Prostituzione e migrazioni in Italia tra ‘400 e ‘500: il caso di Roma

Lozana: Ditemi, signore, queste puttane o cortigiane, come le chiamate voi, sono tutte di qui?

Corriere: No, signora, ce ne sono di tutte le nazioni: spagnole, castigliane, biscagline, santanderine, galiziane, asturine, toledane, andaluse, granadine, portoghesi, navarrine, catalane, valenzane, aragonesi, maiorchine, sarde, corse, siciliane, napoletane, abruzzesi, pugliesi, calabresi, romane, aquilane, senesi, fiorentine, pisane, lucchesi, bolognesi, veneziane, milanesi, lombarde, ferraresi, modenesi, bresciane, mantovane, ravennati, pesaresi, urbinati, padovane, veronesi, vicentine, perugine, novaresi, cremonesi, alessandrine, vercellesi, bergamasche, trevigiane, piemontesi, savoiarde, provenzali, bretoni, guasconi, francesi, borgognone, inglesi, fiamminghe, tedesche, slave, albanesi, candiote, boeme, ungheresi, polacche, ultramontane e greche.

 

Si tornerà a breve a riflettere sul mondo della prostituzione romana anche sulla scorta delle informazioni fornite dall’operetta di Francisco Delicado La Lozana andalusa da cui è tratto questo brano[1], prima però è opportuno fare una brevissima premessa.

Il fenomeno del meretricio in età medievale e rinascimentale è stato oggetto di vivo interesse da parte della storiografia, specialmente negli ultimi decenni, ed è stato affrontato e studiato da diverse angolature[2]. In primo luogo un po’ da tutti gli studiosi è stato preso in considerazione l’atteggiamento “ambiguo” della Chiesa e delle istituzioni cittadine e statuali, che oscillò nel corso dei secoli (a partire dal XIII) tra accettazione come “minor male” della prostituzione (anche per cercare di sconfiggere la pratica della sodomia e l’omosessualità maschile) e repressione ed emarginazione del fenomeno[3], in varie forme e per diversi contesti: dall’istituzione di bordelli da parte delle autorità comunali e dall’emanazione di disposizioni relative al confinamento delle prostitute lì operanti in determinati quartieri della città[4] alle norme sui “segni di riconoscimento” per distinguere le donne segnate da una cattiva fama dalle donne oneste[5], alle magistrature che in diverse città vennero appositamente disposte per il loro controllo[6], etc. Ultimamente, la storiografia ha allargato le indagini anche a distinguere in modo più analitico, all’interno del mondo della prostituzione, oltre alle varie forme di reclutamento, la diversa “qualità” delle professioniste del sesso: da quelle insediate nei bordelli e perciò definite “publicae” o “di partito”, a quelle che esercitavano adescando i clienti nelle strade o nelle taverne, locande e stufe, a quelle che, a volte coniugate, pur esercitando uno specifico mestiere (come ad esempio, filatrici, tessitrici, lavandaie, bagnare etc.), a integrazione degli scarsi redditi, praticavano il meretricio saltuariamente, a casa propria o in case appositamente affittate[7]; inoltre le ricerche hanno anche cominciato a prendere in considerazione le mantenute, donne più fortunate e di condizione più elevata[8], che in certe località vennero chiamate cortigiane e dalla fine del ‘400 anche cortigiane oneste, insieme a una variegata gamma di situazioni di convivenze “a tempo” che spesso rasentavano il meretricio, pur senza incorrere nello stesso disprezzo sociale[9].

Seppure non sempre approfondito, soprattutto a causa della scarsità delle fonti specifiche, la storiografia ha anche preso in considerazione il rapporto tra emigrazione e prostituzione, insieme alla problematica, più frequentata, della consistenza numerica delle prostitute nelle diverse realtà locali. Prima di proporre una breve casistica relativa ad alcune città italiane, è opportuno evidenziare le caratteristiche identitarie che contraddistinguevano in genere una meretrice. Come ha evidenziato Rossella Rinaldi, nelle fonti ‒ soprattutto giudiziarie ‒, “le meretrici vengono riconosciute esplicitamente come tali: l’espressione accompagna in maniera sistematica il nome di battesimo, di rado il patronimico, più spesso sia il nome materno sia la località di provenienza. Meretrix è un dato di riconoscimento diretto a segnalare l’attività esercitata e al tempo stesso la «qualità sociale» della persona, affiancandosi di norma all’attributo publica, che si riferisce alla reputazione, pubblica e condivisa, ma anche a un atteggiamento di disponibilità, all’offerta del corpo …”[10]. A volte, è anche indicato lo status di donna coniugata: “essere uxor di qualcuno, insomma, era un elemento che rientrava nei dati dell’identità della prostituta”[11]. Inoltre, poteva anche essere esplicitato il soprannome e, qualche volta, il mestiere praticato abitualmente dalla donna, come si è prima accennato[12]. Da notare inoltre che a volte l’appellativo con cui sono indicate numerose prostitute relativo alla provenienza (ad esempio “Beatrice la Spagnola”, “Leonora bolognese” etc.), può essere solo “una sorta di vezzo, di volontà di esotismo o indicare al più una lontana origine, poi recuperata come nome di battaglia o caratteristica distintiva”[13], e questo elemento è da tenere presente nel valutare le origini geografiche di queste donne.

Comunque sia, non vi è dubbio che la gran parte delle donne dedite all’ars meretricale e i loro protettori fossero stranieri o forestieri nelle comunità in cui lavoravano, sebbene ‒ come sottolinea Maria Serena Mazzi – in genere manchi “una documentazione specifica, abbondante e uniforme su questo mondo … Quante fossero le donne pubbliche, e cosa le avesse condotte nei bordelli, … quanti vivessero alle loro spalle non riusciamo a scoprirlo. Dobbiamo desumere, ipotizzare, estendere come rappresentativo quel poco che conosciamo”[14].

Le informazioni più dettagliate riguardano peraltro quasi esclusivamente un settore particolare della prostituzione, quella pubblicamente organizzata, perché per questa si dispone di una documentazione più ricca e omogenea prodotta in genere dalle istituzioni cittadine disposte al suo controllo, mentre molto più sfuggente risulta la prostituzione segreta, sommersa, che si faceva in case private sia da parte di professioniste sia in modo occasionale da donne che pur di mala fama non erano tuttavia dichiarate “pubbliche meretrici”[15]. Così, dalle testimonianze ricavate da specifiche ricerche sulla prostituzione in alcune città italiane ed europee, si è potuto ipotizzare che soprattutto i bordelli erano abitati “quasi sempre … da una popolazione straniera, non necessariamente di altri paesi ma estranea alla comunità cittadina, magari proveniente da città e regioni vicine, talvolta invece da molto lontano, da realtà geograficamente, politicamente diverse, di altri linguaggi, altre culture. Una estraneità permanente, perché queste persone difficilmente sostavano a lungo, si rimettevano sempre in cammino, costituivano un microcosmo itinerante …”[16], che veniva ad ingrossare la popolazione fluttuante cittadina.

  1. La casistica italiana

Da questo punto di vista, esemplare è il caso di Firenze, su cui vale la pena di fermarsi più a lungo. Qui era stato istituito l’Ufficio dell’Onestà con il compito, tra gli altri, di esercitare un controllo sul mondo della prostituzione cittadina, ed è sulla documentazione prodotta da questa magistratura ‒ ovvero il censimento delle prostitute e lenoni effettuato nel 1436 e soprattutto il Libro delle Condannazioni (1441-1523) ‒[17] che Richard Trexler ha potuto ricavare dati di sicuro interesse, ripresi, riesaminati e discussi in seguito dalla Mazzi[18]. Nel 1436 su un totale di 71 prostitute schedate dall’Ufficio (cifra certamente troppo esigua per essere reale), “il gruppo più nutrito (costituito da 26 donne pari al 36,6%) proveniva dai Paesi Bassi, ammesso che con questa nozione geografica si possa aderire alla realtà di allora …: i luoghi indicati nella fonte sono il Brabante e le Fiandre, Liegi e Bruxelles. Un altro gruppo di 16 donne (pari al 22,5%) era costituito invece da prostitute tedesche, venute dalla Magna o Alemania, Alta e Bassa, da Frisinga, mentre altre 13 (18,3%) erano prostitute provenienti dall’Italia del Nord, quasi tutte venete”. Seguono, in ordine decrescente, francesi, slave (Sclavonia), una spagnola e una irlandese e soltanto una fiorentina[19]. Per quanto riguardava i lenoni, spiccava la presenza di uomini provenienti dall’Italia settentrionale, seguiti dai fiamminghi e dai tedeschi. Una variazione significativa delle provenienze si rileva alla fine del ‘400 quando “su circa 80 prostitute, la maggioranza assoluta era rappresentata da italiane del Nord, seguite da una minoranza di spagnole, di fiamminghe e di greche. In numero esiguo erano invece tedesche, francesi, slave del Sud e italiane del Sud. Il personale maschile, a quei tempi, era costituito nella sua totalità, da uomini provenienti dall’Italia settentrionale”[20]. Da sottolineare però come questi dati siano molto parziali e ricavati da una fonte giudiziaria (e non da un vero e proprio censimento) dove la provenienza, specialmente quella più vaga, sarebbe tutta da verificare. Naturalmente anche a Firenze sfugge la reale portata della prostituzione segreta e privata, ma, osserva la Mazzi, “un dato di fatto sembra intuibile: la stragrande maggioranza di straniere e forestiere … ingrossa le file delle pubbliche meretrici, mentre alle abitanti del contado e della città è riservato il dubbio privilegio di dominare il settore degli affari privati”[21].

A Ferrara si ha invece un andamento diverso nel tempo per quanto attiene alla popolazione dei bordelli, addirittura quasi opposto rispetto a quello di Firenze prima esaminato. Nel 1438 la maggioranza delle prostitute erano italiane del Nord (Lombardia e Veneto), seguivano le emiliane non ferraresi mentre erano poche le presenze di donne ultramontane prime fra tutte le tedesche. I loro protettori (solo 14 identificati) erano nove dei Paesi Bassi, Fiandre e Brabante, tre tedeschi e due del Veneto. Invece nel secondo ‘400 le meretrici saranno soprattutto tedesche e venete e poi slave, pochissime invece quelle dei Paesi Bassi e lombarde, mentre gli uomini a loro legati erano per la maggior parte italiani del Nord seguiti da tedeschi e toscani[22].

Per Bologna, Rossella Rinaldi ha potuto mettere in evidenza, attingendo alla documentazione prodotta dagli ufficiali cittadini per il XIV e XV secolo, come da una sorta di censimento delle mulieres publicae del 1341 emerga un numero davvero consistente di prostitute. Quelle “per così dire identificate per nome, più di rado con la paternità e la provenienza, superano le 120 unità; molte però restano fuori da questa valutazione, perché a suo tempo erano sfuggite al computo dei magistrati … La fonte qui considerata ci fa intravvedere accanto a quelle fisse, insediate stabilmente nei bordelli, donne che lavorano in maniera saltuaria alloggiate presso privati cittadini … Troviamo poi quelle che esercitano più allo scoperto …su strade e piazze …”[23]. Per quanto riguarda le scarse provenienze espresse in questa fonte, la maggioranza delle prostitute schedate risulta provenire dall’area padano-veneta, seguita dalla Toscana. Una minoranza è invece originaria di altre città come Reggio, Parma, Firenze, Genova, Mantova. Pressoché assenti le straniere, tranne qualcuna proveniente da paesi d’Oltralpe, e scarsa anche la presenza di cittadine bolognesi[24].

Emanuela Di Stefano, che ha esaminato il fenomeno per Macerata, ha pure evidenziato come nel postribolo cittadino “tenutarie, lenoni e meretrici, come altrove, sono per lo più forestieri itineranti: provengono dal Brabante e dalla Francia, dalla Sclavonia e dall’Alemannia. Ma ciò non esclude casi di reclutamento «in loco» ed episodi di coazione più o meno esplicita” e ha potuto mettere in luce le correnti migratorie legate al mondo della prostituzione. Tra fine ‘300 e secondo ‘400 il gruppo più consistente proviene dall’Alemannia. Le altre aree indicate sono il Brabante, la “Zelanda”, la “Sclavonia”[25].

Se volgiamo lo sguardo al Sud Italia, non mancano ricerche relative alla Sicilia. A Siracusa, dove – scrive Viviana Mulè – “la maggior parte delle prostitute … erano straniere, provenienti dai diversi paesi del Mediterraneo. Oltre ai vari postriboli autorizzati, il meretricio veniva esercitato anche nelle taverne in modo clandestino, come accadeva anche a Palermo”[26], dove le donne pubbliche arrivavano soprattutto dalle regioni dell’attuale Spagna, e in particolare – almeno da quanto mostrano i soprannomi e le provenienze – da Valencia, da Perpignano, da Toledo, etc.[27].

Infine, ma gli esempi potrebbero continuare, il caso di Venezia, una tra le città più cosmopolite d’Europa, dove più consistente era il numero delle prostitute, anche perché – come vedremo anche per Roma ‒ l’elemento maschile era superiore a quello femminile. Tutti i cronisti, a partire da Martin Sanudo, sono concordi su questo punto, proponendo cifre importanti fino alle 13.000 unità, certamente un’esagerazione ma che rende bene la percezione comune dei contemporanei sulla moltitudine delle prostitute cittadine[28]. Elisabeth Crouzet Pavan, che ha esaminato analiticamente la situazione veneziana tra ‘400 e ‘500, per quanto riguarda il numero delle “filles publiques”, sottolinea la mancanza di dati numerici e l’inaffidabilità di quelli forniti delle rare fonti esistenti, ad esempio il numero di 11.654 meretrici indicate dal Sanudo per il 1519[29]. Anche per la valutazione degli stranieri legati al mondo del meretricio la studiosa mostra molta cautela perché non esistono per Venezia fonti atte a condurre uno studio quantitativo, ma solo indicazioni generiche negli atti pubblici, ad esempio la relativa frequenza con cui numerose donne pubbliche sono indicate nelle fonti processuali come  “padovana, trivisana o furlana”, fatto questo perfettamente realistico visto che Venezia a quei tempi era certamente un polo di attrazione per le popolazioni vicine, e non solo per esse. Infatti, non mancano prostitute con l’appellativo di “greca, schiavona o spagnola” che, pur potendo essere un segno di esoterismo o un nome di battaglia, si possono ricondurre a quelle comunità di stranieri da tempo insediate a Venezia (greci, armeni, albanesi, schiavoni etc.), oltre che ad elementi della popolazione fluttuante della città[30].

Tirando per il momento le fila del discorso, non vi è dubbio che un po’ dovunque in Italia e in Europa, “in passato, come oggi, la prostituzione era spesso un mestiere di immigrate”[31], però continua a rimanere sconosciuto il motivo dei flussi migratori legati al mondo del meretricio, le motivazioni e le aspettative dei protagonisti di quel mondo. Purtroppo, scrive la Mazzi, “non c’è testimonianza in grado di ricostruire quei percorsi, quelle motivazioni, quelle aspettative”. Si può solo procedere indirettamente valutando da una parte le capacità di attrazione delle singole città e dall’altra le ragioni ambientali, climatiche, economiche, politiche” che rendevano cronico l’esodo e irreversibile la corrente migratoria”[32], oltre a considerare quali fossero le forme di reclutamento delle pubbliche meretrici e le circostanze che le portarono a esercitare questo mestiere[33]. Se ne darà qualche cenno nel trattare del caso romano.

  1. Roma

La storiografia da lungo tempo si è occupata della prostituzione a Roma, per quanto riguarda sia il versante storico sia quello letterario[34]. L’interesse per le “donne pubbliche”, quasi assente per i secoli medievali per la mancanza di fonti, è stato necessariamente rivolto all’età moderna, ed in particolare al Cinquecento-Seicento[35], anche per il numero davvero cospicuo di queste figure.

Per comprendere meglio questo fenomeno, occorre tener presente la formidabile espansione della Città Eterna nel corso del ‘400 e primo ‘500, suscitata dalle specifiche capacità della Curia di attrarre risorse economiche e umane. In questo periodo la popolazione cittadina raddoppiò proprio in conseguenza dell’imponente e continuo flusso migratorio, connotato dalla grande varietà socio-professionale degli immigrati, provenienti non solo dalle aree limitrofe, ma anche dalle diverse regioni italiane ed europee[36], popolazione di cui la componente maschile era straordinariamente elevata. “Di conseguenza – ha osservato Elisabeth Cohen – nella popolazione cittadina esisteva un netto squilibrio nella proporzione tra i due sessi; le stime parlano di sole cinquantotto donne per ogni cento uomini”[37].  È dunque credibile che la dimensione veramente cospicua della diffusione del meretricio in città fosse probabilmente dovuta “dall’esser in Roma raccolta una corte enorme di celibi”[38], per non parlare dei viaggiatori, laici ed ecclesiastici, e di tutti coloro che si trovavano per motivazioni diverse a soggiornare più o meno temporaneamente in città.

Ma quante erano le meretrici a Roma tra ‘400 e ‘500? A dar credito al cronista Stefano Infessura, alla fine del ‘400 le meretrici “manifeste” presenti a Roma erano “in numero di 6.800 prostitute, eccettuate quelle che vivono come concubine e quelle che, non in pubblico ma nascostamente, in gruppi di cinque o sei esercitano quel mestiere, e ciascuna di loro ha uno o più protettori. Considera in qual modo si vive a Roma, dove c’è il capo della cristianità e che è chiamata città santa”;[39] mentre per il prete spagnolo Francisco Delicado, che scriveva la sua Lozana andalusa riferendosi al 1524, erano ben “trentamila puttane e novemila ruffiane”[40]. Se entrambe queste valutazioni sono del tutto inattendibili dal punto di vista quantitativo, stanno però a dimostrare qual era la percezione del fenomeno da parte di coloro che vivevano a Roma[41].

L’esame analitico dei due censimenti che rimangano per Roma (uno, il Census del 1517 – in realtà una rilevazione per parrocchie, peraltro incompleta ‒ e l’altro, la Descriptio Urbis, di circa 10 anni dopo), può fornire qualche altro elemento per la nostra indagine[42].

Partiamo dalla Descriptio Urbis, che riguarda tutta la città e riporta non solo i nomi dei titolari dei fuochi ma anche il numero delle bocche per fuoco, partendo dall’unico studio di carattere demografico prodotto su questo documento, ovvero la nota monografia di Livio Livi[43], che dedica particolare attenzione alla popolazione femminile. Di questo saggio, allargando un po’ il discorso, riporto in modo sintetico i risultati dei calcoli statistici e qualche mia osservazione.

Nella Descriptio su di un totale di 9.352 fuochi, quelli femminili (compresi i monasteri con monache) sono 2.162 (23,2 su 100 famiglie)[44], di cui quelli con titolare una donna non romana sono ben 1.470 (quindi più della metà). Solo 388 sono i fuochi (di uomini e di donne) definiti esplicitamente “romani”, di questi 388 fuochi, 169 sono intestati a uomini e ben 219 a donne. Questi dati forniscono certamente delle preziose indicazioni, ma si devono prendere con cautela considerando alcuni evidenti atteggiamenti dei rilevatori che in parte ne falsano l’obbiettività e in particolare: 1. si rileva più la provenienza straniera che non la romana, perché, per dirla con il Livi, “la qualità di romano aveva colpito poco la mente di coloro che compilarono il censimento”[45]; 2. la provenienza è indicata più frequentemente per le donne, per le quali questo elemento costituiva il mezzo preferito per l’individuazione, mentre gli uomini sono più spesso indicati con il mestiere rispetto alla nazionalità. Un elemento importante è poi dato dalla densità dei fuochi, dove il numero medio delle persone dei fuochi femminili è di 3,53 mentre per quelli maschili risulta di ben 6,46. “Per i fuochi femminili la curva raggiunge il massimo per le famiglie composte da due persone e quindi cala rapidamente, per quelli maschili la curva raggiunge il massimo solo per i nuclei di 3 persone per poi decrescere assai più lentamente”[46]. Ebbene per Livi questo fenomeno è dovuto al fatto che una gran parte delle donne a capo di un fuoco è data prevalentemente da cortigiane[47]. Infatti, per lui il loro numero non può limitarsi a quello molto ridotto del nostro censimento, dove solo 31 donne riportano l’indicazione di questo mestiere (cortigiana, curiale, puttana), mentre diverse fonti, tra cui la rilevazione del 1517, tramandano numeri molto più elevati. Considerando tutta una serie di elementi, egli ha valutato che a Roma il numero delle donne dedite al meretricio dovesse aggirarsi sulle 1500 unità, costituendo circa il 3% della popolazione censita[48], numero a mio avviso sovrastimato anche alla luce della rilevazione del 1517.

Questo documento, che, come si è detto, è anteriore alla Descriptio di circa 10 anni, peraltro mutilo mancando circa 2/3 del manoscritto, consta di 2.812 registrazioni, e in più di un terzo di queste compaiono donne; è da tener presente però che in una sola registrazione possono essere nominate anche diverse donne, oppure può essere solo indicato che in una casa abitano “certe done”, quindi è impossibile proporre una quantificazione complessiva della presenza femminile lì registrata. In ogni caso, un numero consistente di donne, molte delle quali straniere (le più numerose erano le spagnole seguite da tedesche e francesi), le quali a Roma abitavano e lavoravano, da sole o aggregandosi con altre o altri, in una pluralità di attività e mestieri, che in questa fonte emergono in modo più articolato rispetto alla Descriptio[49].

Nel Census del 1517, su 1.424 indicazioni riferite al mestiere, per le donne il più rappresentato è quello della cortigiana con ben 206 attestazioni e precisamente 182 cortigiane, 12 putane, 3 curiali, 2 meretrici, 7 done de partito (così sono definite nel documento), a capo di fuochi molto ridotti (in media solo 2-3 persone) – cosa peraltro comune alla gran parte dei fuochi di donne che esercitavano mestieri umili, come le camiciaie e le lavandaie[50]. In una valutazione numerica della presenza delle cortigiane a Roma in quest’epoca, si dovrà ovviamente considerare che è possibile che esercitassero il mestiere anche le coinquiline delle titolari dei fuochi. Alcune delle cortigiane censite sono indicate anche con altre qualifiche, come ad esempio “Ysabeta todescha cortesana et lavandara”, o “Domenica de Narnia quale tene camere locande, putana”[51], il che fa pensare che per queste donne il meretricio non fosse il mestiere prevalente ma che fosse praticato per rimpolpare gli scarsi redditi del loro abituale lavoro.

Dall’esame dei due documenti, altri elementi colpiscono immediatamente: l’onomastica delle cortigiane, costituita da veri e propri nomi di battaglia: “Ora si fanno chiamare ora Cassandra, ora Porzia, ora Prudenzia o Cornelia”, non mancava di osservare Pietro Aretino nelle Sei giornate[52], e da quelli ricavati dalla loro provenienza, che – quando espressa – è nella gran parte dei casi non romana. Tanto per esemplificare: nella parrocchia di San Trifone – Sant’Agostino, posta nell’area del rione Campomarzio confinante con Parione, su 12 cortigiane censite, vi erano cinque spagnole, una greca, una veneziana, una piacentina, una ferrarese, due senza provenienza e solo una è detta “romana”[53]. Infine, sulla percezione che nel primo ‘500 si aveva a Roma non solo del numero ma anche delle molteplici nazionalità delle cortigiane fa luce il citato brano de La Lozana andalusa di Francisco Delicado, dove – probabilmente enfatizzando ‒ se ne elencano ben 66. Solo le spagnole erano divise in 13 piccoli gruppi, le italiane erano distinte per 31 provenienze cittadine e regionali, a cui facevano seguito delle entità territoriali più grandi come Francia, Inghilterra, Germania etc.[54]. Naturalmente non è possibile valutare il grado di precisione delle rilevazioni dei rilevatori o la veridicità delle dichiarazioni di queste donne, anche perché si deve sempre tener conto che per una prostituta poteva essere più conveniente manifestare un’origine forestiera, così da aumentare il proprio potere di attrazione. Di conseguenza, a Roma come altrove, i nomi non costituiscono un indicatore sicuro della provenienza geografica delle prostitute[55], quindi qualsiasi valutazione della “nazionalità” deve ritenersi approssimativa.

Un ulteriore dato è comunque fornito per l’anno 1549 quando, per finanziare la riparazione del ponte S. Maria (poi denominato “Ponte rotto”), si dispose una tassa per le cortigiane “manifeste”, che furono censite per alcuni rioni cittadini (il rione Ponte e le sue adiacenze e diverse contrade dei rioni Campomarzio, Colonna, Regola, Parione e Pigna, dunque solo una parte della città sebbene centrale) risultando circa 437[56], di cui le romane e le native dell’odierno Lazio costituivano una netta minoranza. Vale la pena di essere più precisi: delle 437 prostitute (registrate in 401 abitazioni), mentre per circa 208 non è espressa la provenienza, le prostitute definite “romane” risultano 19, mentre quelle “laziali” soltanto 14. Ben più numerose le straniere e le forestiere: in tutto 196: precisamente tra le straniere (in tutto 68) le spagnole erano 36, seguite dalle francesi in numero di 12, nove erano le tedesche e otto le greche, mentre due erano le fiamminghe e una soltanto portoghese; tra le italiane (in totale 128) spiccano le bolognesi/parmigiane in numero di 24, le veneziane 17, le fiorentine14, le ferraresi 12, le senesi 11 e così pure le perugine, mentre le napoletane erano 10; le urbinate, le milanesi, le mantovane e le piacentine erano cinque per ogni città, mentre le genovesi erano solo tre[57].

Questa tendenza era destinata a persistere: dall’indagine condotta da Tessa Storey sui registri parrocchiali romani tra il 1590 e il 1630, su 1.198 prostitute l’84% erano immigrate[58]. Secondo la Kurzel Runtscheiner, tra il 1500 e il 1600 si registra un’autentica corsa di donne da ogni angolo d’Europa verso la Città Eterna: arrivavano giovanissime, dalla Spagna, dai paesi balcanici, dagli Stati cattolici della Germania, etc.[59], mentre sempre in secondo piano rimangono le romane, che per lo più praticavano il mestiere occasionalmente e di nascosto.

Anche per Roma, come per le altre città di cui si è prima fatto cenno, non è possibile risalire alle cause dell’emigrazione di tante donne “venali” e dei loro lenoni e protettori, e neppure, se non per singoli casi, alle circostanze che hanno determinato per molte donne la pratica di questo mestiere e/o il loro reclutamento.

Delle meretrici che esercitavano nei lupanari romani praticamente non si sa nulla, e anche riguardo agli stessi bordelli scarse sono le informazioni: nel rione Ripa presso la chiesa di S. Maria in Cosmedin (Bocca della Verità) sorgeva il Burdelletto dove “erano riunite le basse prostitute, in case con un muro di cinta” e pure nei dintorni vi erano abitazioni di povere meretrici[60];  ed è noto che anche nel rione Campomarzio fra via di Ripetta e piazza Lombarda nella località detta l’Ortaccio risiedevano molte donne di malaffare del livello più basso: non è un caso che proprio qui nel 1569 sarà istituito da Pio V un Serraglio per le prostitute, recintato da mura e porte[61], che però ebbe vita breve. L’unico bordello su cui si è reperita qualche informazione più precisa è quello di Ponte Sisto (detto anche di Santa Maria), considerato “l’ultima spiaggia” per le prostitute più anziane e cadute in miseria[62]. Da due atti notarili, entrambi della fine del ‘400, si recupera peraltro solo il nome dei tenutari e dei gestori, oltre a qualche particolare di un certo interesse. Il primo atto, rogato dal notaio Pacifico Pacifici, in data 11 novembre 1487, mostra come le domunculae del postribolo (il cui numero complessivo non è noto) fossero di proprietà privata: nel nostro atto il macellaio Domenico Maldosso e il fratello Cristoforo, proprietari in postribulo pontis S. Marie di 16 domunculas postribularias partim copertas et partim discopertas, fino ad allora di proprietà comune, decidono di dividerle tra loro[63].

Con il secondo documento, del 23 giugno 1496, si aggiunge un altro tassello alla storia del bordello di Ponte Sisto. La giurisdizione sulla contrada di quel postribolo era di pertinenza del pontefice – allora Alessandro VI ‒ che ne aveva affidato il “Capitanato” a Bartolomeo de Mena e a Martino Athari. Questi due personaggi, a loro volta, con regolare atto notarile[64], concedevano in affitto per un anno e per dieci ducati di carlini mensili supradictum officium capitaneatus prefati loci seu postribuli a due individui, il còrso Ludovico Romanelli e un non meglio definito Capuano, cum omnibus onoribus et emolumentis e con il potere di esigere da ogni meretrice veniente ad demorandum in dicto loco et postribolo due carlini ogni mese, oltre a gestire una baratteria in qua ludentes ibidem possint et valeant ludere sine aliqua pena, e una taverna libera dal pagamento della gabella del vino.

Se dalla documentazione archivistica del Quattrocento e primo Cinquecento nessuna notizia si è finora recuperata sulle abitanti dei bordelli, ugualmente scarse indicazioni si hanno sulle motivazioni all’origine della loro attività e sulle condizioni di vita delle prostitute “indipendenti”, ad eccezione naturalmente delle cortigiane più famose e più benestanti[65].

Mancando per il periodo considerato le fonti giudiziarie, che dal tardo ‘500 hanno potuto documentare le vicende e dare informazioni su un certo numero di prostitute[66], qualche spia relativa al loro reclutamento e alla loro presenza a Roma è fornita da alcuni atti notarili stipulati come contratti di lavoro servile[67], che ben testimoniano la relazione tra immigrazione, attività lavorative poco remunerate e caduta nella prostituzione. Infatti, per molte donne prive di un sostegno maschile e di una rete di rapporti familiari, venute in città motivate da stringente necessità o dalla speranza di migliorare la propria condizione, l’allocarsi come serva sembrava quasi l’unica soluzione, anche se poi il servizio domestico poteva costituire la prima tappa sulla via del meretricio[68].

Tra i diversi contratti sottoscritti da donne adulte, tutte non romane, quello stipulato nel 1454 da Margherita uxor Pauli sclavi de Osaro de Slavonia offre spunti interessanti. La donna, probabilmente abbandonata dal marito, s’impegnava con il nobile Angelo di Pietro di Matteo de Albertonibus ‒ non solo per sé stessa ma anche per la figlioletta Elena di un anno e mezzo ‒ a lavorare presso di lui fino al raggiungimento dei 16 anni della figlia, quando Pietro avrebbe pagato la dote alla fanciulla e le avrebbe trovato un marito adeguato al suo stato. Oltre al periodo di servizio molto più ampio del normale, quel che colpisce è un altro particolare: Margherita era giunta a Roma da una località non indicata a spese di Pietro, il quale, nel caso che il marito della donna fosse venuto nell’Urbe e l’avesse rivoluta con sé, pretendeva di riavere i soldi spesi per il viaggio e inoltre l’obbligava a non andare al servizio di nessun altro[69].

Questo particolare e lo spostamento della donna da un’altra città apre uno scenario più inquietante, messo in luce dalla storiografia, che rinvia a un vero e proprio mercato delle donne (non solo prostitute), reclutate da spregiudicati trafficanti soprattutto dai paesi dell’Est “perfezionando i propri movimenti d’affari con finti contratti che prevedevano la restituzione delle somme impiegate per i viaggi, il vitto, gli abiti e la ricerca dell’ingaggio”[70]. In questo contesto si inquadra anche il contratto sottoscritto da Alena uxor Nicolai sclavi e il nobile Francisco de Astallis, membro di un’importante famiglia dell’aristocrazia romana. La donna, maltrattata e abbandonata dal marito (“asserens se esse male tractatam et totaliter derelictam a dicto Nicolao eius viro nec sperat illum amplius revidere”), dopo aver dichiarato di essere “deventa … ad manus nobilis viri Francisci de Astallis, et suis sumptibus et expensis devenerit ad Urbem sicut ipsa semper desideravit”, s’impegnava a servire Francesco “in eius domo in omnibus servitiis sibi possibilibus ad beneplacitum dicti Francisci et pro eo tempore quo sibi Francisco placuerit” per ricompensarlo di quanto aveva fatto per lei fino ad allora; e a far fede sulle buone intenzioni di Francesco (che evidentemente l’avrebbe considerata una serva-concubina) interveniva un altro nobile romano, Pietro Matteo Albertoni che prometteva ad Alena che “dominus Franciscus bene tractabit ipsam in alendo et gubernando ac eidem dando calciamenta et vestimenta”[71]. È facile ipotizzare il destino della povera Alena una volta licenziata dal servizio di Francesco.

La documentazione raccolta mette in luce anche relazioni dove il legame tra un uomo e una donna, pur definita concubina, potrebbe far ipotizzare lo sfruttamento della donna come lavoratrice del sesso. È quanto sembra dedursi dal rapporto tra Lionello da Bologna e la “teutonica” Giannetta. Nell’atto, rogato il 16 marzo 1496 in casa del nobile Iacopo Santacroce e alla sua presenza, Lionello, che dichiarava di aver condotto a sue spese la donna da Venezia a Roma, avendo deciso di “[eam] liberare … et eam ulterius non retinere ad suum velle ut concubinam, … ipsam Iannectam, presentem etc., liberavit et eam liberam fecit ut possit et valeat de sua persona disponere ad suum velle”. La sua liberalità verso la donna aveva però un prezzo, ben 12 ducati per tutte le spese da lui fatte per condurla “de dicto loco ad Urbem et in aliis sibi factis”, che Giannetta gli pagava in contanti. A sua volta la donna prometteva di “non capere nec retinere aliquem hominem in rufiano”, altrimenti Lionello avrebbe potuto “exigere ab ea ducatos 25 et ipsam petere in sua concubina”[72].

Si potrebbe continuare con un’altra tipologia di casi in cui una donna offre “il servizio” della sua sessualità in cambio di un’adeguato mantenimento, contratti che si potrebbero definire di “servizio sessuale esclusivo” sebbene a tempo determinato, e che a volte hanno come caratteristica la non coabitazione delle parti[73]. Si tratta di una prostituzione di medio e alto livello, da cortigiana “onesta”, da “curiale” (ovvero relativa a donne che frequentavano gli ambienti della curia)[74] per usare la terminologia in uso a quei tempi, e dunque al di fuori del tema trattato in questa sede, sebbene si debba sottolineare come anche queste donne indichino una provenienza per lo più non romana.

Infine, solo un breve cenno alle schiave, “straniere assolute”[75], soprattutto acquistate come schiave domestiche ma obbligate a soddisfare ogni volere del padrone; le schiave, infatti, non potevano vantare nessun diritto e in molti casi erano state acquistate proprio per il loro sfruttamento sessuale[76]. In verità, dalla scarsa documentazione reperita per Roma, non emerge questo elemento e neppure quello dell’avvio al meretricio, ma soltanto la loro provenienza: tra la fine del ‘400 e i primi decenni del secolo seguente, nella decina di casi individuati, in maggioranza si tratta di schiave definite genericamente nigre, una è definita ethiopica e un’altra ungara[77].

In conclusione, con dati così parziali non è possibile comprendere fino in fondo le ragioni e i modi dei flussi migratori legati all’esercizio del meretricio a Roma. Quello che colpisce è soprattutto il fenomeno capillare della prostituzione privata, con o senza la presenza di lenoni e protettori, costituita soprattutto da donne che dichiaravano un’origine non romana. Le cortigiane, di vario livello, erano presenti in tutta la città, a quel che sembra tollerate e sostanzialmente accettate nella vita quotidiana, sebbene tra ‘400 e ‘500 le autorità si sforzassero di porre dei limiti soprattutto per distinguere le cortigiane di condizione più elevata dalle nobili romane. Per questo motivo già dall’epoca di Paolo II nella normativa suntuaria romana venne imposto alle prostitute il divieto di indossare l’abito tradizionale delle honestae dominae, abito a cui si annetteva una grande importanza sociale e simbolica[78], divieto ribadito anche nelle normative successive[79].


[1]1         Francisco Delicado, Ritratto della Lozana andalusa, a cura di Teresa Cirillo Sirri, Roma, Roma nel Rinascimento, 1998, p. 70.

[2]           Una messa a punto sulla letteratura italiana e straniera in materia si deve a Maria Serena Mazzi, La mala vita. Donne pubbliche nel Medioevo, Bologna, Il Mulino, 2018, a cui affiancare il recentissimo studio di Rossella Rinaldi, Meretricio. Storia e storie (secc. XIII-XV), in La fama delle donne. Pratiche femminili e società tra Medioevo ed Età moderna, a cura di Vincenzo Lagioia, Maria Pia Paoli e Rossella Rinaldi, Roma, Viella, 2020, pp. 105-131, in particolare pp. 108-112. Rinviando alla bibliografia citata nei lavori di queste studiose, nel corso del presente contributo mi limiterò a segnalare i saggi strettamente attinenti alla mia narrazione.

[3]           Su questo cfr. Jacques Rossiaud, La prostituzione nel medioevo, tr. it., Roma-Bari, Laterza, 1984, pp. 93-109; e sul mutamento di tendenza – soprattutto a livello morale, sociale e collettivo – a partire dalla fine del ‘400, alle pp. 167-204. Vedi inoltre Giacomo Todeschini, Visibilmente crudeli. Malviventi, persone sospette e gente qualunque dal Medioevo all’età moderna, Bologna, il Mulino, 2007, pp. 147-153; e Gustavo Adolfo Nobile Mattei, Miserabili o criminali? Le prostitute come dilemma penale (secc. XVI-XVII), in La fama delle donne, cit., pp. 191-206.

[4]           Cfr., tra gli altri, J. Rossiaud, La prostituzione nel medioevo, cit., pp. 77-80; Richard C. Trexler, La prostitution florentine au XVe siècle: patronages et clientèles, “Annales E.S.C.”, 36 (1981), pp. 983-1015, ripubblicato in versione italiana in Richard C. Trexler, Famiglia e potere a Firenze nel Rinascimento, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1990, pp. 201-253, da cui si cita; Maria Serena Mazzi, Il mondo della prostituzione nella Firenze tardo medievale, in Forestieri e stranieri nelle città basso-medievali, Atti del Seminario Internazionale di Studio, Bagno a Ripoli (Firenze), 4-8 giugno 1984, Firenze, Salimbeni, 1988, pp. 127-147; Maria Serena Mazzi, Un “dilettuoso luogo”: l’organizzazione della prostituzione nel tardo Medioevo, in Città e servizi sociali nell’Italia dei secoli XII-XV, Pistoia, Centro Studi Storia e Arte,1990, pp. 467-468. Su Venezia e la lotta alla sodomia cfr. Elisabeth Pavan, Police des moeurs, société et politique à Venise à la fin du Moyen Age, “Revue historique”, 264 (1980), pp. 241-288; per Perugia il noto lavoro di Ariodante Fabretti, La prostituzione a Perugia nei secoli XIV, XV e XVI, Torino, coi tipi privati dell’editore, 1885, ampiamente utilizzato da Sandro Allegrini, Perugia a luci rosse: dal Medioevo alla legge Merlin, Perugia, Morlacchi, 2016. Si veda inoltre Giovanni Scarabello, Meretrices. Storia della prostituzione a Venezia dal XIII al XVIII secolo, Venezia, Supernova, 2008. Per la Sicilia cfr. Antonino Cutrera, Storia della prostituzione in Sicilia, Palermo, Editori Stampatori Associati, 1971; Patrizia Sardina, La sessualità femminile in Sicilia, “Archivio Storico Siracusano”, ser. III, 13 (1999), pp. 73-147: 118-123.

[5]           Stefania Arcuti, Segnate a vista. Donne di strada nel medioevo, Lecce, Pensa Multimedia, 2011.

[6]           Ricordo solo i più famosi: L’Ufficio dell’Onestà di Firenze, una magistratura permanente che aveva il compito esplicito di vegliare e controllare la moralità pubblica, operante a partire dal 1403, e l’Ufficio delle Bollette di Bologna, a cui dalla fine del ‘300 in poi sino a tutto il XVIII secolo, furono trasferite le competenze fondamentali in materia di prostituzione, anche a livello di controllo, sebbene questo ufficio fosse addetto principalmente all’incasso delle tasse sulla pratica della prostituzione: la riscossione del tributo, comportando censimenti periodici e soprattutto la ricerca delle insolventi, dava modo ai funzionari di vigilare esercitando una forma evidente di auctoritas oltre a realistiche pressioni sulle donne, cfr. Rossella Rinaldi, Meretricio, giustizia, genere (secc. XIII-XV), in I registri della giustizia penale nell’Italia dei secoli XII-XV, a cura di Didier Lett, Rome, Publications de l’École française de Rome, 2021, pp. 425-462: 437.

[7]           Ibid.; M.S. Mazzi, La mala vita, cit.

[8]           M.S. Mazzi, La mala vita, cit., p. 14. Sul corpo e la sessualità come “risorsa”, cfr. Lucia Ferrante, Il valore del corpo, ovvero la gestione economica della sessualità femminile, in Il lavoro delle donne, a cura di Angela Groppi, Roma-Bari, Laterza, 1996, pp. 206-228.

[9]           Già Rossiaud aveva distinto quattro livelli di appartenenza al mondo della prostituzione, cfr. J. Rossiaud, La prostituzione nel Medioevo, cit.; e ora Id., Amori venali. La prostituzione nell’Europa medievale, Roma-Bari, Laterza, 2013, pp. 86-87.

[10]          R. Rinaldi, Meretricio, giustizia, genere, cit., p. 442. È però da tenere presente che “non di rado meretrix può trovarsi in associazione oppure in sostituzione ad amaxia, e concubina”, risultandone confuso l’accertamento delle singole identità. Sull’ambiguità di fondo del lessico, che “genericamente si appunta su trasgressioni femminili percepite, anzitutto, come minacce per la famiglia, l’ordine dei generi e della società”, cfr. Carol Lansing, Concubines, Lovers, Prostitutes. Infamy and Female Identity in Medieval Bologna, in Beyond Florence. The contours of medieval and early modern Italy, a cura di Paula Fendlen, Michelle Fontaine, Duane J. Osheim, Stanford, Stanford University Press, 2003, pp. 85-100, ma si vedano le acute osservazioni della Rinaldi, Meretricio. Storia, cit., pp. 107, nota 6, che rinvia a Eukene Lacarra Lanz, Changing Boundaries of Licit and Illicit Unions: Concubinage and Prostitution, in Marriage and Sexuality in Medieval and Early Modern Iberia, a cura di Eukene Lacarra Lanz, New York-London, Routledge, 2002 pp. 158-194, e a Ruth Mazo-Karras, Unmarriages. Women, Men and Sexual Unions in the Middle Age, Philadelphia, University of Pennsylvania Press, 2012, pp. 135-164.

[11]          R. Rinaldi, Meretricio, giustizia, genere, cit., p. 445.

[12]          Ibid., p. 443.

[13]          Cfr., ad esempio, M. S. Mazzi, Il mondo della prostituzione, cit., p. 138; E. Pavan, Police des moeurs, p. 257, etc.

[14]          Questa e le seguenti citazioni sono tratte da M.S. Mazzi, La mala vita, cit., p. 131, che offre ampia bibliografia.

[15]          M. S. Mazzi, Il mondo della prostituzione, cit., p. 136. A Bologna le prostitute che operavano al di fuori del lupanare, e dunque clandestinamente, erano chiamate casarenghe (casalinghe), cfr. R. Rinaldi, Meretricio, giustizia, genere, cit., p. 439.

[16]          M. S. Mazzi, La mala vita, cit., p. 131.

[17]          In questa fonte sono elencati sinteticamente “oltre ai delitti e alle condanne, i nomi, il luogo di provenienza, l’occupazione, il luogo di residenza di tutte le donne coinvolte in ognuno dei 1720 portati all’esame dell’Onestà durante questi 82 anni”, ed in particolare ‒ ai fini di un’elencazione delle presenze – per gli anni 1486-1490, cfr. R.C. Trexler, La prostituzione fiorentina, cit., pp. 204-210: 205.

[18]          M.S. Mazzi, Il mondo della prostituzione, cit., pp. 133-134.

[19]          R.C. Trexler, La prostituzione fiorentina, cit., p. 208 (tavola analitica) e M.S. Mazzi, Il mondo della prostituzione, cit., p. 137.

[20]          R.C. Trexler, La prostituzione fiorentina, cit., p. 208-209; la citazione è da M.S. Mazzi, La mala vita, cit., p. 133.

[21]          M.S. Mazzi, Il mondo della prostituzione, cit., pp. 136-137. La studiosa osserva anche come “ovviamente molte fiorentine si trovavano probabilmente sparse nei postriboli di altre città italiane e forse anche all’estero”.

[22]          Angelica Gamba, La prostituzione a Ferrara nel tardo Medioevo, tesi di laurea, Università degli Studi di Ferrara, relatrice Maria Serena Mazzi, a.a. 1996-1997, cit. in M.S. Mazzi, La mala vita, cit., p. 134.

[23]          R. Rinaldi, Mulieres publicae, cit., p. 116.

[24]          Ibid., e p. 125 nota 41.

[25]          Emanuela Di Stefano, Postribolo pubblico e prostituzione a Macerata nel basso Medioevo, “Proposte e ricerche”, 34-I (1995), p. 18-36: 22, 24 sgg.

[26]          Viviana Mulè, La prostituzione a Siracusa sul finire del ‘400 attraverso un documento inedito dell’Archivio della Corona d’Aragona, “Archivio Storico Siracusano”, ser. III, 17 (2003), pp. 65-90: 75-76.

[27]          A. Cutrera, Storia, cit., p. 69.

[28]          E. Pavan, Police des moeurs, cit. p. 257. La studiosa aggiunge di trattare con grande prudenza i dati forniti dai cronisti che sono portati a ingigantire il fenomeno della prostituzione anche per sottolineare la corruzione dei costumi della loro epoca, e la nostalgia per gli onesti costumi del passato. Su ciò cfr. anche Paul Larivaille, La vita quotidiana delle cortigiane nell’Italia del Rinascimento, tr. it., Milano, Fabbri, 1998, pp. 59-60.

[29]          E. Pavan, Police des moeurs, cit., p. 256.

[30]          Ibid., p. 257-258. Sul lavoro delle immigrate, soprattutto servile, che poteva decadere nel meretricio, cfr. Emanuele Orlando, Migrazioni mediterranee. Migranti, minoranze e matrimoni a Venezia nel basso medioevo. Bologna, Il Mulino, 2014, pp. 178-180, che sottolinea come non solo a Venezia “la figura della prostituta era appartenuta alla storia della migrazione … allo stesso modo in cui ne avevano fatto parte la serva o la balia o la dama di compagnia” (p. 180 e nota 17).

[31]          Anna Bellavitis, Il lavoro delle donne nelle città dell’Europa moderna, Roma, Viella, 2016, p. 204.

[32]          M.S. Mazzi, La mala vita, cit., pp. 134, 136.

[33]          M.S. Mazzi, Il mondo della prostituzione, cit., p. 138.

[34]          Tra le opere storiche più risalenti vi è senz’altro Emmanuel Rodocanachi, Courtisanes et bouffons. Étude de mœurs romaines au XVIe siècle, Paris, Flammarion, 1894 (tr. it. Milano, Li Causi, 1927); Umberto Gnoli, Cortigiane romane. Note e bibliografia, Arezzo, Edizioni della Rivista Il Vasari, 1941; sul versante letterario, tra i contributi più recenti, cfr. Angelo Romano, Marginali: prostituzione e letteratura, in Taverne, locande e stufe a Roma nel Rinascimento, Roma, Roma nel Rinascimento, 1999, pp 109-124; Danilo Romei, Cortigiane honeste e (dis)honeste nei libri italiani del Cinquecento, in Id., Altro Cinquecento. Scritti di varia letteratura del Sedicesimo secolo, s.l., Lulu, 2018, pp. 7-25; Giuseppe Crimi, Contro le cortigiane: scritti in prosa e in versi nel Cinquecento, in Figure ai margini nella storia, nell’arte, nella letteratura. Roma e dintorni, XV-XVI secolo, a cura di Id. e Anna Esposito, Roma, Roma nel Rinascimento, 2021, pp. 157-192, con ulteriore bibliografia.

[35]          Elisabeth S. Cohen, Camilla la Magra, prostituta romana, in Rinascimento al femminile, a cura di Ottavia Niccoli, Roma-Bari, Laterza, 1991, pp. 163-196; Monica Kurzel-Runtscheiner, Töchter der Venus. Die Kurtisanen Roms im XVI Jahrhundert, München, Beck, 1995; Tessa Storey, Storie di prostituzione nella Roma della Controriforma, “Quaderni storici”, n.s., 106 (2001), pp. 261-293, e Carnal commerce in Counter-Reformation Rome, Cambridge, Cambridge University Press, 2008. Inoltre Susanna Mantioni, Cortigiane e prostitute nella Roma del XVI secolo, Ariccia, Aracne, 2016; Roberto Mendoza, Il peccato e il tributo. Prostitute e fisco nella Roma dell ‘500, prefazione di Marcello Teodonio, Ariccia, Aracne, 2016.

[36]          Sulla composita popolazione di Roma cfr. Anna Esposito, Un’altra Roma. Minoranze nazionali e comunità ebraiche tra Medioevo e Rinascimento, Roma, Il Calamo, 1995. In particolare, sugli stranieri cfr. Egmont Lee, Foreigners in Quattrocento Rome, “Renaissance and Reformation”, 19 (1983), pp. 135-146; e la sintesi di Matteo Sanfilippo, Roma nel Rinascimento: una città di immigrati, in Le forme del testo e l’immaginario della metropoli, a cura di Benedetta Bini e Valerio Viviani, Viterbo, Sette Città, 2009, pp. 73-85.

[37]          E. S. Cohen, Camilla la Magra, cit., p. 176.

[38]          Cfr. Domenico Gnoli, La Lozana andalusa e le cortigiane nella Roma di Leon X, in Id., La Roma di Leon X, a cura di Aldo Gnoli, Milano, Ulrico Hoepli, 1938, p. 196.

[39]          Stefano Infessura, Diario della città di Roma, a cura di Oreste Tommasini, Roma, Istituto Storico Italiano, 1890, pp. 259-260. Ho usato la traduzione riportata in Angelo Romano, Marginali: prostituzione e letteratura, in Taverne, locande e stufe a Roma nel Rinascimento, Roma, Roma nel Rinascimento, 1999, p. 110.

[40]          F. Delicado, Ritratto della Lozana andalusa, tr. it. a cura di T. Cirillo Sirri, Roma, cit., p. 176.

[41]          Anna Esposito, Forestiere e straniere a Roma tra ‘400 e primo ‘500, in Venire a Roma, restare a Roma. Forestieri e stranieri fra Quattro e Settecento, a cura di Sara Cabibbo e Alessandro Serra, Roma, Roma Tre Press, 2017, pp. 3-13.

[42]          Egmont Lee, Descriptio Urbis. The Roman Census of 1527, Roma 1985, ripubblicato, insieme all’edizione del Census del 1517, in Id., Habitatores in Urbe. The Population of Renaissance Rome / La Popolazione di Roma nel Rinascimento, Casa editrice Università La Sapienza, Roma 2006, pp. 119-275. La rilevazione del 1517 era stata edita, piuttosto scorrettamente, da Mariano Armellini, Un censimento della città di Roma sotto il pontificato di Leone X, “Gli studi in Italia”, 4-5 (1882), pp. 7-143. Anche la Descriptio Urbis del 1527 aveva avuto una precedente edizione, a cura di Domenico Gnoli: Descriptio Urbis o Censimento della popolazione avanti il Sacco borbonico, “Archivio della Società romana di storia patria”, 17 (1894), pp. 375-520. Per un’analisi più dettagliata della popolazione femminile romana tratta dalle due rilevazioni cfr. Anna Esposito, Le donne nei censimenti romani del ‘500, in Popolazione e immigrazione a Roma nel Rinascimento. In ricordo di Egmont Lee, a cura di Ead., Roma, Roma nel Rinascimento, 2019, pp. 23-31.

[43]          Livio Livi, Un censimento di Roma avanti il Sacco borbonico: saggio di demografia storica, “Giornale degli economisti e Rivista di Statistica”, ser. III, 48 (1914), pp. 1-100.

[44]          Ibid., pp. 17, 35.

[45]          Ibid., pp. 52-53.

[46]          Ibid., p. 14.

[47]          Ibid., p. 36. A mio avviso, c’è un altro elemento da tenere in considerazione per valutare l’alto numero dei fuochi femminili a bassa densità di bocche: le tante donne che scelsero una via di mezzo tra il convento e il matrimonio, molte delle quali vivevano nelle proprie case con solo una o due “socie” dedite alla preghiera e a umili servizi per mantenersi; una scelta di vita, quella bizzocale, che per molte donne, spesso vedove e prive di protezione o con gravi problemi di convivenza nell’ambiente familiare, poteva diventare una valvola di sopravvivenza esistenziale, oltre che di scelta devozionale, cfr. A. Esposito, Le donne , cit., p. 26.

[48]          Per l’analisi del censimento del 1526-27, oltre al citato saggio del Livi, cfr. Jean Delumeau, Vie économique et sociale de Rome dans la seconde moitié du XVIe siècle, I, Rome, De Boccard, 1957, pp. 197-220. Si veda anche Pio Pecchiai, Roma nel Cinquecento, Bologna, Cappelli, 1948, p. 303 sgg. Per la fine del ‘500 sulle prostitute si hanno a disposizione fonti più precise: nella lista animarum del 1598 ne sono registrate 760, mentre in quella dell’anno successivo 801. Fino a tutti gli anni Trenta del XVII secolo, il loro numero crebbe di anno in anno fino a raggiungere 1036 unità nel decennio 1620-29 per poi decrescere nella seconda metà del secolo, cfr. Eugenio Sonnino, Le anime dei romani: fonti religiose e demografia storica, in Roma, la città del papa. Storia d’Italia. Annali 16, a cura di Luigi Fiorani e Adriano Prosperi, Torino, Eiaudi, 2000, pp. 329-360: 354. Nelle pagine seguenti l’autore esamina le diverse motivazioni alla base della crescita e quindi del declino del fenomeno ‘prostituzione’ nel corso del Seicento.

[49]          Questo documento è stato studiato da Manuel Vaquero Piñeiro, Case, proprietà e mestieri a Roma nel Censimento di Leone X, in Vivere a Roma. Uomini e case nel primo ‘500 (dai censimenti del 1517 e 1527), a cura di Anna Esposito e Maria Luisa Lombardo, “Archivi e cultura”, 39 (2006, sed 2008), pp. 83-98: a p. 93 la citazione.

[50]          Si vedano al riguardo i preziosi indici elaborati da Egmont Lee a corredo del suo lavoro d’editore dei censimenti.

[51]          E. Lee, Habitatores in Urbe, cit., rispettivamente p. 101 nr. 2024, e p. 79 nr. 1027.

[52]          Pietro Aretino, Sei giornate, a cura di Giovanni Aquilecchia, Roma-Bari, Laterza, 1969, p. 120.

[53]          Anna Esposito, La parrocchia agostiniana di S. Trifone nella Roma di Leone X, “Melanges de l’Ecole francaise de Rome, Moyen Âge – Temps modernes”, 93, 2 (1981), 2, pp. 495-523.

[54]          F. Delicado, Ritratto della Lozana, cit., p. 70.

[55]          Di questo avviso è anche E. S. Cohen, Camilla la Magra, cit., p. 177.

[56]          R. Mendoza, Il peccato e il tributo, cit. Le cortigiane vennero tassate per un giulio per scudo di pigione pagata. L’approssimazione sul numero delle prostitute, “circa 437”, è dato dal fatto che il rilevatore registra spesso la titolare di una casa e le sue figlie in modo generico (ad esempio “Inzabella spagnolla e lle figlie”). Il Mendoza in questi casi ne ha computato due “e quindi 3 sono state le cortigiane calcolate come dimoranti nella casa” (p. 81).

[57]          R. Mendoza, Il peccato e il tributo, cit., p. 82.

[58]          T. Storey, Carnal commerce, cit., p. 252.

[59]          M. Kurzel Runtscheiner, Töchter der Venus, cit.

[60]          Umberto Gnoli, Topografia e toponomastica di Roma medioevale e moderna, Roma, Staderini, 1939, p. 42.

[61]          Ibid., pp. 194-195.

[62]          E.S. Cohen, Camilla la Magra, cit., p. 179.

[63]          Archivio di Stato di Roma (d’ora in poi ASR), CNC 1181, c. 262r.  Di queste 16 casette, sei erano poste “in dicto postribulo iusta arcum triumphale”, due erano “site in medio dicti postribuli” vicino all’arco vecchio, delle quali una era “detecta et discoperta”; le altre otto domuncule “coperte et discrete” erano pure poste nel detto postribolo “in strata publica versus archum”. Un cenno a case possedute dal figlio di Domenico de Massimi in questo postribolo e affittate a prostitute si trova nel Census del 1517: “Una casa ultima da la porta del bordello per fondo dotato de lo figliol de maystro Dominico di Maximo a pigione ad una meretrice. Risponde in bordello. Un’altra casa del dicto apigiona un’altra meretrice”, cfr. E. Lee, Habitatores in Urbe, cit., p. 96, nrr. 1760 e 1761.

[64]          ASR, CNC 1671, c. 495v. L’atto è rogato dal notaio Giovanni Paolo Setonici nella chiesa di S. Salvatore in piazza Giudea. Questo documento, pubblicato da Umberto Gnoli (Cortigiane romane, cit., p. 12), è stato poi ripreso da R. Mendoza (Il peccato e il tributo, cit., pp. 224-225, e p. 289).

[65]          Cfr. U. Gnoli, Cortigiane romane, cit.; in particolare sulle famose cortigiane Imperia e Fiammetta, cfr. Pio Pecchiai, Imperia, Lucrezia figlia di Imperia, la misteriosa Fiammetta, Padova, Cedam, 1958; per la celebre Tullia d’Aragona cfr. Julia Herston, Tullia d’Aragona, DBI, 97 (2020), https://www.treccani.it/enciclopedia/tullia-d-aragona

[66]          Rinvio ai citati lavori di E.S. Cohen, T. Storey, Kurzel-Runtscheiner, S. Mantioni, e al saggio, basato sull’insieme dei processi penali intentati contro donne dal Tribunale del Governatore di Roma tra il 1540 e il 1630, di Cristina Vasta, Donne senza padrone. Marginalità femminile e strategie di sopravvivenza a Roma tra XVI e XVII secolo, in Figure ai margini, cit., pp. 223-236.

[67]          Un’ampia trattazione di questa tematica in A. Esposito, La marginalità femminile, cit., pp. 200-208.

[68]          E. Pavan, Police des moeurs, cit., pp. 258-261; M.S. Mazzi, La mala vita, cit., p. 60.

[69]          Archivio di Stato Capitolino (d’ora in poi ASCap.), A.U., sez. I, 253, c. 64r. 1454 dicembre 11.

[70]          M.S. Mazzi, La mala vita, cit., pp. 64-65.

[71]          ASCap., A.U., sez. I, nr. 253, c. 64v, 1454 dicembre 11. Pietro Matteo era figlio di Stefano degli Albertoni, una nobile famiglia del rione Campitelli. Un altro esempio in ASR, CNC 1671, c. 473v (ex 455v), 1496 marzo 16.

[72]          ASR, CNC 1671, c. 473v (ex 455v). Sulla commistione concubina-meretrice cfr. C. Lansing, Concubines, Lovers, Prostitutes, cit., pp. 85-100.

[73]          Cfr. A. Esposito, La marginalità femminile, cit., p. 208.

[74]          E.S. Cohen, Camilla la Magra, cit., p. 180.

[75]          La definizione è di Franco Angiolini, Schiave, in Il lavoro delle donne, cit., pp. 92-115: 113.

[76]          Salvatore Bono, Schiavi. Una storia mediterranea (XVI-XIX secolo), Bologna, Il Mulino, 2016, pp. 141-145. L’uso sessuale delle schiave rientrava nelle prerogative esclusive del loro proprietario, cfr. F. Angiolini, Schiave, cit., p. 109. Per gli abusi sulle schiave da parte di estranei alla famiglia cfr. Orlando, Migrazioni mediterranee, cit., pp. 125-129.

[77]          Anna Esposito, Schiavi a Roma tra ‘400 e ‘500: prime indagini nei registri notarili, “Dimensioni e problemi della ricerca storica”, 2013/2, pp. 13-24.

[78]    M.G. Muzzarelli, Guardaroba medievale. Vesti e società dal XIII al XVI secolo, Bologna, il Mulino, 1999, p. 296.

[79]    Cfr. Anna Esposito, Donne e fama tra normativa statutaria e realtà sociale, in Fama e publica vox nel Medioevo, Atti del convegno di studio svoltosi in occasione della XXI edizione del Premio internazionale Ascoli Piceno, Ascoli Piceno 3-5 dicembre 2009, a cura di Isa Lori Sanfilippo e Antonio Rigon, Roma, ISIME, 2011, pp. 87-102; Ead., La fama delle donne (Roma e Lazio, secc. XV-XVI), in Donne del Rinascimento a Roma e dintorni, a cura di Ead., Roma, Roma nel Rinascimento, 2013, pp. 1-20; Ead., La marginalità femminile a Roma nel ’400: serve, schiave, concubine, in Figure ai margini, cit., pp. 193-221: 210.