero 7 del “Bollettino” del 1902, in cui si rilevavano le durissime condizioni di vita degli emigranti italiani. Questa denuncia spinse le autorità governative ad adottare, come prima misura di tutela, il cosiddetto Decreto Prinetti-Bodrio del 26 marzo 1902 che sospendeva la licenza speciale alle compagnie di navigazione per il trasporto gratuito di emigranti italiani in Brasile.
Come ha ben chiarito Rosoli, non bisogna però enfatizzare troppo il ruolo di questo decreto nel declino dell’emigrazione italiana verso il Brasile. Esso può essere considerato piuttosto come una delle conseguenze del lungo contenzioso giuridico tra Italia e Brasile che nacque intorno alla questione della grande naturalizzazione sancita dalla Costituzione brasiliana del 1891[24]. Essa disponeva che tutti gli stranieri che si trovavano all’interno del paese alla data del 15 novembre del 1889 diventavano automaticamente cittadini brasiliani, a meno che non dichiarassero esplicitamente la loro volontà di conservare la cittadinanza d’origine entro il termine di sei mesi dalla promulgazione della Costituzione. In questo modo l’emigrante italiano diventava l’oggetto di un contenzioso giuridico d’appartenenza tra Brasile e Italia. I problemi giuridici creati dalla legislazione brasiliana sulla naturalizzazione andavano oltre il conflitto di sovranità, ma assumevano anche vesti più pratiche e forse per questo molto più pregnanti per la vita quotidiana degli emigranti italiani[25].
Questo contenzioso e la moltiplicazione dei doppi cittadini de facto nei paesi in cui era praticato il principio dello jus soli in materia di cittadinanza, imposero al governo italiano un cambiamento di orientamento nei confronti della normativa in materia di cittadinanza contenuta nel Codice civile del 1865. In particolare assunse sempre più favore in Italia l’esempio delle strategie adottate in situazioni simili dagli altri paesi europei di emigrazione che avevano riformato il proprio diritto della cittadinanza, ampliando le possibilità di recupero della cittadinanza da parte dei discendenti di cittadini emigrati.
Negli anni seguenti la questione della cittadinanza degli emigranti italiani assunse una crescente valenza politica per cui alla genuina motivazione di ottemperare a un dovere morale di tutela contratto dallo stato nei confronti di quei cittadini a cui non aveva saputo garantire il sostentamento, si sovrapponevano interessi politici di tipo nazionalistici che intravedevano negli emigranti un corpo politico da mobilitare in difesa degli interessi italiani[26]. Il mito dell’Italia grande proletaria venne usato come fattore di potenza, e l’espansione coloniale viene giustificata con l’esigenza di offrire destinazioni migliori ai lavoratori italiani. La retorica dell’emigrazione come uno strumento della politica coloniale italiana che si era diffuso tra la classe politica verso la fine del regime liberale sarà poi ripresa e sviluppata dal regime fascista attraverso l’organizzazione degli italiani all’estero[27].
Nella sua prima fase di consolidamento, il regime fascista non aveva un atteggiamento avverso all’emigrazione, anzi si preoccupò di aumentare il numero annuo delle partenze, accogliendo con una certa contrarietà il Quota act americano che riduceva notevolmente le possibilità di ingresso per gli emigranti italiani. Allo scopo di aumentare queste possibilità e di individuare nuovi sbocchi, l’Italia organizzò la Conferenza internazionale dell’emigrazione e dell’immigrazione a Roma nel 1924.
Il vero cambiamento della politica di emigrazione italiana fu registrato nel 1927 con il “discorso dell’Ascensione” in cui l’esuberanza di popolazione non costituisce più un problema ma espressione di vitalità. Al mutamento della politica della popolazione non poté non corrispondere l’obiettivo dell’emigrazione zero[28]. La legislazione migratoria, coerentemente con il nuovo indirizzo politico contrario all’emigrazione, mirò in un primo momento a ridurre il ruolo degli organi addetti alla sua tutela. Cominciando con la soppressione del Commissariato generale dell’emigrazione, con il R.D.L. n. 628 del 1927, sostituito con la Direzione generale degli italiani all’estero. Inoltre, il decreto reale n. 358 del 1929 abolì ogni giurisdizione speciale e attribuì le controversie sull’emigrazione alla magistratura ordinaria. In seguito, visto che non si riusciva a fermare il flusso in uscita, fu emanata una nuova legge il 24 agosto del 1930 che stabiliva nuove norme penali in materia di emigrazione clandestina. L’intento di frenare l’emigrazione venne raggiunto solamente in seguito all’espandersi e all’aggravarsi della crisi economica susseguente al crollo borsistico del 1929. Sotto i colpi di questa crisi, tutti gli stati adottarono politiche protezionistiche, regredì l’integrazione mondiale dei mercati e si chiusero tutti gli sbocchi per gli emigranti. Insomma, la necessità di partire restava ma il problema è che non c’erano più i posti dove andare. Dunque fu la chiusura delle porte di ingresso a concretizzare la chiusura delle porte di uscita.
[1] Nancy Green, The Politics of Exit: Reversing the Immigration Paradigm, “The Journal of Modern History”, 77, 2 (2005), pp. 263-289.
[2] Ibid., p. 266.
[3] Esiste un’ampia e consolidata riflessione storica sull’emigrazione italiana che per motivi di spazio non possiamo affrontare in questa sede, per averne un quadro introduttivo chiaro ed esauriente rimandiamo a Matteo Sanfilippo, Problemi di storiografia dell’emigrazione italiana, Viterbo, Sette-Città, 2005.
[4] Alberto Caracciolo, Stato e società civile. Problemi dell’unificazione italiana, Torino, Einaudi, 1977.
[5] Antonio Gramsci, Il Risorgimento e l’Unità d’Italia, Roma, Donzelli, 2010; Gilles Pécout, Il lungo Risorgimento. La nascita dell’Italia contemporanea (1770-1922), Milano, Bruno Mondadori, 1999.
[6] Emilio Franzina, Gli italiani al Nuovo Mondo: l’emigrazione italiana in America, 1492-1942, Milano, Mondatori, 1994, p. 8.
[7] Francesco Coletti, Dell’emigrazione italiana, in Cinquanta anni di storia italiana, a cura della R. Accademia dei Lincei, Milano, Hoepli, 1912.
[8] Celestino Arena, Italiani per il mondo: politica nazionale dell’emigrazione, Milano, Alpes, 1927, p. 53.
[9] Collezione celerifera delle leggi, decreti, istruzioni e circolari 1862, Torino, Tipografia editrice di Enrico Dalmazzo, 1862, p. 2125.
[10] Ibid., p. 2126.
[11] Costantino Ianni, Il sangue degli emigrati, Milano, Edizioni di Comunità, 1965.
[12] A. Caracciolo, Stato e società civile, cit.
[13] Collezione celerifera delle leggi, decreti, istruzioni e circolari 1869, Torino, Tipografia editrice di Enrico Dalmazzo, 1869, p. 1160.
[14] Ibid., p. 1161.
[15] Leone Carpi, Statistica illustrata delle emigrazioni italiane all’estero nel triennio 1874 – 1876, Milano, Editrice Lombarda, 1878.
[16] Antonio Annino, La politica migratoria dello stato postunitario, “Il Ponte”, 30, 11-12 (1974), p. 1233.
[17] Marchese di Cosentino, Delle perdite morali e materiali cagionate all’Italia dall’emigrazione, Roma 1874, p. 14.
[18] A. Annino, La politica migratoria, cit., p. 1236.
[19] Peter Dunkley, Emigration and the State 1803 – 1842: The Nineteenth-century revolution in government reconsidered, “Historical Journal”, 23, 2 (1980), pp. 353-380.
[20] E. Franzina, Gli italiani al Nuovo Mondo, p. 128.
[21] Vincenzo Grossi, Emigrazione, in Primo trattato completo di diritto amministrativo italiano, a cura di Vittorio Emanuele Orlando, vol. 4, parte 2, Milano, Società Editrice Libraria, 1905, p. 174.
[22] Carlo Furno, L’evoluzione sociale delle leggi italiane sull’emigrazione, Varese, Tipografia Multa paucis, 1958, p. 24.
[23] Tomaso Perassi, I lineamenti del diritto italiano della emigrazione, “Bollettino dell’Emigrazione”, 1921, n. 3, p. 1.
[24] Gianfausto Rosoli, La crise des relations entre l’Italie et le Brésil: la grande naturalisation (1889-1896), “Revue européenne de migrations internationales”, 2, 2 (1986), pp. 69-90.
[25] Ibid., p. 71.
[26] Guido Tintori, Cittadinanza e politiche di emigrazione nell’Italia liberale e fascista, in Familismo legale. Come non diventare italiani, a cura di Giovanna Zincone, Roma-Bari, Laterza, 2006, p. 81.
[27] Luca De Capraris, Fascism for export? The rise and eclipse of the fasci italiani all’estero, “Journal of Contemporary History”, 35, 2 (2005), pp. 151-183.
[28] Annunziata Nobile, Politica migratoria e vicende dell’emigrazione durante il fascismo, “Il Ponte”, 30, 11-12 (1974), p. 1331.