Il Commissariato Generale dell’Emigrazione

Con l’approvazione della legge 23/1901 fece il suo ingresso nel panorama istituzionale italiano la prima agenzia amministrativa dedicata alla gestione dei fenomeni migratori. “Esito di una lunga riflessione e sperimentazione dell’intellettualità tecnica crispina”[1], il Commissariato Generale dell’Emigrazione (Cge) nacque a seguito di un’iniziativa parlamentare di Luigi Luzzatti e Edoardo Pantano e di un intenso dibattito parlamentare. Il Cge non ha suscitato tra gli studiosi amministrativi o dell’emigrazione un interesse paragonabile alla sua importanza. Alcuni utili contributi si sono fermati sulla soglia degli studi preparatori: manca tuttavia ancora una storia complessiva e approfondita di questo ente[2].

I giudizi complessivi della storiografia nei confronti del Commissariato sono estremamente contrastanti. Ne riporto qui solo un paio, per dare il senso di un divario interpretativo che ancora esiste. Ercole Sori nel 1979 ha parlato di una legge che “restò in larga misura sulla carta”[3], riferendosi alle mancanze dell’apparato giudiziario nell’applicare le disposizioni normative a favore degli emigranti, al mancato funzionamento dei referenti locali del Commissariato (i comitati comunali e mandamentali, di cui si parlerà più avanti), alla scelta di non finanziare il Cge attraverso il bilancio statale ma solo facendo ricorso a una tassazione sulle compagnie di navigazione che ricadeva interamente sul costo del biglietto, in ultima istanza sugli emigrati. La critica di Sori andava soprattutto a colpire l’inadeguatezza della rete dei consoli, quindi della burocrazia diplomatica italiana, incapace di occuparsi dei problemi degli emigrati a causa di “tutti i suoi limiti di classe, di mentalità, di funzionamento”[4]. In definitiva, “l’azione del Commissariato per l’emigrazione, creato dalla legge del 1901, non sembrò brillare per capacità di iniziativa e chiarezza di competenze”[5], anzi: “le attività di assistenza e patronato dell’emigrazione italiana furono scarse, delegate spesso ad associozioni private asfittiche o confessionali”[6].

Di segno opposto invece il giudizio espresso in tempi recenti da uno storico statunitense, Mark I. Choate. Secondo la sua ricostruzione, la legge del 1901 e la creazione del Cge “radically altered the politics of emigration and colonialism”[7], raccogliendo un mandato da parte del Parlamento a costruire un nazionalismo italiano anche fuori dai confini, attraverso gli emigrati, “with energetic support from the Italian state”[8]. La legge del 1901 viene definita come una normativa “far-sigthed”, migliore sotto molti aspetti rispetto alle analoghe degli altri paesi europei. “The Italian government set up an independent bureaucracy, with broad powers and pratically unlimited funds”[9]: “the Emigration Commissariat dramatically increased the safety, reliability, and decency of Italian emigration after 1901. This encouraged more people to emigrate and expanded the industry as a whole”[10]. Questa spinta all’interventismo statale, in contrasto con i tradizionali scrupoli liberali, “became the hallmark of truly historic social legislation”[11]. Siamo agli antipodi dell’interpretazione data da Sori.

Di fronte a questa divaricazione di giudizi, per cui da una parte il Cge avrebbe peccato di inconsistenza e sarebbe la dimostrazione dell’ennesima occasione mancata da parte delle istituzioni italiane, dall’altra sarebbe stato invece portatore di un approccio statale forte sulle comunità di emigranti sparse per i quattro angoli della terra, tanto da diventare il simbolo di una sorta di “imperialismo informale”[12], è opportuno provare a mettere in fila una serie di considerazioni su cui impostare in maniera più solida la questione.

In primo luogo dobbiamo ricordare come il Commissariato ebbe una prima fondamentale funzione di coordinamento delle linee di azione precedentemente di competenza di amministrazioni differenti (ministero degli Esteri, dell’Interno, dell’Agricoltura, Industria e Commercio, della Marina e del Tesoro), attraverso il loro accorpamento sotto un comando unico, posto all’interno del Mae ma con una relativa autonomia. Il dialogo tra i ministeri non venne soppresso ma istituzionalizzato nel Consiglio dell’Emigrazione, sancito dall’art. 7. All’interno del Consiglio era prevista la presenza di rappresentanti dei ministeri degli Esteri, del Tesoro, della Marina, della Pubblica Istruzione (di questa presenza si parlerà in seguito); in seguito venne compreso anche il direttore dell’Ufficio del lavoro, branca del Ministero dell’Agricoltura dell’Industria e del Commercio creata pochi mesi dopo il Cge, con la legge n. 24 del 29 giugno 1901. Dallo stesso dicastero verrà inviato come delegato anche il responsabile dei servizi statistici[13].

Secondo uno dei suoi principali padri, il deputato radicale Edoardo Pantano, il Cge doveva essere uno “speciale ufficio tecnico della emigrazione, che servisse ad un tempo di informazione per gli emigranti, di sorveglianza per gli agenti di emigrazione e di controllo per l’esecuzione dei cosiddetti contratti di immigrazione e colonizzazione”[14]. Questi compiti non rappresentavano una novità, ma erano i principi alla base di un repertorio frastagliato di politiche dell’emigrazione messe in atto dalla nascita dello Stato italiano in poi; la prima legge sull’emigrazione che si potesse definire tale, nel 1888, era tutta rivolta al controllo e alla repressione degli agenti, ritenuti responsabili di un incitamento interessato dell’emigrazione ai danni dell’emigrante, con la finalità di sfruttarlo[15].

Se quindi da una parte è importante sottolineare gli elementi di continuità con il passato, dall’altra è innegabile che il Cge abbia rappresentato una innovazione molto importante, per lo meno a livello amministrativo. La legge del 1901 è stata definita da Gianfausto Rosoli “una delle prime leggi sociali dello stato italiani”[16], mentre la sua principale creatura, il Cge, addirittura un “gioiello del riformismo liberale e creatura luzzatiana-giolittiana”[17]. Sono almeno tre a mio parere i principali elementi di rilievo. Da un punto di vista amministrativo, si trattava di una burocrazia che voleva essere di tipo nuovo, non incardinata nelle gerarchie ministeriali e non obbligata dai meccanismi canonici di inquadramento e avanzamento di carriera: una burocrazia più agile e snella, maggiormente adatta a occuparsi dei problemi tecnici moderni[18]. “Il Commissariato dell’Emigrazione fu appunto – come ha scritto Fabio Grassi Orsini – un’esperienza pilota, seguì il nuovo ordinamento delle Ferrovie (1905), quello dei Telefoni (1912) e soprattutto l’Ina (1912) che aprirà la via al sistema degli enti economici”[19]. Una soluzione del genere garantiva un elevato grado di autonomia operativa, pur rimanendo sotto il controllo politico del Ministero.

Un secondo aspetto di importanza del Cge stava nel fatto di includere la partecipazione organica dei rappresentanti del lavoro organizzato, prima che tale principio fosse sancito dalla costituzione del Consiglio superiore del lavoro, con la legge 246/1902[20]: all’interno del Consiglio dell’Emigrazione era prevista la presenza di un rappresentante della Lega Nazionale delle Cooperative e di un rappresentante delle Società di mutuo soccorso. In quest’ultimo ruolo, inizialmente coperto dal repubblicano Salvatore Barzilai, a partire dal 1905 entrò il deputato socialista Filippo Turati, rimasto in carica fino al 1912. Con la modifica contenuta nella legge n. 538 del 17 luglio 1910, poi, veniva contemplato anche un rappresentante della Confederazione Generale del Lavoro, concretizzato due anni dopo con l’ingresso del sindacalista Felice Quaglino, segretario degli edili. Sempre nel 1912 entrò il socialista Angiolo Cabrini, esponente della Società Umanitaria[21].

Anche nei Comitati comunali e mandamentali era prevista la presenza di “un rappresentante di società operaie o agricole locali, scelto dal consiglio comunale” (articolo 10). L’attività di questi terminali periferici del Cge, intesi come “istituti di patronato locale”[22] organizzati con l’appoggio degli enti locali, fu in realtà estremamente aleatoria: sulla carta, nel corso del 1902 ne erano stati costituiti ben 3.200, ma di questi il numero dei comitati effettivamente funzionanti dovette essere di gran lunga minore, a causa degli elevati costi di gestione. In ogni caso, fu cura del Cge che i rappresentanti delle organizzazioni operaie partecipassero là dove i comitati erano attivi[23].

Un terzo aspetto riguarda più da vicino il fenomeno migratorio. Ciò che appare di grande interesse, agli occhi dello storico della mobilità, è l’aderenza delle disposizioni di legge alla complessità dell’esperienza migratoria, nelle sue molteplici dimensioni. Ogni passaggio del percorso era presidiato e contemplato dalla legge, che non riguardava solo il Cge, ma anche misure di carattere generale: le aree di partenza con i comitati comunali e mandamentali (che prevedevano non a caso la presenza di giudici, sindaci, parroci, medici e rappresentanti di società operaie o agricole, ovvero le figure sociali riconosciute più vicine alla vita quotidiana degli emigranti), i porti di imbarco con gli ispettori di emigrazione (poi anche i valici terrestri con gli uffici di confine, non presenti nella legge del 1901, ma istituiti in seguito), le navi con i medici di bordo (art. 11), i porti di transito e di arrivo con gli ispettori d’emigrazione viaggianti (art. 12), le aree di arrivo con gli uffici di protezione, informazione e avviamento al lavoro (art. 12), le disposizioni sulla gratuità di ogni servizio che potesse ingrassare quella che gli studiosi hanno definito l’“industria delle migrazioni”[24] (art. 21), i problemi legati ai rimpatri forzati e alle controversie con le compagnie di navigazione (artt. 26-27), le questioni sulla cittadinanza (art. 36) e sui minori (artt. 2-4).

Colpisce il grande sforzo di approfondimento e conoscenza del fenomeno migratorio, che venne evidentemente già compiuto prima dell’emanazione della legge. Per fare un paragone, la Società Umanitaria di Milano, solitamente considerata un laboratorio del riformismo, creò un Servizio emigrazione solo nel 1903. In ogni caso la burocrazia formata in seno al Commissariato ebbe come primo dirigente una figura di grande spessore intellettuale come lo statistico Luigi Bodio[25]: nei suoi uffici crebbero professionalmente funzionari importanti: Vincenzo Giuffrida, Bernardo Attolico e Giuseppe De Michelis. Al contrario di Giuffrida e Attolico, De Michelis svolse tutta la sua carriera ministeriale all’interno del Cge, arrivandovi alla massima carica, ruolo che mantenne fino allo scioglimento nel 1927[26].

Il problema culturale non è di poco conto. La presenza del Ministero della Pubblica Istruzione all’interno del Consiglio dell’emigrazione, ad esempio, di cui abbiamo fatto cenno in precedenza, era legata a un’importante iniziativa formativa: l’istituzione della Scuola diplomatico-coloniale presso la Facoltà di Giurisprudenza di Roma, formalizzata con regio decreto n. 514 del 5 dicembre 1901, con lo scopo di istruire del personale diplomatico all’altezza delle sfide poste dalle migrazioni e “promuovere la diffusione di quelle cognizioni scientifiche che meglio giovino all’emigrazione, ai commerci ed all’espansione pacifica dell’Italia all’estero”[27]. Il direttore, Augusto Pierantoni, genero di Pasquale Stanislao Mancini, era ordinario di Diritto internazionale nella Facoltà di Giurisprudenza[28]; tra i docenti si segnala Vincenzo Grossi, autore di un fondamentale studio comparativo sulle politiche migratorie a livello europeo[29]. La scuola ebbe vita breve, ma viene considerata una tappa fondamentale nella storia della creazione della Facoltà di Scienze politiche nell’ordinamento universitario italiano[30].

Dunque a livello culturale il Cge segnò una tappa fondamentale nel rapporto tra Stato e fenomeni migratori. Non è questa la sede per tentare un bilancio del suo effettivo funzionamento, che non potrebbe in ogni caso ridursi a un confronto tra gli obiettivi prefissati e i risultati raggiunti. Su questo aspetto aveva messo le mani avanti lo stesso Sidney Sonnino, in sede di dibattito parlamentare: “La gravità di questa discussione […] nasce specialmente dal fatto dell’eccessiva aspettazione che c’è nel pubblico in ordine agli effetti di questa legge”[31]. La legge del 1901, e di conseguenza il Cge, è stata troppo spesso giudicata partendo da ciò che non riuscì a fare; più utile sarebbe invece arrivare a una definizione esatta di ciò che riuscì a essere. “Mi associo ‒ ricordava Sonnino ‒ all’opinione dell’onorevole Colaianni; cioè essere questa una legge di esperimento, di cui nessuno può prevedere esattamente i risultati. Facciamo dunque l’esperimento seriamente ed equamente, e, per quanto possibile, in condizioni di poterci anche tirare indietro, se ci accorgessimo di aver sbagliato strada”[32].

Sono note le polemiche che accompagnarono l’esistenza del Commissariato, in particolare circa l’utilizzo del Fondo per l’emigrazione[33]. Ciò che stupisce, rileggendo quelle vicende, non è tanto il fatto che il Cge abbia condotto una vita travagliata, quanto la lunga durata di quest’ultima, che riuscì a passare indenne gli scogli della Grande guerra e dell’avvento del fascismo, nonché l’autorevolezza raggiunta, verificabile sia dalle sue pubblicazioni, la cui mole e la cui qualità sono innegabili, sia dalla carriera dei suoi esponenti (si veda ad esempio la straordinaria affermazione internazionale di Giuseppe De Michelis).

Gli anni giolittiani e il ventennio fascista sono accomunati da una lunga tensione relativa all’ampliamento dei compiti pubblici in campo migratorio. La nascita del Commissariato pose subito infatti un problema di legittimità relativo ai limiti di competenza di questo nuovo organismo. Le scelte compiute nei suoi primi anni, circa le regole e i controlli da applicare alle compagnie di navigazione, o gli accordi bilaterali con i paesi di destinazione dei migranti italiani, come Francia o Brasile, sollevarono vivaci critiche da parte sia degli armatori che delle élites economiche, ma anche di un’opinione pubblica che male vedeva un’intrusione così forte dello Stato in questioni che dovevano rimanere sostanzialmente private. Era proprio il quadro valoriale di riferimento dell’Italia liberale che consentiva il sollevarsi di un fuoco di critiche contro il nuovo Commissariato.

Questo aspetto rappresenta una versione particolare di quello che, parafrasando Raffaele Romanelli, potremmo definire il “governo impossibile”[34]: lo scontro tra i principi liberali su cui poggiava il fragile sistema politico del giovane Stato italiano e la necessità di “governare il paese”, prendendo in carico tutti i suoi molteplici aspetti e le sue diversità. In sostanza il primo decennio del Ventesimo secolo vide dispiegarsi una forte battaglia politica su un tema centrale nella vita nazionale, condotta con inediti mezzi di pressione sull’opinione pubblica. La Prima guerra mondiale fornì dunque una sorta di giustificazione storica a una tendenza già in atto, l’ampliamento dei poteri dello Stato sui cittadini. Come ha scritto Antonio Gibelli, “ecco un altro aspetto della modernità connesso alla Grande Guerra: d’ora innanzi lo Stato non abbandonerà più la gente comune, diverrà una presenza ineliminabile, interna alla vita di ciascuno”[35].

Il Commissariato, retto da Giuseppe De Michelis, riuscì a diventare un protagonista fondamentale di questa presenza, conquistandosi un ruolo che prima non aveva. “Una serie di leggi e di regi decreti fra l’agosto 1914 e il maggio 1915 ‒ ha scritto Emilio Franzina ‒ aveva concentrato nelle mani del commissariato una somma inaudita di poteri, poi trasferita nel 1919 dal diritto eccezionale di guerra al diritto ordinario suscitando ovunque riserve per i suoi effetti intralcianti e venendo difesa quasi solo dalle pubblicazioni ufficiali del Cge”[36].

“Il nostro Commissariato generale dell’emigrazione ‒ veniva sostenuto nel 1923 ‒ ha, se non in teoria certo in pratica, tolto ai cittadini la libertà di emigrare senza il suo preventivo benestare»[37]. Gli studi di Gianfausto Rosoli, Philip V. Cannistraro e Maria Rosaria Ostuni hanno precisato l’importanza della linea assunta in quegli anni dal Cge e fatta propria dal governo fascista, che vedeva nello stabilirsi di una disciplina internazionale condivisa e nella valorizzazione economica dei flussi la risposta alle difficoltà sorte nello scenario postbellico[38]. Le società dei tradizionali paesi di arrivo infatti si stavano a poco a poco chiudendo nei confronti degli immigrati, contro i quali venivano innalzate nuove barriere legislative; in particolare il Congresso degli Stati Uniti emanò tra il 1921 e il 1924 delle misure che limitavano in maniera drastica gli ingressi di lavoratori delle nazionalità poco gradite, come i cinesi e gli italiani. In Europa rimanevano come possibili destinazioni solo la Francia e, in misura minore, il Belgio, paesi che avevano bisogno di colmare il vuoto demografico causato dalla guerra.

La spinta restrizionista si era accentuata proprio mentre il governo si faceva promotore di un importante convegno internazionale con l’obiettivo di dare fiato ai flussi migratori[39], decretando il fallimento dei tentativi promossi dal Commissariato: l’attività di De Michelis perse così la credibilità e il sostegno politico di cui aveva goduto fino ad allora da parte di Mussolini. Il nuovo contesto volgeva a favore degli ambienti nazionalisti e dell’opzione dello sbocco interno alla mancanza di lavoro, che tuttavia era ancora tutto da realizzarsi. In ogni caso il tempo del Cge era finito.


[1]           Fabio Grassi Orsini, Introduzione. Per una storia del Commissariato dell’emigrazione, in Ministero degli Affari Esteri – Direzione generale dell’emigrazione e degli affari sociali – Archivio storico diplomatico, Il fondo archivistico Commissariato generale dell’emigrazione (1901-1927), a cura di Piero Santoni, Roma, Istituto poligrafico e Zecca dello Stato, 1991, p. 12. Questo studio, riprodotto in versione ridotta qualche anno più tardi (Fabio Grassi Orsini, Per una storia del Commissariato dell’emigrazione, “Le carte e la storia”, 3, 1 (1997), pp. 112-138) rappresenta ancora oggi il riferimento fondamentale per ricostruire la vicenda amministrativa del Cge.

[2]           Importanti gli studi di Maria Rosaria Ostuni, Il fondo archivistico del Commissariato generale dell’emigrazione, “Studi Emigrazione”, 51 (1978), pp. 411-440, e Momenti della “contrastata vita” del Commissariato generale (1901-1927), in Fondazione Brodolini, Gli italiani fuori d’Italia. Gli emigrati italiani nei movimenti operai dei paesi d’adozione (1880-1940), a cura di Bruno Bezza, Milano, Franco Angeli, 1983, pp. 101-118.

[3]           Ercole Sori, L’emigrazione italiana dall’Unità alla seconda guerra mondiale, Bologna, il Mulino, 1979, p. 263.

[4]           Ibid., p. 264.

[5]           Ibid., p. 268.

[6]           Ibid., p. 269.

[7]           Mark I. Choate, Emigrant Nation. The Making of Italy Abroad, Cambridge-London, Harvard University Press, 2008, p. 61.

[8]           Ibid., p. 62.

[9]           Ibid., p. 59.

[10]          Ibid., p. 91.

[11]          Ibid., p. 90.

[12]          Emilio Franzina (Emigrazione transoceanica e ricerca storica in Italia: gli ultimi dieci anni (1978-1988), “Altreitalie”, 1, 1989, pp. 6-57) segnalava come la storiografia statunitense avesse già espresso giudizi paradossalmente positivi sul Cge, in particolare George M. Stephenson (A History of American Immigration, 1820-1924, Boston-New York, Ginn & Company, 1926) aveva definito il governo liberale italiano “one of the few governments which have encouraged emigration, protecting the emigrants on the voyage and keeping a motherly eye on them in the lands where they are sojourning”.

[13]          Grassi Orsini, Introduzione cit.

[14]          Intervento di Edoardo Pantano, in Atti parlamentari – Camera dei Deputati, Legislatura XIX – 1ª sessione – Discussioni – Tornata del 30 giugno 1896, p. 6873.

[15]          Legge 5866/1888.

[16]          Gianfausto Rosoli, La politica migratoria italiana durante il periodo liberale dall’unità politica al fascismo, in Il problema dell’emigrazione italiana tra ‘800 e primo ‘900 a partire dalle pagine della «Riforma Sociale», a cura di Corrado Malandrino, “Annali della Fondazione Einaudi”, 32 ( 1998), p. 56.

[17]          Ibid., p. 66.

[18]          Guido Melis, Due modelli di amministrazione tra liberalismo e fascismo, Roma, Ministero per i beni culturali e ambientali, 1988.

[19]          Grassi Orsini, Introduzione cit., p. 12.

[20]          Giovanni Montemartini, Un decennio di vita nei corpi consultivi della legislazione sociale in Italia (1903-1912), “Nuova Antologia”, 16 luglio 1913; Valerio Strinati, La discussione parlamentare sull’istituzione del Consiglio superiore del lavoro, “Studi Storici”, 41, 4 (2000), pp. 1151-1182; Domenico Sacco, Per una storia del Consiglio dell’emigrazione in età giolittiana, “Eunomia. Rivista semestrale di storia e politica internazionali”, 2 (2016), pp. 351-396.

[21]          Grassi Orsini, Introduzione, cit.

Dalla Prefettura di Livorno ai Comitati mandamentali e comunali per l’emigrazione, 6 dicembre 1904, in Archivio di Stato di Livorno, Questura di Livorno, Serie Massime, 1898-1944, b. 1345.

[23]          Nel 1913, avendo notato come in alcuni Comitati della provincia di Livorno erano presenti in rappresentanza dei lavoratori “semplici maestre o maestri comunali”, il Commissariato dava l’indicazione di “preferirsi altre persone che, offrendo pure garanzie di onestà, abbiano maggiormente contatto con la classe operaia” (circolare dal Cge al Prefetto di Livorno, 9 dicembre 1913, ibid.).

[24]          John Salt e Jeremy Stein, Migration as a Business: The Case of Trafficking, “International Migration”, 35, 4 (1997), pp. 467-494.

[25]          Questo l’elenco dei Commissari generali: Luigi Bodio (1901-1904), Leone Reynaudi (1905-1908), Luigi Rossi (1908-1911), Pasquale Di Fratta (1911-1912), Giovanni Gallina (1912-1918), Edmondo Mayor Des Planches (1918-1919), Giuseppe De Michelis (1919-1927).

[26]          Anche Giuffrida rimase sempre vicino al Commissariato, come si evince dalle lettere scambiate con Nitti, in Archivio centrale dello Stato, Fondo Nitti, Carteggio, Vincenzo Giuffrida. Attolico invece si allontanò a causa di screzi dovuti alla promozione di De Michelis: cfr. la lettera di Giovanni Gallina a Sidney Sonnino, febbraio 1915, in Archivio Sidney Sonnino, b. 121, f. 1 “Commissariato”.

[27]          Regio decreto per la istituzione della scuola diplomatico-coloniale presso la R. Università di Roma, n. 514 del 5 dicembre 1901.

[28]          Cfr. Alessandro Breccia, Pedagogie della nuova cittadinanza. L’avvio dell’esperienza accademica e parlamentare di Augusto Pierantoni (1865-1883), in Cittadinanze nella storia dello stato contemporaneo, a cura di Marcella Aglietti e Carmelo Calabrò, Milano, Franco Angeli, 2017, pp. 47-61.

[29]          Vincenzo Grossi, Storia della legislazione sull’emigrazione in Italia e nei principali stati d’Europa. Estratto dal Primo Completo Trattato di Diritto Amministrativo Italiano del prof. V.E. Orlando, Milano, Società Editrice Libraria, 1901.

[30]          Cfr. Mario Caravale, Per una storia della Facoltà di Scienze politiche in Italia: il caso di Roma, “Le carte e la storia”, 1,2 (1995), pp. 17-28.

[31]          Intervento di Sidney Sonnino, in Atti parlamentari – Camera dei deputati, Legislatura XXI – 1ª sessione – Discussioni, 28 novembre 1900, p. 663.

[32]          Ibid., p. 664.

[33]          Ostuni, Momenti della “contrastata vita” cit.

[34]          Raffaele Romanelli, Il comando impossibile: Stato e società nell’Italia liberale, Bologna, il Mulino, 1995.

[35]          Antonio Gibelli, L’officina della guerra. La Grande Guerra e le trasformazioni del mondo mentale, Torino, Bollati Boringhieri, 19982, p. 82.

[36]          Emilio Franzina, La chiusura degli sbocchi emigratori, in AA.VV., Storia della società italiana, v. 21, La disgregazione dello stato liberale, Milano, Teti editore, 1982, p. 167.

[37]          Francesco Sulpizi, Il problema dell’emigrazione dopo la Rivoluzione Fascista, Milano-Roma-Napoli, Dante Alighieri, 1923, p. 113.

[38]          Philip V. Cannistraro e Gianfausto Rosoli, Emigrazione Chiesa e fascismo. Lo scioglimento dell’Opera Bonomelli (1922-1928), prefazione di Renzo De Felice, Roma, Studium, 1980; Iid., Fascist Emigration Policy in the 1920s: An Interpretive Framework, “The International Migration Review”, 13, 4 (1979), pp. 673-692.

[39]          Celestino Arena, La Conferenza internazionale di Roma per l’emigrazione e l’immigrazione, “Nuova Antologia”, 1º agosto 1924.