Il Ministero del lavoro e l’emigrazione negli anni della ricostruzione

Il decreto luogotenenziale n. 377 (21 giugno 1945) stabilì lo sdoppiamento del Ministero dell’industria, del commercio e del lavoro. Nacquero quindi il Ministero dell’industria e del commercio e il Ministero del lavoro e della previdenza sociale. Contestualmente, Gaetano Barbareschi fu nominato da Ferruccio Parri a capo del Ministero del lavoro e della previdenza sociale. Barbareschi, socialista, esponente di punta dell’antifascismo e della resistenza in Liguria, venne confermato ministro anche nel primo governo De Gasperi, mantenendo la carica fino al 1° luglio 1946[1]. Fino alla rottura con le sinistre del maggio 1947, il ministero venne mantenuto dai socialisti, prima con Ludovico D’Aragona (13 luglio 1946 – 28 gennaio 1947, secondo governo De Gasperi) poi con Giuseppe Romita (2 febbraio 1947 – 31 maggio 1947, terzo governo De Gasperi).

La divisione delle competenze istituzionali, delle attribuzioni e del personale tra il Ministero dell’Industria e il Ministero del lavoro venne stabilita con il decreto luogotenenziale n. 474 (10 agosto 1945). Un primo riferimento forte all’emigrazione nelle competenze del dicastero del Lavoro è contenuto nell’art. 2 di tale decreto, dove si specifica che “dei servizi attualmente di competenza del Ministero dell’industria, del commercio e del lavoro, sono devoluti al Ministero del lavoro e della previdenza sociale quelli relativi alle seguenti materie: […] collocamento; migrazioni interne e avviamento dei lavoratori all’estero”[2]. Afferirono alla sfera d’influenza del Lavoro anche altre competenze, legate più o meno direttamente all’emigrazione all’estero, come gli “studi, ricerche, statistiche, attività di osservazione all’interno e all’estero nelle materie del lavoro e della previdenza e dell’assistenza sociale”, la tutela del lavoro, i “rapporti con l’ufficio internazionale del lavoro ed altri enti internazionali in materia di lavoro”, la formazione professionale, l’apprendistato, la vigilanza sugli istituti preposti alla previdenza e all’assistenza sociale.

Il decreto 474/1945 rappresentò in modo esplicito l’avvio di quel cambiamento di prospettiva nei confronti dell’emigrazione all’estero che veniva invocato nel dibattito politico. L’emigrazione diventava parte integrante della politica economica del paese. Non era più soltanto una questione di politica estera e di tutela della presenza italiana all’estero ma veniva inquadrata come questione strategica, sulla quale investire le energie non solo del Ministero degli affari esteri ma anche di quei ministeri economici che nascevano dalla riorganizzazione delle istituzioni. Nello specifico, era evidente che il Ministero del lavoro doveva avere un ruolo importante su base locale, dove l’emigrazione all’estero diventava una delle possibili variabili delle attività del collocamento della manodopera. Questa vocazione all’intervento territoriale venne messa in pratica innanzitutto attraverso la rete degli uffici del lavoro.

Gli uffici del lavoro vennero istituiti dall’amministrazione militare alleata in coincidenza con la liberazione del territorio italiano, a partire dal settembre 1943. Fino al 1948 restarono particolarmente indefiniti sul piano giuridico e dal punto di vista delle competenze e delle responsabilità. Distinti in regionali e provinciali, inizialmente seguirono la divisione geografica voluta dagli alleati[3]. Il decreto legge n. 381 del 15 aprile 1948 ne modificò il nome in “uffici del lavoro e della massima occupazione”, dichiarandoli definitivamente organi periferici del ministero. Fu con tale decreto che agli uffici vennero affidate anche le competenze sull’emigrazione, oltre che sul collocamento, la conciliazione delle vertenze di lavoro, la raccolta di dati statistici, il perseguimento della massima occupazione. Una successiva legge (264/1949) estese ulteriormente le competenze degli uffici, che si allargavano alla formazione professionale, ai sussidi per la disoccupazione, alla riqualificazione dei lavoratori, alle opere di rimboschimento, ai cantieri-scuola, all’attuazione del piano Ina-Casa[4].

Negli anni del dopoguerra, gli uffici del lavoro rappresentarono una pedina fondamentale nell’articolazione delle nuove politiche migratorie volute dai governi repubblicani. Dipendenti dal Ministero del lavoro e della previdenza sociale, gli uffici ricevevano periodicamente circolari ministeriali dove erano specificate competenze, modalità e destinazioni relative alle possibilità occupazionali all’estero. Ogni ufficio aveva il compito innanzitutto di pubblicizzare tali offerte di lavoro, in secondo luogo di fornire tutte le informazioni di carattere burocratico necessarie alla preparazione della partenza, in terzo luogo smistare gli espatriandi verso i centri di emigrazione, su cui torneremo più avanti. Gli uffici del lavoro dovevano anche registrare le domande di emigrazione e sottoporre gli aspiranti a un primo esame medico e professionale. Gli uffici del lavoro, insomma, rappresentavano la prima tappa del percorso migratorio, dove acquisire le informazioni fondamentali e avviare le pratiche amministrative necessarie per partire. Più in generale, rappresentarono una sorta di “termometro” della percezione dell’emigrazione tra i lavoratori e i disoccupati.

Il decreto legislativo n. 381 del 15 aprile 1948 autorizzò il Ministero del lavoro e della previdenza sociale a istituire i centri di emigrazione. Questi centri dovevano essere al massimo cinque – il limite verrà abolito nel 1955[5] – e avevano lo scopo di provvedere al “raggruppamento, l’alloggiamento, la vittuazione e l’assistenza in genere dei lavoratori che emigrano o rimpatriano e delle loro famiglie”. L’istituzione dei centri di emigrazione si inseriva nel contesto più esteso della riorganizzazione del Ministero del lavoro e della previdenza sociale, che veniva strutturata nei 34 articoli del decreto 381. I centri furono resi operativi da un decreto ministeriale del 20 ottobre 1948 e avviarono quindi le loro attività nel 1949.

I centri di emigrazione diventarono in breve tempo un punto di riferimento molto importante per quella nuova politica migratoria che i governi italiani avevano scelto di perseguire. Dai centri passarono infatti gli emigranti che rientravano negli accordi firmati con i paesi interessati ad accogliere manodopera italiana e nei centri aprirono appositi uffici le commissioni straniere di reclutamento, che procedevano ad esaminare i potenziali emigranti. Questi luoghi rivestono un’importanza centrale anche per altre ragioni. Innanzitutto rappresentarono per molti emigranti la prima tappa del loro viaggio e l’ultimo transito in Italia prima del trasferimento all’estero, mentre per altri – i respinti alle visite mediche di selezione o i rimpatriati per motivi non dipendenti dalla propria volontà – nello spazio dei centri si consumò la delusione per il fallimento dei rispettivi progetti migratori. Inoltre, i centri e tutto il movimento di persone che ruotava loro attorno contribuirono a rendere visibile e percepibile nelle città interessate l’intensità delle migrazioni del periodo (generalmente i centri sorgevano in luoghi molto frequentati, in prossimità delle stazioni e dei porti). Le folle in attesa di partire, la precarietà delle persone in transito, la loro stessa dipendenza dalle disposizioni di questo o di quel funzionario richiamavano alla mente situazioni ed episodi avvenuti durante la guerra, ancora molto vicini nel tempo. I contemporanei non mancavano di notare l’analogia:

Ad attenti osservatori è risultata troppo evidente l’analogia fra l’ambiente degli odierni centri di raccolta per lavoratori emigranti (…) e quei raduni di folle, di così dolorosa memoria, che durante l’occupazione, ed in condizioni non facilmente dimenticabili, venivano predisposti per essere avviati verso il cuore dell’Europa[6].

I centri dipendevano dalla Divisione organizzazione e amministrazione degli uffici del lavoro e della massima occupazione del ministero. La loro istituzione e la loro attività accompagnarono la nascita e lo sviluppo degli uffici del lavoro e della massima occupazione. Alcuni centri – come quelli di Genova e Milano – erano attivi già prima del 1948 e costituivano di fatto delle sezioni distaccate degli uffici del lavoro. La nascita del centro di Genova si era resa necessaria già dal 1947 a causa del gran numero di persone che affluivano nella città per imbarcarsi verso l’Argentina. Il centro di Milano era attivo dal 1946, per prestare assistenza a chi transitava dalla stazione ferroviaria, luogo di snodo per l’Europa occidentale[7]. Oltre al rapporto con gli uffici del lavoro e della massima occupazione, i centri – soprattutto nei primissimi anni del dopoguerra – ebbero rapporti con i locali ispettorati del lavoro. Nel periodo precedente la riorganizzazione del Ministero del lavoro, infatti, le competenze dei centri di emigrazione, degli uffici del lavoro e degli ispettorati del lavoro si sovrapposero di continuo. Nei primi dodici anni del dopoguerra possiamo individuare il Ministero del lavoro come spazio concreto di intervento di quella nuova politica migratoria che i governi post-bellici scelsero di perseguire. La politica migratoria si collocava a metà tra la politica estera e la politica economica del paese e aveva bisogno di una macchina organizzativa che potesse metterla in pratica: il ministero servì a questo scopo ma pagò fino in fondo lo scarto esistente tra le aspirazioni e la realtà. Lo stesso Fanfani riconobbe in più occasioni i limiti con cui doveva confrontarsi la sua struttura:

Non concordo su alcune delle critiche qui fatte che non esista una politica dell’emigrazione. Esiste, è stata fatta come era possibile (…). Perché il nostro bisogno di sbocchi è immenso, ma il desiderio degli altri paesi a fornirci questi sbocchi è scarsissimo e tutti gli argomento sono buoni: la non qualificazione della manodopera italiana, l’assenza di casa, l’assenza di capitali, le eccessive pretese (così si dice) delle organizzazioni sindacali italiane o dei governi italiani di conseguire un optimum di protezione sociale per i nostri lavoratori, un rosario da non più finire, al termine del quale i paesi di emigrazione possono sempre trovarsi con una grande volontà di sbocchi, ma trovano davanti a sé più o meno elegantemente sollevati dei grandi muri[8].

E fu proprio Fanfani, nel 1958, ad ammettere che la politica migratoria dei primi anni del dopoguerra era stata decisamente e inevitabilmente di scarso respiro:

Nel 1953-57 si ha il passaggio ad una politica migratoria di largo respiro e di concrete realizzazioni. Essa nei primi anni si è svolta in forme aderenti alle necessità contingenti; negli anni successivi si è invece potuta svolgere una azione che ha tenuto conto delle nostre necessità rispetto alle possibilità dei paesi riceventi la nostra emigrazione, della nuova coscienza del lavoratore italiano e delle sue necessità e aspirazioni sociali[9].

Anche se l’apparato organizzativo del Ministero del lavoro fornì nuovi strumenti di intervento per la realizzazione della politica migratoria, questa restò di fatto caratterizzata da una notevole frammentazione, che riproduceva d’altronde i compromessi e i differenti interessi in gioco da cui essa nasceva. Una politica migratoria “non neutrale” ma strettamente legata alle scelte politiche ed economiche della congiuntura post-bellica e soprattutto vincolata alla persistente debolezza italiana nelle trattative bilaterali internazionali[10].


[1]           Sull’esperienza di Barbareschi al governo si veda Pia Quinzio, Un ferroviere nel governo Parri: Gaetano Barbareschi a quarant’anni della scomparsa, “Storia e problemi contemporanei”, 34 (2003), pp. 145-61.

[2]           Anche negli altri punti dell’articolo sono presenti comunque riferimenti all’emigrazione. Pubbl. nella Gazzetta Ufficiale 28 agosto 1945, n. 103, pp. 1629-1633. Per un’analisi delle diverse tappe nell’ambito delle competenze pubbliche in materia di emigrazione si veda Vittorio Briani, La legislazione emigratoria italiana nelle successive fasi, Roma, Istituto Poligrafico dello Stato, 1978.

[3]           Questa suddivisione non corrispondeva del tutto alle regioni italiane, ad esempio l’ufficio regionale di Roma aveva competenza anche sull’Umbria e quello di Bari sulla Basilicata. Stefano Musso ha sottolineato la debolezza dell’attività degli uffici nei primi anni della loro costituzione: “ostacoli di ogni genere si frapponevano al normale funzionamento degli uffici, specie dopo la liberazione, quando l’incertezza e i rapporti a tratti collaborativi a tratti conflittuali tra organizzazioni e istituzioni divennero ancora più intricati” (Le regole e l’elusione. Il governo del mercato del lavoro nell’industrializzazione italiana, 1888-2003, Torino, Rosenberg & Sellier, 2003, p. 277).

[4]           Per uno studio di taglio politico-economico sul piano Ina-casa si veda Sebastiano Nerozzi, Quale politica del lavoro? Il Piano Ina-casa: un’analisi economica, in La prima legislatura repubblicana. Continuità e discontinuità nell’azione delle istituzioni, a cura di Ugo De Siervo, Sandro Guerrieri e Antonio Varsori, II, Roma, Carocci, 2004, pp. 81-96.

[5]           Si veda in proposito il D.p.r. 520 del 19 marzo 1955, che riconsiderando la legislazione precedente elimina il vincolo dei cinque centri.

[6]           Persone in transito, “Bollettino quindicinale dell’emigrazione”, 2 (1947), p. 25.

[7]           Archivio Centrale di Stato (Roma), Ministero del Lavoro, Dgpag-Dulmo, busta 31, “Centro emigrazione di Milano”, relazione per il 1950.

[8]           Camera di commercio industria e agricoltura di Bologna, Congresso nazionale per l’emigrazione, 18, 19, 20 marzo 1949, Atti ufficiali, Bologna, Anonima arti grafiche, 1949, p. LXXXII.

[9]           Amintore Fanfani, Anni difficili ma non sterili, Bologna, Cappelli, 1958, p. 30. Il libro usciva dopo che Nerino Rossi, per la stessa casa editrice Cappelli, aveva pubblicato Anni difficili, riferendosi proprio al quinquennio 1953-1958. Sul frontespizio del libro di Fanfani si legge: “Amintore Fanfani accetta la definizione di anni difficili per quelli delle II legislatura della Repubblica italiana. Ma illustra in una sintetica relazione perché quegli stessi anni, malgrado le difficoltà, non furono infecondi”. Per una lettura del comportamento politico di Fanfani nel periodo si veda Paolo Pombeni, I partiti e la politica dal 1948 al 1963, in Storia d’Italia, V, La Repubblica (1943-1963), a cura di Giovanni Sabbatucci e Vittorio Vidotto, Roma-Bari, Laterza, 1997, pp. 173-174.

[10]          Sulla debolezza italiana nelle trattative bilaterali per l’emigrazione si veda Federico Romero, Emigrazione e integrazione europea, 1945-1973, Roma, Edizioni lavoro, 1991.