Uno sguardo al fenomeno della tratta

  1. Il lato oscuro della
    globalizzazione

Il tema di cui si parla in queste pagine è stato considerato fin dagli anni 90 del secolo scorso alla stregua di una cause célèbre, ovvero di un problema capace di suscitare accesi dibattiti pubblici e polemiche estese: e tuttavia, ancora fino al decennio scorso, non sembrava esservi contezza puntuale dell’ampiezza del fenomeno, e mancavano dati attendibili – o riconosciuti come tali – intorno al suo perimetro ed alle dimensioni di riferimento[1]. Oggi si dispone a livello globale di informazioni ed analisi articolate, che, seppur lontane dalla possibilità di una restituzione completa e definitiva dei profili della questione, impressionano per consistenza e caratteristiche dei crimini in esame.

Si valuta che la tratta di esseri umani a fini di sfruttamento degli stessi in prestazioni servili interessi ormai in tutto il mondo più di 40 milioni di persone: nell’ultima decade si registrano soprattutto nei continenti asiatico ed americano picchi nell’identificazione delle vittime, il cui numero complessivo potrebbe aggirarsi su 600-800mila unità per anno. Il volume di affari corrispondente mostra proporzioni sconcertanti, se si tiene fede a stime secondo cui il solo segmento riferito al lavoro forzato produrrebbe su base annuale guadagni netti illegali superiori a 150 miliardi di dollari. Si aggiunga che a livello mondiale, essendo superato esclusivamente dal mercato delle droghe, il sex trafficking viene ritenuto il crimine transnazionale più redditizio: si calcolano profitti pari a 23,5 miliardi nella sola Europa, la quale intercetta flussi di vittime tanto da aree extra-continentali (specie Nigeria, Cina, Vietnam, Marocco) quanto da Stati Membri UE (Romania e Bulgaria su tutti). Oltre che da una domanda che non conosce flessioni, la persistenza del fenomeno viene consentita dal fatto che, quanto a mezzi finanziari richiesti, non si rilevano per l’intrapresa criminale barriere all’ingresso particolarmente difficoltose, e che i profitti restano ad alimentare investimenti in circuiti illegali paralleli, quali ad esempio strozzinaggio, gioco d’azzardo e scommesse[2].

In una recente rassegna editata da Banca Mondiale la struttura organizzativa del mercato che si genera intorno a questi odiosi reati viene caratterizzata appunto come un’industria in cui venditori che possono avere diversi posizionamenti (dal singolo trafficante a gruppi organizzati) offrono a numerosi acquirenti prodotti differenziati (“vulnerable individuals”) sulla scorta delle preferenze del compratore[3]. Malgrado nel tempo si siano messi in campo vari strumenti ed iniziative finalizzate alla prevenzione ed al contrasto, nella valutazione di molti osservatori rimane preponderante l’idea di un mercato che per gli investitori che operano lungo la catena criminale implica rischi relativamente bassi ed alte prospettive di profitti.

Anche per tali motivi si reputa che attualmente non vi siano in ambito internazionale aree geografiche del tutto immuni dal fenomeno[4], tenendo congiuntamente da conto regioni di origine dei soggetti trafficati e di destinazione dei flussi illegali. Nella determinazione di questi processi incidono sia push factors ‒ classicamente miseria e deprivazione dei contesti di provenienza ‒ che pull factors, come l’attrazione esercitata da territori a cui si ascrive la possibilità di più floride opportunità sociali ed economiche. In maniera analoga a quanto può riferirsi all’analisi dei tratti della cosiddetta migrazione economica, trascurare questi elementi e prescindere dalle disuguaglianze strutturali che condizionano la mobilità dei soggetti più svantaggiati non aiuta affatto nella comprensione del fenomeno e tanto meno nel fronteggiamento delle sue ricadute più repellenti. La mera focalizzazione sui profili delle vittime e l’individualizzazione del discorso sulla tratta non dovrebbero scontare il rischio di una sorta di omissione ed anzi di de-politicizzazione che deriva dalla mancata o insufficiente messa in evidenza di ciò che sta alle radici della marginalizzazione delle persone/dei gruppi più esposti al rischio di sottomissione a posizioni servili[5].

Le forme assunte dallo sfruttamento ‒ indotto ordinariamente tramite frode, coercizione o violenza ‒ possono essere molteplici: tra queste, prostituzione, lavoro coatto, accattonaggio, matrimoni precoci e/o forzosamente imposti, vendita e coscrizione di minori, espianto di organi[6].Viene in evidenza qui una serie di gravi violazioni della dignità delle persone, ridotte in schiavitù secondo le interpretazioni più estreme, o più semplicemente asservite ed abusate per effetto di un processo di commodification che non risparmia i diritti umani più elementari[7] e che mira al mantenimento duraturo dello stato di minorità delle vittime.

Dati appena diffusi da IOM[8] riferiscono che, a dispetto di quanto comunemente ritenuto, nelle situazioni di tratta conclamate a livello globale il profilo di sfruttamento sessuale non sarebbe in atto motivo predominante, poiché risulterebbe secondo rispetto al lavoro forzato, particolarmente rilevante per Africa e Medio Oriente, e concentrato soprattutto negli ambiti dei servizi domestici, dell’edilizia e dell’agricoltura. Tra le vittime effettivamente identificate le donne restano la maggioranza, ma la composizione per genere e per età varia significativamente nei diversi aggregati geografici: si conferma in ogni caso l’idea di un fenomeno che sotto il segno della mercificazione delle persone interconnette (e complessivamente non risparmia) alcun contesto abitato del pianeta. Davvero la tratta finisce per rappresentare, come è stato notato, “the darker side of globalization”[9].

  1. Vittime e trafficanti

Sulla percezione generale del fenomeno gravano diversi travisamenti o rappresentazioni eccessivamente semplificate, che in verità possono essere rischiarati alla luce di una ricognizione della copiosa letteratura scientifica internazionale sedimentatasi negli ultimi anni. Di seguito si richiamano sinteticamente alcune evidenze utili a suggerire chiavi di lettura e piste di riflessione ancora poco considerate.

Lo stereotipo dominante assegna a donne e minori avviati nei mercati del sesso la posizione centrale tra le persone oggetto di tratta, ma ciò sembra doversi connettere ad una sottovalutazione di quanto concerne lo sfruttamento lavorativo e più precisamente ad una sorta di “systematic under-reporting” dei dati corrispondenti, oggi fermi soprattutto a livello di indagini esplorative, di scarsa robustezza ed affidabilità sotto il profilo quantitativo: di qui il richiamo ad incrementare la qualità dei data-sets e le occasioni di ricerca sul punto[10]. Di enorme interesse risultano altresì le analisi, tuttora poco diffuse, che chiariscono i profili di maggior vulnerabilità e le condizioni di rischio di esposizione allo sfruttamento derivanti dall’accumulazione di diversi fattori: insicurezza economica, disagio abitativo e deficit educativo su tutti. Intervenire su tali dimensioni adottando un focus preventivo può contribuire a ridimensionare le chains-of-risk su cui si innestano repertori di traumi, violenze ed elementi coercitivi[11].

In realtà, secondo taluni analisti dei movimenti della tratta una traccia di instabilità e mancanza di sicurezza (“a subtext of desperation”), dovuta a contesti deprivati, sembra aver costituito nei Paesi di origine un elemento comune a vittime e trafficanti tale da instaurare una sorta di relazione di mutua dipendenza, specie nei casi di sfruttamento lavorativo. La rappresentazione del fenomeno richiede di essere complicata più di quanto non rilevino le narrazioni dominanti. Malgrado contrasti con l’immagine-standard della vittima ideale, prona ad ogni abuso e completamente disarmata di fronte a sopraffazioni e maltrattamenti,[12] pur senza negare la brutalità delle relazioni studi recenti attestano che diversi soggetti vengono coinvolti in situazioni di sfruttamento in modi non del tutto inconsapevoli e che in certe situazioni i trafficanti andrebbero anch’essi inseriti nella lista degli oppressi, poiché per gli uni e per gli altri l’inserimento nei circuiti dell’illegalità deriverebbe da scelte inevitabili[13].

Non tutte le vittime si considerano davvero tali, specie nel confronto con la situazione lasciata alle spalle nei territori di provenienza, ma soprattutto non è possibile negare radicalmente ad ogni vittima alcuna dimensione di agency: in presenza di circostanze estreme (e soprattutto di alternative insostenibili) la disponibilità alla prestazione servile può risultare da qualche intenzionalità e non solo da totale passività. La contiguità con il trafficante[14], che sovente appartiene a cerchie familiari o comunitarie percepite come affidabili, rende ancora più complicato tracciare demarcazioni nette. Nel caso del sex trafficking poi, il percorso si genera di frequente a partire da una relazione sentimentale che nasconde la manipolazione emotiva ai danni della futura vittima[15], ma che in ogni caso implica qualche motivo di opacità nello scivolamento progressivo verso l’effettiva coartazione.

A complicare ulteriormente rappresentazioni troppo semplificate vanno aggiunti altri aspetti, tra cui il fatto che le donne che agiscono come trafficanti spesso risultano esser state anch’esse vittime di tratta in periodi precedenti; il fatto che una specie di vittimizzazione secondaria delle migranti che si prostituiscono finisce per far sì che vengano trattate alla stregua di criminali; o anche il fatto che la coscienza della pervasività dello stigma che marchia a vita donne attive nei mercati del sesso rende insopportabile il rientro e difficilissime le prospettive di reintegrazione nelle terre di provenienza[16], finendo così per costituire un’ulteriore barriera all’uscita e rinsaldare i legami tra vittime e trafficanti.

Alla luce di quanto velocemente passato in rassegna si può comprendere quanto sia opportuno ridiscutere gli stereotipi che alimentano una victim hierarchy al cui vertice si trova la persona totalmente priva di agentività, incapace di reattività di fronte al meccanismo predatorio della tratta e totalmente cedevole di fronte alle prospettive di riscatto[17]. Non si rende giustizia in primo luogo alle persone sfruttate se nel fronteggiamento della problematica si omette di usare la giusta dose di realismo e se si trascurano i molti chiaroscuri che questi contesti presentano. Di recente vi è addirittura chi in sede scientifica si è spinto ad elaborare una tassonomia assai diversificata delle persone trafficate che, combinando per così dire le posture delle vittime nella fase di ingresso e in quella della permanenza nel circuito criminale, arriva a caratterizzare differenti profili ed altrettanto articolate strategie, esemplate sul calco delle tecniche di marketing[18]. Senza giungere al parossismo di un siffatto esercizio, però, appare ragionevole quanto raccomandato da un’autorevole studiosa della materia, la quale, censurando la propensione ossessiva che riguarda numeri/concentrazioni/scale relativi al fenomeno della tratta, invita piuttosto ad approfondire le conoscenze sugli elementi di familiarità e vicinanza tra vittime e trafficanti, e a prendere sul serio i meccanismi di reclutamento a livello micro che alimentano questo mercato[19].

  1. In Italia

Oltre ad essere territorio di transito verso l’Europa centro-settentrionale, il nostro Paese per ben noti profili geografici ed economico-sociali rappresenta un crocevia importante di flussi inter ed intracontinentali di persone, la cui mobilità si configura spesso nei termini di vero e proprio traffico di esseri umani: tant’è che solo pochi anni fa, nel 2018, veniva con Olanda e Regno Unito annoverato dalla Commissione Europea tra gli Stati Membri che facevano registrare il maggior numero di vittime di tratta identificate e prese in carico.[20]

Non tutte le fattispecie di exploitation astrattamente riconducibili al commercio di esseri umani hanno assunto nel nostro Paese la medesima rilevanza[21]. Le evidenze maggiori riguardano lo sfruttamento lavorativo nel settore agricolo, che è questione diffusamente nota ed indagata anche per le sue interconnessioni con la complessa problematica del caporalato, a cui peraltro negli ultimi anni sono state indirizzati in ambito regolatorio sforzi mirati: ci si riferisce in particolare al “Piano Triennale di contrasto allo sfruttamento lavorativo in agricoltura e al caporalato 2020-2022” (tuttora vigente) la cui attuazione riposa su un sistema di governance assai articolato[22]. Al riguardo mette conto citare in questa sede la recente approvazione in Conferenza Unificata di “Linee-Guida nazionali in materia di identificazione, protezione e assistenza alle vittime di sfruttamento lavorativo in agricoltura”, indirizzate a tutti i soggetti coinvolti a vario titolo in azioni di protezione e assistenza alle vittime di sfruttamento lavorativo[23]. Tali Linee-Guida forniscono principi generali e standard comuni per la realizzazione di un Meccanismo Nazionale di Riferimento a trazione pubblica (referral), finalizzato a creare un modello di intervento per accrescere la fiducia delle vittime nelle istituzioni e spezzare le catene del lavoro iniquo e degradato dalle pratiche del caporalato e dello sfruttamento. Scopo del MNR è stabilire ruoli e responsabilità degli attori coinvolti nel sistema, definire procedure comuni per l’identificazione delle vittime e per il processo di presa in carico, identificare i servizi di protezione e assistenza per le vittime e gli standard minimi di qualità per la loro erogazione.

Partendo dalla definizione di vittima di sfruttamento lavorativo che, secondo l’attuale quadro normativo e, in particolare, sulla base degli indici individuati dalla L. n. 119/2016, individua nello stato di vulnerabilità della persona la compromissione di una libera scelta, tale da indurla ad accettare condizioni di lavoro inique a seguito di approfittamento del suo stato di bisogno da parte degli utilizzatori o intermediari, le Linee guida garantiscono che in ogni fase del processo di presa in carico sia applicato il principio di valutazione del rischio legato al genere, all’età e a particolari vulnerabilità che possono interessare le vittime. Le procedure operative standard da applicarsi su tutto il territorio nazionale sono articolate per fasi (identificazione preliminare e formale; protezione e assistenza alle vittime). Vengono altresì definiti: i soggetti e gli attori delle varie fasi; il trattamento di tutela dei cittadini stranieri vittime di sfruttamento lavorativo, privi del permesso di soggiorno, secondo la normativa vigente; le raccomandazioni in termini di informazione e sensibilizzazione, formazione e rafforzamento delle competenze dei servizi e degli attori coinvolti affinché si possa disporre di un insieme di risorse dotate di competenze specifiche, sensibilità interculturale e preparazione multidisciplinare.

Sul tema dello sfruttamento lavorativo nel settore primario qui non si aggiungerà altro[24] per concentrarsi piuttosto sul sex trafficking che, dopo la sostanziale implosione del modello albanese e l’emersione di gruppi nazionali che all’inizio del secolo apparivano ancora in via di strutturazione,[25] ha visto in particolare la diffusione estrema di casi di prostituzione di donne provenienti dalla Nigeria, ovvero da un Paese le cui istituzioni per lungo tempo hanno guardato alla tratta di donne con poca attenzione preventiva e scarsa capacità di contrasto[26].

Questo peculiare segmento rappresenta ormai un ambito di indagine consistente, per effetto delle specificità socioculturali e delle pratiche etniche che lo connotano e che definiscono le relazioni interne al circuito del traffico criminale in modalità ben documentate anche dal punto di vista delle disposizioni giudiziarie. Le vittime vengono sottoposte a cerimonie religiose di assoggettamento che trasformano il vincolo monetario del debito contratto per il viaggio in spossessamento magico e in effettiva dipendenza dalla figura della madam: nel rito detto juju le donne trafficate esperiscono simbolicamente la perdita di controllo/di proprietà sul proprio corpo, ed in forza di quella prostrazione le mediatrici/aguzzine (talora anch’essa con trascorsi di vittima) mimano una forma di accudimento che si autorappresenta come aiuto di ordine para-familiare[27].

Dentro tale groviglio, per forze dell’ordine e magistratura diventa complicato poter contare sull’effettiva volontà di denuncia e di riscatto da parte delle prostitute oppresse ma intimamente condizionate anche dopo l’intervento delle istituzioni che lottano contro questi commerci criminali. Dalla letteratura scientifica, del resto, è già stato rilevato come il soggetto maltrattato ed ‘intrappolato’ nelle catene della tratta, e per ciò stesso identificatosi con il destino che lo attraversa, risulti difficilmente in grado di sperimentare fiducia e vicinanza emotiva al di fuori di quel tragico perimetro[28].

La situazione di queste lavoratrici-schiave del sesso (resa durante la pandemia ancor più critica da isolamento ed assenza di aiuti)[29] è stata caratterizzata dalla ricerca etnografica sotto il segno di una sorta di incompiutezza protratta e di tempo indeterminato, dove la sola cosa che in modo certo permane è la caratteristica di vite-debito, esistenze costantemente in difetto[30].

  1. Misure di contrasto e piste
    di intervento

Le politiche nazionali di contrasto si sono inserite precipuamente nella cornice legislativa delineata prima dagli artt. 13 e 18 d.lgs. n.286/1999, finalizzato a garantire alle vittime programmi di assistenza e reintegrazione sociale e a definire le condizioni di rilascio di permessi di soggiorno per motivi umanitari, poi ‒ in coerenza con indirizzi internazionali (Protocollo di Palermo e Direttive comunitarie) ‒ rinforzata con la strategia di cui alla l. n.228/2003 ed al d.lgs. n.24/2014, che sanciscono la nascita di un Piano unico nazionale di lotta alla tratta e affidano il coordinamento delle politiche in materia al Dipartimento Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio. Di seguito si citano alcune evidenze sull’attuazione delle misure di contrasto e si indicano conclusivamente le questioni aperte che paiono più rilevanti.

Gli orientamenti implementati nel nostro Paese, e fin dai primordi considerati tra i più avanzati nella comparazione europea soprattutto per il rilievo dato all’obiettivo di protezione delle vittime, poggiano soprattutto sull’attivazione di circuiti territoriali virtuosi e sulla stretta cooperazione tra istituzioni locali e organizzazioni del privato sociale: proprio dal concorso di realtà specializzate del terzo settore e di servizi sociali gestiti dalle amministrazioni periferiche nascono iniziative rivolte a persone sfruttate e finalizzate a spezzare la catena dell’oppressione che le lega. I primi bilanci sui progetti sperimentali sostenuti dagli Avvisi ex lege 286 forniscono risultati incoraggianti seppure non uniformi: in taluni contesti in cui erano attivi soggetti legati a realtà religiose sono stati documentati approcci marcatamente paternalistici volti alla redenzione/riabilitazione delle ex-prostitute più che al loro empowerment, ma più in generale le riserve maggiori possono riferirsi al fatto che solo una parte minoritaria delle persone assistite consegue una reale autonomia nei tempi previsti, e che quindi la prolungata dipendenza delle vittime dal programma rappresenti un serio limite all’efficacia dello stesso[31]. Studi più recenti, che insistono su iniziative co-finanziate da risorse comunitarie a partnership che prevedono analoga combinazione di enti locali e mondo associativo, hanno evidenziato altrettante criticità relativamente al concreto reinserimento sociale delle vittime al termine del periodo di presa in carico, che implicava anche misure di formazione e di orientamento/accompagnamento al lavoro: bassa scolarità e difficoltà linguistiche non risolvibili in tempi contratti inficiano il progetto di autonomizzazione e ritardano l’uscita dalla fase emergenziale, ma sull’esito insoddisfacente impattano pure un assetto rigido dell’offerta di formazione professionale, poco compatibile con le caratteristiche dei soggetti in questione, ed un’insufficiente capacità delle organizzazioni sociali anti-tratta di relazionarsi in modo professionale e strutturato con il sistema delle imprese[32].

Una criticità di livello ancora più ampio, concernente l’attuazione del primo Piano nazionale di azione, muove la consapevolezza del fatto che, a differenza delle nigeriane, non sia riuscito ad intercettare concretamente il segmento di sex trafficking che riguarda le donne provenienti dall’Europa orientale (soprattutto Romania) e che abbia scontato difficoltà nel contrastare un fenomeno della prostituzione che va rendendosi parzialmente meno visibile, perché sottratto alla strada ed esercitato in residenze o locali/hotel appartenenti al circuito criminale[33].

Vi sono chiaramente anche aspetti positivi che occorre sottolineare, e tra questi meritano una menzione alcuni tratti dell’operare delle organizzazioni sociali rivelatisi positivi. Indagini di campo hanno messo in luce, ad esempio, l’utilità concreta di pratiche ispirate all’approccio del case management, con figure dedicate che nell’interlocuzione con i soggetti trafficati fungano da interfaccia specializzata su un ampio spettro di problematiche materiali. Va del pari riservata un’attenzione peculiare al profilo ed al percorso di professionalizzazione di quelle mediatrici culturali che possono adempiere un ruolo determinante e delicatissimo nella relazione con le vittime[34].

Sul versante dell’offerta istituzionale – un’offerta che, per così dire, deve continuamente sollecitare l’emersione di soggetti di domanda renitenti e vessati – va registrato il progressivo consolidamento di prassi di “lavoro multi-agenzia” che associa amministrazioni, attori e competenze distinti ed anche molto differenziati, ma coincidenti nell’obiettivo di lottare contro traffico e sfruttamento di esseri umani e garantire a diversi livelli aiuto alle vittime; il Sistema Antitratta evolve e cresce, e all’interno di esso, oltre ai numeri delle situazioni monitorate e delle persone intercettate (circa 30.000 per anno nell’ambito delle azioni di prossimità dei Progetti antitratta), crescono anche alcune funzionalità essenziali, come per il caso del Numero Verde istituito ormai nel 2000 dalla Presidenza del Consiglio ed attivo 24 ore al giorno, il quale supera normalmente 1500 contatti all’anno (segnalazioni, richieste di aiuto etc.), affiancando ormai alla funzione di call center per informazioni mirate e rinvio ai servizi anche quella di back office che con i dati raccolti alimenta l’osservatorio sugli interventi ed eroga consulenza di secondo livello per altri snodi del sistema[35].

Detto altrimenti: le prassi operative via via si affinano, e si riconnettono gli strumenti in modo più efficiente. Anche in questo caso va prendendo corpo un processo di apprendimento istituzionale che, pur tra varie criticità, sembra suggerire un cauto ottimismo sulle possibilità di un’azione istituzionale sempre più stringente sul tema.

Certo impressiona lo scarto tra gli aspetti positivi e la consistenza/diffusione dei problemi che è necessario fronteggiare. Né vanno taciuti gli elementi di complessità correlati ad alcune delle questioni che si sono menzionate in precedenza, ed in particolare: la sempre negletta batteria di disuguaglianze strutturali tra Paesi che alimenta la vulnerabilità dei soggetti su cui cade l’attenzione dei criminali; l’opacità delle relazioni tra vittime e trafficanti; i rischi – successivi alla presa in carico- di nuove dipendenze in luogo dell’autonomizzazione del soggetto assistito; ed infine, il persistere nei Paesi di destinazione di picchi di domanda di prestazioni servili di poco prezzo. Un’interessante rassegna internazionale ricorda che in tutto il perimetro della tratta l’attore di cui meno si sa resta il cliente[36], ovvero il compratore di quella merce umana senza il quale l’elevata profittabilità dell’investimento criminale non avrebbe esito: e forse sul tema anche la ricerca potrebbe fare qualche sforzo per colmare tale deficit di conoscenze. Restando conclusivamente sul medesimo registro, un’ultima batteria di raccomandazioni potrebbe riguardare l’opportunità di irrobustire il bagaglio degli operatori sociali attivi su questi fronti con evidenze relative a questioni cruciali che la stessa letteratura internazionale ha messo in risalto (dalla destigmatizzazione del sex work alla conoscenza delle caratteristiche di quelle comunità che rendono problematica la possibile reintegrazione delle vittime, per fare due esempi)[37].

Per lottare contro gli esiti deteriori di una mobilità forzata, è il caso di dire, c’è ancora molta strada da fare.


[1]           Cfr. rispettivamente Cameron Thibos e Neil Howard, Trafficking as the moral filter of migration control, in Handbook on the Governance and Politics of Migration, a cura di Emma Carmel, Katharina Lenner e Regine Paul, Cheltenham, Edward Elgar Publishing, 2021, pp. 148-160; e Habib Mohammad Ali, Data Collections on Victims of Human Trafficking, “Journal of Human Security”, 6, 1 (2010), pp. 55-69.

[2]           Le fonti di quanto riportato sono nell’ordine: Abiodun Akanbi, Assessing the effectiveness of global and international cooperation in tackling human trafficking, “Journal of Global Social Sciences”, 1, 4 (2020), pp. 75-90; Essien D. Essien, Handbook of Research on Present and Future Paradigms in Human Trafficking, Hershey, IGI Global, 2022; Mark Langhorn, Understanding victimological factors when analysing organised crime characteristics: a human trafficking perspective, “Salus Journal”, 9, 1 (2021), pp. 51-65; Rose Broad, Nicholas Lord e Charlotte Duncan, The financial aspects of human trafficking: a financial assessment framework, “Criminology & Criminal Justice”, 22, 4 (2022), pp. 581-600; Atanas Rusev et al., Financing of Organised Crime: Human Trafficking in Focus, Sofia, Center for the Study of Democracy, 2019

[3]           Stephen Winkler, Human Trafficking. Definitions, Data and Determinants, World Bank, Policy Research Working Paper 9623, 2021, https://openknowledge.worldbank.org/bitstream/handle/10986/35445/Human-Trafficking-Definitions-Data-and-Determinants.pdf?sequence=1.

[4]           Ravi Mahalingam, Human Trafficking from Multidisciplinary Perspectives: A Literature Review, “Asian Journal of Social Science Research”, 2, 2 (2019), pp. 1-26.

[5]           Due esempi recenti di significative critiche orientate in tal senso sono in Mara Clemente, The counter-trafficking apparatus in action: who benefits from it?, “Dialectical Anthropology”, 46 (2022), pp. 267-289, e in Julia O’Connell Davidson, Slavery Versus Marronage as an Analytic Lens on “Trafficking”, in The Palgrave Handbook of Gender and Migration, a cura di Claudia Mora e Nicola Piper, Cham, Palgrave Macmillan, 2021, pp. 425-439, la quale rileva una sorta di elasticità strumentale nell’accezione di trafficking (“a floating signifier”), imputabile proprio al misconoscimento da parte istituzionale di abusi e sfruttamenti.

[6]           Da ultimo si è addirittura ventilata l’ipotesi di una fattispecie di football trafficking a proposito del mercato di giovani calciatori africani indirizzati verso squadre europee: v. James Esson, Playing the victim? Human trafficking, African youth, and geographies of structural inequality, “Population Space Place”, 26 (2020), pp. 1-12.

[7]           Jennifer K. Lobasz, Beyond border security: Feminist approaches to human trafficking, “Security Studies”, 18, 2 (2009), pp. 319-344, annette al pensiero femminista il merito fondamentale di aver modificato l’interpretazione classica della tratta come attentato alla sicurezza degli Stati, favorendone l’accezione nel senso proprio di violazione dei diritti della persona.

[8]           Cfr. Céline Bauloz, Marika McAdam e Joseph Teye, Human Trafficking in Migration Pathways: Trends, Challenges and New Forms of Cooperation, in World Migration Report 2022, a cura di Marie McAuliffe e Anna Triandafyllidou, Geneva, IOM, 2022, pp. 254-278.

[9]           John R. Barner, David Okech e Meghan A. Camp, “One size does not fit all”: A proposed ecological model for human trafficking intervention, “Journal of Evidence-Informed Social Work”, 15, 2 (2018), pp. 137-150.

[10]          Ella Cockbain, Kate Bowers e Galina Dimitrova, Human trafficking for labour exploitation: the results of a two-phase systematic review mapping the European evidence base and synthesising key scientific research evidence, “Journal of Experimental Criminology”, 14, 3 (2018), pp. 319-360.

[11]          Corinne Schwarz et al., The trafficking continuum: Service providers’ perspectives on vulnerability, exploitation, and trafficking, “Affilia”, 34, 1 (2019), pp. 116-132.

[12]          Immagine spesso volta ad esaltare il ruolo salvifico degli operatori sociali, secondo la critica radicale di Ran Hu, Examining social service providers’ representation of trafficking victims: A feminist postcolonial lens, “Affilia”, 34, 4 (2019), pp. 421-438.

[13]          Cfr. Jay Albanese, Rose Broad e David Gadd, Consent, Coercion, and Fraud in Human Trafficking Relationships. “Journal of Human Trafficking”, 8, 1 (2022), pp. 13-32, che presentano un’imponente rilettura di oltre 3500 casi relativi a 22 paesi.

[14]          Kathleen M. Preble, Under their “control”: Perceptions of traffickers’ power and coercion among international female trafficking survivors during exploitation, “Victims & Offenders”, 14, 2 (2019), pp. 199-221.

[15]          Sul modo di operare dei Romeo pimps si veda Alexandra C. Duncan e Dana DeHart, Provider perspectives on sex trafficking: Victim pathways, service needs, & blurred boundaries, “Victims & Offenders”, 14, 4 (2019), pp. 510-531.

[16]          V. su questi temi rispettivamente Debra A. Love et al., Challenges to Reintegration: A Qualitative Intrinsic Case-Study of Convicted Female Sex Traffickers, “Feminist Criminology”, first published on line October 12, 2021, accessibile in https://www.researchgate.net/publication/355238243_Challenges_to_Reintegration_A_Qualitative_Intrinsic_Case-Study_of_Convicted_Female_Sex_Traffickers; Ine Vanwesenbeeck, The making of “the trafficking problem”, “Archives of Sexual Behavior”, 48, 7 (2019), pp. 1961-1967; infine Nina Laurie e Diane Richardson, Geographies of stigma: Post-trafficking experiences, “Transactions of the Institute of British Geographers”, 46, 1 (2021), pp. 120-134, e Todd Morrison et al., “You Have to Be Strong and Struggle”: Stigmas as a Determinants of Inequality for Female Survivors of Sex Trafficking in Cambodia, “Dignity: A Journal of Analysis of Exploitation and Violence”, 6, 4 (2021), pp. 1-34.

[17]          Christiana Gregoroiu e Ilse Ras, Representations of Transnational Human Trafficking: a Critical Review, in Representations of Transnational Human Trafficking, a cura di Christiana Gregoroiu, Cham, Palgrave, 2018, pp. 1-24.

[18]          Vernon Murray, Julia Solin e Holly Shea, Global Sex and Labor Trafficking Participation Modes: Strategic Implications, “Journal of Leadership, Accountability & Ethics”, 18, 2 (2021), pp. 11-18.

[19]          Sallie Yea, The politics of evidence, data and research in anti-trafficking work, “Anti-Trafficking Review”, 8 (2017), pp. 1-13.

[20]          Non per caso alcune simulazioni avanzate di interventi di contrasto promosse in ambito internazionale si riferiscono al contesto italiano: v. Sarah Elliott e Megan D. Smith, Simulating a multi-agency approach for the protection of trafficked persons in migration and displacement settings, “Journal of Human Trafficking”, 6, 2 (2020), pp. 168-181.

[21]          Ad esempio l’accattonaggio, al netto della percezione che è possibile averne soprattutto in aree metropolitane, resta fortunatamente un fenomeno minoritario e ancora relativamente poco organizzato, come notano Michela Semprebon, Serena Scarabello e Gianfranco Bonesso, La pratica dell’accattonaggio, tra libertà di scelta, sfruttamento, tratta e connessioni con la criminalità organizzata, Venezia, Cattedra UNESCO SSIIM-Università Iuav, 2021, https://www.insightproject.net/wp-content/uploads/2022/01/2.1a_REPORT-begging-ITA-def.pdf .

[22]          Il raccordo interistituzionale tra diverse amministrazioni dello Stato, a livello centrale, regionale e locale, è assicurato dal coordinamento del Tavolo tecnico nazionale che è responsabile per l’indirizzo e la programmazione delle attività istituzionali, del monitoraggio dell’attuazione della Legge n.199/2016 e di eventuali proposte normative in materia. A supporto del Tavolo sono stati costituiti sei Gruppi tematici (Vigilanza e ispezione; Qualità della filiera agroalimentare; Intermediazione e servizi per il lavoro; Rete lavoro agricolo di qualità; Trasporti; Alloggi e foresterie temporanee) saliti ad otto nel corso del primo periodo di attuazione del Piano per dare corpo a due priorità trasversali: la costruzione del Sistema informativo nazionale sul mercato del lavoro in agricoltura e la concretizzazione, attraverso un sistema di Protezione e assistenza a trazione pubblica, di un’effettiva strategia dell’attenzione per le vittime.

[23]          Il testo, esito dell’attività di un gruppo interistituzionale costituito presso il Ministero del Lavoro che ha coinvolto nell’elaborazione ricercatori INAPP ed esperti delle organizzazioni delle Nazioni Unite attive sui temi delle migrazioni e del lavoro accanto ad amministrazioni centrali e territoriali e soggetti attivi nella lotta al caporalato, è qui disponibile: https://www.statoregioni.it/media/4087/p-14-cu-atto-rep-n-146-7ott2021.pdf.

[24]          Se non per ricordare che anche in questo campo i maschi vittime di sfruttamento possono opporre resistenza a definirsi come tali: si vedano le testimonianze raccolte da Neil Howard, Neither predator nor prey: What trafficking discourses miss about masculinities, mobility and work, “Anthropology Today”, 35, 6 (2019), pp. 14-17.

[25]          Emiliana Baldoni, Scenari emergenti nella tratta a scopo di sfruttamento sessuale verso l’Italia, “REMHU-Revista Interdisciplinar da Mobilidade Humana”, 37 (2011), pp. 43-58.

[26]          Cfr. Luisa Ravagnani e Carlo A. Romano, L’influenza dei riti voodoo nel fenomeno della tratta di donne dalla Nigeria in alcune sentenze di merito, “Rassegna Italiana di Criminologia”, XV, 1 (2021), pp. 6-17.

 

[27]          Si vedano Simona Taliani, Coercion, fetishes and suffering in the daily lives of young nigerian women in Italy, “Africa”, 82, 4 (2012), pp. 579-608; Marco Del Vecchio, Non tradirai la promessa. Il ruolo dei riti juju nelle esperienze di tratta delle donne nigeriane, “Quaderni del Dipartimento Jonico DJSGE”, 16 (2020), pp. 227-237; Marianna Toscani, Le dinamiche della violenza di genere nel fenomeno della tratta, in Guardiamola in faccia. I mille volti della violenza di genere, a cura di Fatima Farina, Bruna Mura e Raffaella Sarti, Urbino, Urbino University Press, 2020, pp. 222-235; Milena Rizzotti, Chasing Geographical and Social Mobility: The motivations of Nigerian madams to enter indentured relationships, “Anti-Trafficking Review”, 18 (2022), pp. 49-66. La funzione fondamentale della madam come perno dell’impresa criminale (“a pivotal role”) è richiamata anche in Ernesto U. Savona, Luca Giommoni, Marina Mancuso, Human trafficking for sexual exploitation in Italy, in Cognition and Crime: Offender Decision Making and Script Analyses, a cura di Bruno Leclerc e Richard Wortley, London-New York, Routledge, 2014, pp. 140-163.

[28]          Luca Cerniglia, Serena Bernabè e Marinella Paciello, Donne vittime di tratta: rassegna teorica sul fenomeno e studio esplorativo su modelli di attaccamento e funzionamento emotivo-relazionale, “Funzione Gamma”, 29 (2012), pp. 1-22.

[29]          Martina Facincani, Donne in movimento: le richiedenti asilo vittime di tratta, tra disuguaglianze strutturali e vulnerabilità indotte, “AG About Gender-Rivista internazionale di studi di genere”, 20 (2021), pp. 31-63.

[30]          Cfr. Serena Caroselli, Una mobilità esasperante, “EtnoAntropologia”, 9, 2 (2021), pp. 133-148. In termini ancora più radicali, parla di vite di scarto e “in sostanza (…) di cose” Thomas Casadei, Tratta/schiavitù, in Il diritto al viaggio. Abbecedario delle migrazioni, a cura di Luca Barbari e Francesco De Vanna, Torino, Giappichelli 2018, pp. 299-308.

[31]          Cfr. Patrizia Testai, Victim Protection Policy in Italy: Between Emancipation and Redemption, “STAIR-St. Antony’s International Review”, 4, 1 (2008), pp. 37-57, e Stefano Caneppele e Marina Mancuso, Are Protection Policies for Human Trafficking Victims Effective? An Analysis of the Italian Case, “European Journal on Criminal Policy and Research”, 19, 3 (2013), pp. 259-273.

[32]          Renato Cogno et al., Vittime di tratta: pratiche e strumenti di inclusione lavorativa, Torino, Ires Piemonte, 2020.

[33]          Paola Degani e Lorenza Perini, The Italian Public Policies Frame on Prostitution and the Practical Overlapping with Trafficking: An Inevitable Condition?, “Peace Human Rights Governance”, 3, 1 (2019), pp. 35-68.

[34]          Si vedano Martina A. Caretta, Casa Rut: A multilevel analysis of a “good practice” in the social assistance of sexually trafficked Nigerian women, “Affilia”, 30, 4 (2015), pp. 546-559, e Francesca Tessitore et al., The frame of Nigerian sex trafficking between internal and external usurpers: A qualitative research through the gaze of the female Nigerian cultural mediators, “International Journal of Applied Psychoanalytic Studies”, (2022), pp. 1-15, accessibile in https://onlinelibrary.wiley.com/doi/pdf/10.1002/aps.1759.

[35]          Si rinvia a Lotta alla tratta di persone e diritti umani, a cura di Paola Degani, Padova, Università degli Studi di Padova, 2021, per l’importante messe di informazioni sul punto.

[36]          Biljana Meshkovska et al., Female sex trafficking: Conceptual issues, current debates, and future directions, “Journal of Sex Research”, 52,4 (2015), pp. 380-395.

[37]          David Okech et al., Seventeen years of human trafficking research in social work: A review of the literature, “Journal of evidence-informed social work”, 15, 2 (2018), pp. 103-122.