Mobilità femminile e prostituzione tra Otto e Novecento

[1]Nel settembre del 1913 una ragazza minorenne proveniente da un piccolo centro oggi inglobato nella cinta metropolitana di Torino, emigrava con il consenso del padre verso l’Argentina. Pierina, 18 anni, partì con Margherita M., una quarantenne da molti anni conosciuta in famiglia che aveva asserito di essere proprietaria di una rivendita di generi alimentari a Buenos Aires e di poter prendere la ragazza con sé come commessa[2].

Dopo pochi mesi, a gennaio, Pierina scriveva al padre per chiedergli aiuto e soprattutto che la facesse rimpatriare in Italia: Margherita M. non l’aveva condotta a Buenos Aires ma a Montevideo, in una casa di tolleranza, dalla quale lei era riuscita ad allontanarsi solo con l’aiuto della polizia che l’aveva poi fatta ricoverare presso l’istituto del Buon Pastore. Di tutto ciò, ad aprile 1914, la prefettura di Torino informava la Direzione generale di Pubblica sicurezza presso il ministero dell’Interno, rubricandolo come un esemplare caso di “tratta delle bianche” e chiedendo che si provvedesse velocemente a coinvolgere il ministero degli Affari esteri per il rimpatrio e le indagini sulla malfattrice.

Sono gli anni, questi, in cui in gran parte dell’Europa l’allarme per il destino di prostituzione, spesso all’estero, al quale sarebbero state condannate schiere di giovani donne ingenue e sprovvedute era oramai già altissimo. La “tratta delle bianche”, nome dato a questa emergenza, mobilitava organizzazioni e associazioni, stampa, cinema, governi, polizie.

L’anno successivo alla lettera di Pierina, ciononostante, trascorse lentamente, puntellato da richieste di adempimenti burocratici ai genitori, interlocuzioni tra il Commissariato dell’Emigrazione, il console italiano a Montevideo e il ministero dell’Interno. Infine, a marzo 1915, proprio nel momento in cui si aspettava solo la deliberazione del consiglio dei minori per il rimpatrio, si presentò alla legazione italiana a Montevideo un tale Luigi F., architetto abitante in città, accompagnato per fargli le referenze da padre Stefano, superiore dei Cappuccini e “persona benefica, qui assai favorevolmente nota”[3]. L’architetto F. dichiarò che la ragazza si trovava in casa sua in qualità di domestica e che aveva appena confessato di essere al quinto mese di gravidanza, impossibilitata quindi a sostenere le fatiche del viaggio in mare. L’uomo, inoltre, rassicurava le autorità che nonostante il suo stato Pierina non sarebbe stata licenziata e che la ragazza, visti i salari elevati, preferiva a quel punto rimanere a Montevideo, impegnandosi piuttosto a mandare una quota dei suoi guadagni al padre ogni mese. Lo stesso architetto, anzi, “si promise di insistere presso la Pierina, affinché, già sin d’ora, essa mandi al padre un adeguato sussidio”[4] Non sappiamo molto della vita di Pierina nei mesi a seguire, né se abbia portato a termine la gravidanza. Ciò che i documenti lasciano trapelare è solo che a fine ottobre 1916 l’architetto F. informava la legazione italiana a Montevideo che appena raggiunta la maggiore età la giovane si era allontanata dalla sua custodia e abitazione e che, finalmente, a marzo 1917, in piena guerra, era salpata con un piroscafo che l’avrebbe condotta a Genova.

Nello stesso lasso di tempo intercorso tra la i due viaggi di Pierina, quello di andata verso l’Argentina e quello di ritorno in Italia, si sono svolte anche le vicende di un’altra donna, Caterina P.[5] alla quale vorrei ora prestare attenzione prima di fare qualche considerazione.

Le prime notizie di polizia che la riguardano sono datate 23 giugno 1914 e provengono da Milano. Durante una retata in una casa di prostituzione clandestina gli agenti di pubblica sicurezza sorprendevano anche una donna di circa trent’anni che, priva di documenti che accertassero la sua identità, riferiva di chiamarsi Clara Richand, di non sapere la propria data di nascita né dove vivesse la propria famiglia, ma di essere nata a Marsiglia e di nazionalità francese. Agli agenti, che raccolsero in un verbale l’interrogatorio, raccontò anche di essersi data da sette anni “a vita immorale ed errabonda”, di essersi spostata in Francia tra varie città per esercitare la prostituzione e di essere arrivata in Italia per la prima volta solo venti giorni prima, recandosi prima a Genova e poi a Milano, con lo stesso scopo e di sua spontanea volontà[6]. Tradotta nelle carceri locali, la donna chiedeva di essere rimpatriata in Francia attraverso il confine di Chiasso e con l’assenso del prefetto veniva effettivamente munita di foglio di via e accompagnata al confine il 30 giugno.

Meno di quindici giorni dopo, tuttavia, Clara veniva nuovamente arrestata nel mezzo di un’operazione di polizia intesa a sgominare “una compagnia di prostitute francesi che, coi loro souteneurs, sono calati da qualche tempo a Milano dove le donne vivono di prostituzione e di furti commessi ai danni dei loro momentanei amatori i quali per prudenza non credono di farne denuncia, mentre i detti souteneurs, si dice, vivono di borseggi”[7]. Invece del consueto rimpatrio con traduzione al confine, questa volta la prefettura chiedeva che nei confronti della donna venisse emanato un ordine di espulsione dal Regno. In attesa dell’esecuzione della misura Clara veniva condotta in carcere e qui si trovava ancora il 31 luglio, quando il suo avvocato faceva istanza alla Direzione generale di pubblica sicurezza per la sua scarcerazione immediata, sia perché la donna non era imputata di alcun reato ma era stata fermata per misure di pubblica sicurezza, sia perché versava in condizioni di salute precarie avendo subito un aborto in carcere.

Il 2 agosto, quindi, era eseguito il decreto di espulsione, via confine con Modane, e consegnata alle autorità francesi.

 

Per circa due anni le fonti tacciono riguardo le vicende di Clara. La intercettiamo di nuovo nell’estate del 1916 quando si imbarcò da Marsiglia a Tunisi e qui, dichiarandosi cittadina francese ma sotto il nome di Caterina P., si fece rilasciare dal consolato francese il passaporto per recarsi a Tripoli. Nella città, allora sotto il dominio coloniale italiano, Caterina fece domanda di iscrizione in una casa di tolleranza autorizzata. Tuttavia, “essendo sorto dubbio sulla di lei identità personale, fu fatta fotografare e segnalare, e il relativo cartellino inviato alla Direzione della scuola di polizia scientifica”[8]. Dal raffronto emerse che Caterina P. era la stessa donna fermata ripetutamente a Milano nel 1914 e poi espulsa dal Regno. Ulteriori accertamenti attestarono che la donna in effetti si chiamava Caterina P. ed era cittadina italiana, provenendo dai dintorni di Ventimiglia dove la famiglia di origine ancora viveva. Dal momento che la prostituzione, informava il governo della Tripolitania, era in quel momento interdetta alle italiane per questioni riguardanti la reputazione nazionale, Caterina venne colpita nuovamente da un decreto di espulsione e diretta a Ventimiglia, misura con la quale si chiudono le vicende a noi note della donna.

Le storie di Pierina e Caterina si sono svolte negli stessi anni e parlano entrambe di due donne emigranti che hanno incontrato il mondo della prostituzione. Allo stesso tempo sono storie molto diverse: hanno differenti età e differenti sono le traiettorie compiute e gli spazi attraversati; diverso sembra il grado di consapevolezza con il quale hanno affrontato il mondo della prostituzione e le sue regole; diverse sono le questioni che le loro vicende sollevano. Proprio per questo possono guidarci efficacemente nella discussione dell’intreccio tra prostituzione e migrazioni tra Otto e Novecento a partire dalla prospettiva italiana, anticipandone il carattere complesso.

I decenni in questione occupano una posizione di rilievo tanto per la storia delle migrazioni quanto per quella della prostituzione. Sono gli anni dell’emigrazione di massa dall’Europa verso le Americhe, di flussi che attraversano in molteplici direzioni i confini europei, dello sviluppo della mobilità attraverso il Mediterraneo coloniale, delle migrazioni interne dalle aree rurali a quelle urbane. Movimenti e traiettorie che la storiografia ha ormai insegnato a leggere non come fenomeni separati e diversi, ma come esperienze migratorie che spesso travasavano l’una nell’altra nel perimetro di una stessa biografia. La fine dell’Ottocento segna anche il trionfo del sistema della regolamentazione, della nascita quindi di un capillare circuito di case di prostituzione variamente autorizzate in molti paesi del mondo. Regime che in Italia, sviluppatosi all’indomani dell’Unità, prese forma in modo particolarmente intensivo e duraturo, rimanendo in vigore fino al 1958 quando ormai era stato per lo più abolito negli altri paesi. In parte la regolamentazione, in parte i fenomeni di inurbamento e lo sviluppo di nuovi e più dinamici centri e snodi commerciali, diedero luogo nello stesso periodo ad una allarmante crescita del mercato del sesso, questione che come ho accennato mobilitò fortemente opinione pubblica, società civile, autorità.

Negli ultimi anni la storiografia si è interrogata con ritmo crescente sulle intersezioni tra i due fenomeni e su come le loro storie si sono vicendevolmente influenzate. Studi importanti, come quello di Liat Kozma, Global women, colonial ports[9], hanno guardato alla prostituzione delle donne europee nei porti coloniali tra le due guerre mondiali, portando alla luce nuove esperienze di mobilità femminile attivate dal sistema della regolamentazione esportato in Nord Africa e Medio Oriente da Francia e Inghilterra. Una vera e propria antologia di studi dedicati alla storia della prostituzione globale, Selling sex in the city[10], ha dal canto suo evidenziato quanto la prostituzione femminile nelle città di età moderna e contemporanea sia stata soprattutto un affare da immigrate, che in forma occasionale e poi progressivamente più rigida con l’incedere del controllo statuale sul meretricio, hanno trovato in questo una delle poche attività femminili valorizzate. Negli Stati Uniti il tema è stato declinato interrogando l’equazione tra crescita della prostituzione e immigrazione di massa tra Otto e Novecento, notando come in più di un’occasione le campagne antiprostituzione abbiano funzionato come cardine delle politiche antimmigratorie[11].

La centralità della penisola nella storia delle migrazioni a cavallo tra Otto e Novecento, come uno dei principali paesi di provenienza degli e delle emigranti nelle migrazioni internazionali e come teatro di intensi fenomeni di mobilità interna e, per un altro verso, il posto rilevante occupato dal paese nella storia della prostituzione per le politiche adottate in materia e le dimensioni del fenomeno, fanno dell’Italia, in questo nuovo campo di studi, un caso particolarmente significativo.

La correlazione tra aumento della mobilità e aumento della prostituzione è d’altra parte una evidenza che tanto le autorità, quanto l’opinione pubblica italiane, rilevarono esplicitamente già negli ultimi decenni dell’Ottocento, inaugurando forme di attenzione specifica alle migrazioni femminili che paradossalmente non si sono tradotte successivamente in altrettante sensibilità storiografiche. Rimaste invisibili e sottostimate nella storia delle migrazioni fino agli ultimi decenni[12], considerate per lo più una componente minoritaria dei flussi e comunque poco determinanti e incisive, le migrazioni femminili hanno invece rappresentato a partire dalla fine dell’Ottocento una ragione di preoccupazione e una priorità nell’agenda politica nazionale e internazionale. Le associazioni di protezione delle giovani, laiche e religiose, il governo e i suoi vari organi (ministeri, prefetture, uffici, direzioni), le forze di polizia, si attivarono proprio intorno alla frequente sovrapposizione per le donne dell’esperienza migratoria con quella della prostituzione. Un fenomeno, che si realizzava con tempi e modalità varie, ma egualmente ravvisabile tanto nelle migrazioni interne che in quelle internazionali. Nei primi anni del Novecento nasceva in Italia il primo Comitato contro la tratta delle bianche[13], che guardò soprattutto alla “caduta” nel mondo della prostituzione di masse di giovani immigrate dalle aree rurali ai centri urbani, raccontandone la miseria, le violenze familiari, la fragilità lavorativa, i ricoveri negli istituti; negli stessi anni la Direzione generale di Pubblica sicurezza si concentrò molto anche sulla prostituzione internazionale[14], facendosi punto di raccolta di una ricchissima documentazione (carte di polizia, inchieste internazionali, rassegne stampa, rapporti e resoconti delle varie associazioni di protezione delle giovani) che restituisce la dimensione assunta dalla prostituzione delle italiane all’estero almeno fino alla seconda guerra mondiale, quanto il tema impegnasse polizie, consolati, ministeri e, infine, le esperienze vissute dalle donne, come quelle di Pierina e Caterina.

Sono partita dalle loro storie non casualmente, ma perché ognuna di esse esemplifica elementi ricorrenti e questioni significative.

Pierina si dirige verso le Americhe, con la promessa di un lavoro rispettabile e facendosi strumento, evidentemente, di un progetto familiare e finisce in una casa di tolleranza con l’inganno; nei mesi successivi incrocia il ricovero in un tipico istituto destinato alla protezione, correzione e redenzione delle donne; una gravidanza illegittima; il lavoro domestico; l’obbligo di garantire con i suoi guadagni un sussidio mensile alla famiglia.

Caterina dal canto suo si muove tra le realtà urbane della penisola e verso i centri coloniali del Mediterraneo (Tunisi e Tripoli), attratta dalle opportunità offerte dal circuito delle case di tolleranza regolari lì allestite per lo più dagli europei. Era già una prostituta con una certa esperienza quando la intercettiamo attraverso le carte di polizia e sembra lei l’artefice dei suoi spostamenti. Usa stratagemmi e documenti falsi per muoversi tra le case di tolleranza di più paesi e aggirare regole e sanzioni. Cresciuta al confine, si finge francese a Milano per evitare il rimpatrio in famiglia ed eventualmente essere sanzionata solo con il foglio di via. Di nuovo, si fa passare per francese, straniera, a Tripoli per potersi iscrivere regolarmente in una casa di tolleranza, allora e fino al 1923 chiuse all’impiego delle italiane da un governo preoccupato di incrinare in colonia l’immagine della superiorità morale, oltre che militare, della madrepatria. Anche Caterina incrocia una gravidanza illegittima, finita con un aborto in carcere.

Di entrambe si occupano ripetutamente e per anni le autorità, mosse da preoccupazioni diverse nei due casi ma egualmente forti.

Pierina è un tipico esempio delle tante donne italiane, giovani e non solo, partite verso gli altri paesi europei e le Americhe, ma anche dalle campagne alle città, per le quali l’esperienza dell’emigrazione si tramuta in una storia di prostituzione. La solitudine, l’inesperienza, l’assottigliamento dei legami e delle protezioni comunitarie, la mancanza di reti nei posti di arrivo, la perdita del lavoro, la miseria, l’inganno, la subordinazione familiare, le relazioni violente, sono alcuni dei fattori che innescano e concorrono all’apertura delle porte di un postribolo davanti a queste emigranti. Pierina è vittima di un inganno, dispositivo che viene evocato così insistentemente dalle autorità, dalla stampa, dal cinema della prima metà del Novecento per spiegare il dilagare della prostituzione tra le italiane “lontane da casa”, da lavorare efficacemente come schermatura. L’immagine della megera o dell’oscuro trafficante che rapiscono giovani innocenti per venderle o impiegarle come schiave del sesso, ampiamente sponsorizzata nella cinematografia e nelle cronache[15], da una parte è l’elaborazione culturale dell’impatto della società con i nuovi soggetti  che in quegli anni spadroneggiano sulla scena di un mercato in vorticosa espansione: gli uomini e le donne che guadagnano reclutando, procacciando, accompagnando e fornendo donne ai postriboli legali e clandestini di mezzo mondo[16]. Dall’altra parte, evoca figure utili a mettere in ombra gli elementi di ordine sociale che spingevano le emigranti verso la prostituzione, quali per esempio la diseguaglianza e violenza di genere in famiglia, testimoniata dall’alto numero di donne costrette alla prostituzione da padri, mariti, fratelli; la minore tutela, le paghe inferiori e insufficienti del lavoro femminile; la convinzione maschile di poter disporre della sessualità femminile o il peso che il codice dell’onore, soprattutto di quello perduto, assumeva nelle vite delle donne. Sono questi i percorsi accidentati che emergono dai verbali di interrogatorio delle prostitute raccolti quando facevano domanda di iscrizione in una casa di tolleranza o erano fermate per misure di P.S.[17], dai rapporti annuali inviati dalle prefetture al ministero dell’Interno per rendicontare le attività svolte per reprimere la tratta delle bianche negli anni Trenta[18], ma anche dai report dei viaggi di inchiesta sulla condizioni delle emigranti all’estero, come quello condotto nel 1910 in Germania da Giuseppina Scanni per la sezione italiana dell’Associazione cattolica internazionale per la protezione della giovane[19]. Le storie delle emigranti che finiscono nel mercato della prostituzione restituite da queste fonti raccontano di neospose condotte dai mariti all’estero e qui costrette a prostituirsi con la violenza; di giovani domestiche arrivate in città e sottoposte alle voglie dei padroni, disonorate e messe alla porta; di lavoratrici precarie e malpagate, fioriste, ambulanti, gelataie, operaie, che non riescono a sopravvivere nei luoghi di arrivo con le paghe riservate alle donne e che non possono tornare in patria. Per loro l’arruolamento in una casa di tolleranza, autorizzata o clandestina, da quale poi sarà quasi impossibile affrancarsi, è frutto del concorso di più elementi: l’emigrazione, ma anche le relazioni di potere, sociali e familiari, di genere, all’interno delle quali vivono.

Per un altro verso, dalle fonti emerge un secondo insieme di esperienze femminili, esemplificato dalle vicende di Caterina, nelle quali prostituzione e migrazione si sono combinate diversamente, laddove in questi casi la prostituzione sembra funzionare come il motore della mobilità piuttosto che esserne una conseguenza. Uno dei perni intorno a cui queste vicende si muovono, per il caso italiano documentate soprattutto in relazione alle donne che si recavano nelle colonie del Mediterraneo, è il sistema della regolamentazione della prostituzione. Erano le case di tolleranza autorizzate aperte dagli e dalle europee a Malta, Tripoli, Creta, Alessandria d’Egitto, Il Cairo, Tunisi, Costantinopoli, Porto Said, Bengasi, Beirut, che attiravano le prostitute italiane con la promessa di migliori guadagni, inserendole poi in circuito molto ampio, che arrivava anche a Bombay. Si trattava di un circuito perfettamente integrato con quello esistente già nella penisola: ad aprire questi postriboli erano spesso tenutarie che già gestivano case di tolleranza a Napoli, Roma, Milano e che facevano, o facevano fare a loro incaricati, la spola tra le une e le altre per spostare donne e guadagni. Una delle regole non scritte, ma assolutamente rispettata delle case di tolleranza era infatti quella di rinnovare ogni 15 giorni le prostitute in servizio e questo innescava percorsi di mobilità estremamente complessi e lunghi che riguardavano le meretrici, ma anche le “terze parti” (accompagnatori, faccendieri, reclutatori) e le tenutarie. Quello della prostituzione in colonia era un mercato a cui le prostitute italiane guardavano con grande interesse: la sproporzione tra domanda e offerta, tra numero di uomini (soldati, funzionari, marinai, operai) e prostitute europee a disposizione sarà costante per tutta la prima metà del Novecento, rendendo la prostituzione in questi luoghi un affare lucroso, al punto da spingere non poche donne e famiglie a procurarsi identità false per aggirare i limiti imposti all’esercizio del mestiere. Le corrispondenze consolari e le inchieste di polizia abbondano di riferimenti a padri che fornivano documenti falsi alle figlie minorenni per poi condurle fino alle porte del postribolo in colonia o di donne italiane che si fingevano di altra nazionalità, come Caterina, per superare l’embargo alla prostituzione italiana in Libia esistente fino al 1923. In quella data, infatti, anche questa restrizione cadde sotto i colpi di una domanda incessante di prostitute che continuava a rimane insoddisfatta, nonostante in tutti i paesi europei fosse ormai noto che in Tripolitania si cercassero donne europee e che anche la prostituzione delle indigene, compresa quella delle bambine, fosse ampiamente sfruttata dagli italiani[20]. La prostituzione nei paesi coloniali solleva questioni importanti che la storiografia sta esplorando solo da pochi decenni e che rimandano alla centralità che le politiche razziali delle relazioni sessuali hanno rivestito nella costruzione stessa della società coloniale[21]. In questa occasione, tuttavia, vorrei limitarmi a richiamare un elemento in particolare. Nonostante le politiche in materia di relazioni sessuali nelle colonie europee siano variate nel tempo e anche a seconda dei contesti e dei modelli di dominio adottati, ondeggiando dal divieto perentorio delle relazioni interrazziali al permissivismo verso la costruzione di legami “misti”, intesi in alcune occasioni come uno strumento efficacie di penetrazione, la presenza di prostitute europee e la promozione del principio della concordanza etnica, soprattutto tra alcune categorie superiori di clienti e le prostitute,  sarebbe stato individuato dalla storiografia[22] come un importante stimolo all’impennata di mobilità internazionale delle prostitute dalla fine dell’Ottocento alla seconda guerra mondiale. Accanto, quindi alle leggi del mercato, e non slegate da esse, anche il principio della concordanza etnica avrebbe agito come motore della mobilità delle prostitute, in modo forzato o volontario, non solo verso le colonie, ma anche in direzione delle altre mete delle migrazioni internazionali dove ugualmente a formarsi erano comunità omogenee, dal punto di vista della provenienza, di immigrati.

L’insieme delle riflessioni fino qui abbozzate e che lievitano interrogando l’intreccio tra prostituzione e migrazioni tra Otto e Novecento, anche a partire dalle storie delle donne che ne sono state coinvolte, credo testimonino quanto questo nuovo campo di indagine sia promettente. Non solo esso contribuisce allo studio delle migrazioni femminili, delle società coloniali, del lavoro, delle diseguaglianze di genere, ma si presenta anche come un’utile occasione di riflessione sulla pratica storiografica. Nonostante l’evidenza che il tema ha avuto nel dibattito politico e nella società del tempo, esso è stato a lungo ignorato. Sarebbe utile chiedersi quanto abbia influito in questo senso la considerazione, o forse il disagio, che anche gli storici e le storiche nutrono verso il tema della prostituzione, faticando a considerarla un fenomeno storico sociale rilevante e non una questione morale.


[1]           Per un approfondimento dei temi trattati in questo contributo e qui solo accennati per ragioni di spazio, come la campagna contro la “tratta delle bianche”, le politiche internazionali indirizzate alla prostituzione e alla tratta, la prostituzione europea nelle colonie, mi permetto di rimandare a Laura Schettini, Turpi traffici. Prostituzione e migrazioni globali (1890-1940), Roma, Biblink, 2019.

[2]           Le notizie riguardanti le vicende di Pierina sono rintracciabili nei documenti presenti in Archivio centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione generale Pubblica sicurezza, Divisione Polizia Giudiziaria, 1916-18, 10900.21, J-Z. Fasc. Pierina S. (per ragioni deontologiche relative al rispetto della privacy, non riporterò nel testo i cognomi delle persone coinvolte nelle vicende trattate).

[3]           Commissariato dell’Emigrazione a ministero dell’Interno, 18 marzo 1915, in ACS, MI, DGPS, DPG, 1916-18, 10900.21, J-Z. Fasc. Pierina S.

[4]           Ibidem.

[5]           ACS, MI, DGPS, DPG, 1916-18, 10900.21, J-Z. Fasc. Clara R.

[6]           Prefettura di Milano a ministero dell’Interno, 24 giugno 1914, ivi.

[7]           Prefettura di Milano a ministero dell’Interno, 13 luglio 1914, ivi.

[8]           Nota al ministero dell’Interno [mittente illeggibile, presumibilmente ministero Affari esteri], 21 marzo 1917, ivi.

[9]           Liat Kozma, Global Women, Colonial Ports. Prostitution in the Interwar Middle East, New York, Suny Press, 2017.

[10]          Selling sex in the city: a global history of prostitution, 1600s-2000s, edited by Magaly Rodriguez Garcia, Lex Heerma van Voss, Elise van Nederveen Meerkerk, Leiden – Boston, Brill, 2017.

[11]          Francesco Cordasco (con Thomas Monroe Pitkin), The white slave trade and the immigrants: a chapter in American social history, Detroit, Blaine Ethridge Books, 1981; Jessica Pliley, Policing Sexuality. The Mann Act and the Making of the FBI, Cambridge, MA, Harvard University Press, 2014. Diverse note e riferimenti bibliografici sull’uso del contrasto alla prostituzione e al traffico delle donne come mezzo per controllare la mobilità sono anche in Elisa Camiscioli, Trafficking Histories: Women’s Migration and Sexual Labor in the Early Twentieth Century, “DEP”, 40 (2019), scaricabile dal sito della rivista https://www.unive.it/pag/37700/.

[12]          Per approfondire, tra gli altri, Maddalena Tirabassi, Trent’anni di studi sulle migrazioni di genere in Italia. Un bilancio storiografico, in Lontane da casa. Donne italiane e diaspora globale dall’inizio del Novecento a oggi, a cura di Stefano Luconi e Mario Varricchio, Torino, Academia University Press, 2015, pp. 19-39; Alessandra Gissi, Donne e migrazioni, in Storia delle donne nell’Italia contemporanea, a cura di Silvia Salvatici, Roma, Carocci, 2022, pp. 237-257.

[13]          L’archivio del Comitato è conservato a Milano, presso l’archivio storico dell’Unione femminile. Cfr. Laura Schettini, Il Comitato italiano contro la tratta: impegno locale e reti internazionali, in Attraversando il tempo. Centoventi anni dell’Unione femminile nazionale (1899-2019), a cura di Stefania Bartoloni, Roma, Viella, 2019, pp. 37-60.

[14]          La documentazione relativa si trova a Roma, presso l’Archivio centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione generale di Pubblica sicurezza, fondo Interpol, Tratta delle bianche.

[15]          Per una ricostruzione del filone “white slaves films” che si impose negli Stati Uniti e in Europa a partire dagli anni Dieci del Novecento si veda Lee Grieveson, Policing Cinema: Movies and Censorship in Early-Twentieth-Century America, Berkeley – Los Angeles, University of California Press, 2004, cap. 5. In Italia, esemplare il film La tratta delle bianche, di Luigi Comencini, 1952, dove ancora sono presenti tutti i topoi della campagna contro la tratta delle bianche.

[16]          Utili spunti in Julia Laite, Traffickers and Pimps in the Era of White Slavery, “Past and Present”, 237 (2017), pp. 238-269.

[17]          Circa mille fascicoletti personali, per lo più consistenti nel verbale di interrogatorio, si trovano in ACS, MI, DGPS, DPG, categoria 10900.21, anni 1910-12; 1913-15; 1916-18.

[18]          ACS, MI, DGPS, Interpol, b. 6, fasc. 40.

[19]          Relazione del viaggio d’inchiesta fatto dalla Sig.na Giuseppina Scanni incaricata dal Comitato nazionale italiano dell’Associazione cattolica internazionale per la protezione della giovane, 1910, in ACS, MI, DGPS, Interpol, b. 3.

[20]          Cfr. Luigi Salerno, La polizia dei costumi a Tripoli, Lugo, Editore Trisi, 1922.

[21]          Un testo fondamentale in relazione a questi temi è Ann Laura Stoler, Carnal knowledge and imperial power: race and the intimate in colonial rule, Berkeley, University of California Press, 2002.

[22]          Si veda tra gli altri Stephanie A. Limoncelli, The Politics of Trafficking. The First International Movement to Combat the Sexual Exploitation of Women, Stanford, Stanford University Press, 2010.