Dai monti, dalle valli, dal piano. L’emigrazione dal varesotto nella prima metà dell’Ottocento

  1. Premessa

L’area prealpina è stata una di quelle in cui la povertà del territorio ha spinto la popolazione a cercare varie strade onde integrare le scarse risorse locali. Tra queste l’emigrazione di cui gli studi hanno indagato tempi, mete e conseguenze sul piano affettivo, economico e sociale[1]. Il presente contributo, basato sullo spoglio dei registri parrocchiali (in particolare quelli dei morti ove il curato annotava anche il luogo del decesso dei parrocchiani morti lontano da casa), documenti fiscali e di leva, richieste di passaporti e stati di famiglia dei vari comuni dell’attuale varesotto, ricostruisce il fenomeno migratorio nella prima metà dell’Ottocento prendendo in considerazione non solo le valli varesine ma anche la pianura asciutta a sud di Varese. Esso conferma la presenza di un’emigrazione di mestiere dal flusso costante cioè di migranti che partivano con una professione e un’arte di cui andavano fieri e con un proprio bagaglio specializzato e competitivo. Era un’emigrazione antica che si andò consolidando nel tempo assumendo dimensioni e caratteri diversi nella prima metà dell’Ottocento come si è cercato di mettere a fuoco. Il saggio attesta la persistente vitalità dei paesi d’origine, talora sedi della prima formazione professionale di lavoratori edili e di artigiani e patria di intere generazioni di artisti. Si trattava dunque non solo di “paesi stretti” come sono stati definiti ma anche “affacciati sul mondo” per quella intensa frequentazione col mondo esterno e cittadino che ha fatto parlare di un vero e proprio “paradosso alpino”[2]. Tutto ciò conferma pure nel caso della nostra ricerca la necessità di una rilettura del paradigma braudeliano della montagna quale “fabbrica di uomini a servizio di altri”, l’esigenza cioè di ripensare l’idea di un fenomeno migratorio connotato solo da cause economiche, la povertà congiunturale e strutturale, la marginalità, lo squilibrio demografico, l’insufficienza di risorse[3]. Offre infine conferme significative sulla divisione sessuale del lavoro tra uomini e donne, la collaborazione cioè tra chi restava e produceva beni di consumo e chi partiva e portava a casa il denaro necessario a integrare l’economia naturale: “soldi contri fatica” come ha scritto Raul Merzario cioè grano prodotto dalle donne e rimesse dei migranti[4]. Delinea da ultimo su piani diversi le conseguenze spesso dolorose dell’emigrazione.

  1. “Terre sterili” e “infime campagne”

Nella sua Discussione economica sul dipartimento del Lario del 1804 Melchiorre Gioia forniva ai lettori una serie di notizie sulla vita dei contadini lombardi[5]: a quel tempo sarebbe emigrato ogni anno un ventesimo della popolazione complessiva del dipartimento (calcolata in circa 370.000 individui) a causa della tradizionale povertà del territorio, “composto di poca pianura, di molte colline, d’estesissimi ed erti monti”. Il dipartimento del Lario comprendeva allora una parte cospicua dell’attuale provincia di Varese: al nord una zona montuosa con le valli, la Valceresio, la Valmarchirolo e la Valganna, la Valcuvia, la Valtravaglia, fino alle più isolate valli del luinese la Val Veddasca e la Val Dumentina; al sud il limite settentrionale della pianura asciutta al confine coll’alto milanese (Gallarate, Busto, Somma Lombardo, Saronno); al centro una fascia collinare a ridosso delle valli che da Varese e dintorni si stendeva da una parte fino a Malnate, Tradate e il tradatese e dall’altra fino a Laveno, Ispra, Angera, Gavirate compresa tutta la zona morenica intorno ai laghi di Varano, Travedona Monate e Comabbio. Certo Varese, antico borgo del ducato di Milano divenuta città nel 1816, era uno dei maggiori centri commerciali della zona oltre che rinomata villa di delizia e sede di fiere e mercati destinata a sviluppi economici e sociali di rilievo[6]. Non così il territorio circostante a vocazione prettamente agricola, che presentava un quadro di miseria campestre rilevato da inchieste asburgiche e napoleoniche e rimasto sostanzialmente invariato negli anni nonostante l’avvio di alcune nuove attività manifatturiere tessili nei luoghi già tradizionali sedi di magli e ferriere, segherie o fornaci di calce[7]. Era un quadro da distinguersi anche dal punto di vista agrario in due aree ben precise: un nord freddo e sterile senza sole e “senza frutto” vale a dire senza suolo coltivabile con tante piccolissime proprietà e minuscoli paesi di montagna “vicini alle stelle” e un sud nella alta pianura asciutta con un susseguirsi di “terre sterili” e “infime campagne” dove il contratto misto a fitto e grano e colonia parziaria impoveriva al contempo sia il terreno che i contadini molti dei quali non riuscivano neppure ad arrivare in tempo al più vicino ospedale di Milano per morire in pace di pellagra malattia causata dell’eccessivo consumo di granoturco[8].

Non mancarono in momenti e zone diverse cause specifiche di emigrazione come fu a metà Settecento l’eccessivo carico fiscale cui si aggiunsero in età napoleonica le invise leggi di coscrizione[9]. Ma cause principali del fenomeno migratorio rimanevano a inizio Ottocento in tutto il varesotto la povertà del territorio e la ricerca dei mezzi elementari di sostentamento.

  1. “Vanno per il mondo a guadagnarsi il vitto”. L’emigrazione dalle valli

Tale fenomeno si ripresentò più o meno identico negli anni della Restaurazione: stando ai “Cenni statistici” del 1833 dalla provincia di Como sarebbe emigrato ancora come ai tempi del Gioia un ventesimo della sua popolazione complessiva (70.000 su circa 350000 abitanti)[10]. Ne erano interessate in primo luogo le valli, che erano “per la maggior parte montagna” dove si producevano solo castagne nonché grani ma sufficienti per appena due mesi l’anno[11]. L’emigrazione non era certo un fatto nuovo. Si inseriva invece in un quadro di lungo periodo, il quadro del difficile equilibrio tra uomo e risorse che aveva caratterizzato i secoli d’antico regime a partire addirittura dal Quattrocento quando come è noto comunità lombarde provenienti dalla Valcuvia e dalla Valtravaglia erano presenti a Perugia, in Abruzzo e a Roma, polo attrattivo per eccellenza anche delle maestranze d’arte di Saltrio e di Viggiù. Nella prima metà del secolo XIX la maggior parte dell’emigrazione rimase perlopiù circoscritta agli stati della penisola, anche se l’ Italia centro meridionale fu progressivamente abbandonata a favore di altre località del nord e già negli ultimi decenni del Settecento si configurò un’ampio ventaglio di mete e di specializzazioni tipiche di alcuni paesi piuttosto che altri e spesso espressione di un’arte antica tramandata di generazione in generazione[12]. A Monteviasco, ad esempio, magico borgo montano della Val Veddasca, a inizio secolo gli abitanti ‒ comprese in alcuni casi perfino le donne ‒ erano tutti carbonari e producevano carbone grazie al trattamento della legna secondo antichi processi di trasformazione conosciuti nelle aree montuose sulle sponde del lago, specie l’alto luinese. Costoro andavano spesso lontano a esercitare la loro “arte”. In Valtravaglia e specie in Valcuvia era ancora viva la tradizione dei calzolai che già tra Sei e Settecento in primavera lasciavano il paese e si recavano in Abruzzo, meta che non fu mai del tutto dimenticata nonostante l’attrazione ottocentesca verso i maggiori centro lombardi. Da antica data quelli della Val Dumentina e della Val Veddasca partivano “per il mondo” a fare l’oste secondo le diverse scelte famigliari, inclinazioni personali, opportunità professionali[13]. Da Agra e da Dumenza ‒ da dove proveniva tra l’altro il cuoco segreto di papa Pio V ‒ in particolare la vocazione al terziario, che come si è detto da tempo spingeva gli abitanti a scendere verso Roma, il Lazio e le terre del sud, tra XVIII e XIX secolo prese nuove strade adeguandosi alle esigenze del mercato del lavoro. Cuochi, cucinieri, camerieri d’albergo andavano sempre più numerosi a Milano, Como, Bergamo, Brescia e nelle altre principali città lombarde. Alcuni si dirigevano anche in Liguria tanto che dai registri parrocchiali della valle dei primi decenni dell’Ottocento sappiamo di migranti cuochi che dopo essersi sposati lontano da casa rientravano con moglie e figli per poi morire in pace nel paese d’origine[14]. Dal distretto di Maccagno molti partivano già allora per la Francia per fare i fumisti e gli spazzacamini. E non mancavano neppure tessitori o canepari (lavoratori di canapa) che dalle valli si dirigevano ovunque qua e là per la penisola “a esercitare la propria professione[15].

Ma casi particolari come questi non modificano il quadro tradizionale dell’emigrazione di valle che restava dominato dal settore delle costruzioni (edilizia, escavazione di marmi, produzione di laterizi) talora con competenze artigianali diverse da valle a valle e addirittura da paese a paese. Dalla Valcuvia, ad esempio, e in particolare da Cuvio e da Castel Cabiaglio partivano intere squadre di lavoratori esperti nell’arte di “pittore e sbianchino da muro”, ma erano numerosi anche i muratori e fornaciari che si trasferivano altrove per la produzione di mattoni e di coppi. Lo stesso può dirsi per i migranti della Valmarchirolo, della Valtravaglia e delle valli del luinese. Erano invece scalpellini, marmorini, tagliapietra e piccasassi, lustratori, stuccatori e segatori quelli della Valceresio e in particolare di Viggiù, Saltrio e Clivio i quali erano famosi per la preziosità della loro arte ‒ la lavorazione della pietra ‒ esercitata tradizionalmente nei palazzi di ricchi notabili come pure in edifici religiosi quali la fabbrica del Duomo a Milano. Si trattava di una sorta di aristocrazia dell’emigrazione che fondava le sue radici nella valorizzazione delle capacità tecniche e artistiche dei valligiani acquisite grazie allo stimolo di imprenditori, mercanti e artisti famosi nel Regno Lombardo-Veneto anche per la partecipazione alle esposizioni braidensi[16]. Si pensi tra gli altri a Pompeo Marchesi, scultore di Saltrio, allievo del Canova, docente di scultura all’Accademia di Brera, che nella sua bottega milanese formò alcuni dei più noti artisti di Viggiù “il miracoloso lembo di terra” il quale con le sue cave costituì nei secoli l’humus ideale per la formazione di intere generazioni di scultori. Nel 1810 vi sarebbero stati a Milano al seguito di questi artisti ben 63 tra scultori e pontisti e 201 tra intagliatori e quadristi provenienti dalla sola Viggiù e luoghi vicini[17].

Non a caso i valligiani si organizzavano a squadre e a squadre andavano “per il mondo” seguendo la strada dei loro padri e dei loro maestri. Nella prima metà dell’Ottocento ne troviamo saltuariamente ancora a Roma e a Napoli, già mete di antichi percorsi migratori, nella Romagna e nel Veneto e in qualche caso anche all’estero[18]. Ma le loro località preferite oltre alla Lombardia, di cui si dirà dettagliatamente più avanti, erano la Liguria e soprattutto il Piemonte, dove si trasferivano approfittando della fervida attività edilizia promossa sia dalle necessità di difesa per costruire fortificazioni sia da quelle di rappresentanza della casa Savoia che come è noto a metà Settecento con la pace di Aquisgrana aveva strappato terre a Maria Teresa d’Austria portando i confini orientali del regno sabaudo fino al Ticino. Come le professioni anche le mete erano diverse in base alla valle di provenienza. I muratori di Cuasso al Piano e del vicino comune di Bisuschio in Valceresio, ad esempio, partivano insieme per Novara, il novarese e il vercellese. Quelli di Clivio e di Viggiù andavano numerosi a Vercelli dove decorarono palazzi e chiese con mirabile arte. Insieme agli scalpellini di Arcisate e di Induno essi si distinsero in particolare per le opere realizzate a Torino: nella capitale sabauda si impiegarono, infatti, nei lavori per la costruzione della cappella del palazzo reale, dell’Arco della stazione di Porta Nuova, di palazzo Carignano e di altri palazzi privati nonché dei primi grandi alberghi, come il memorialista Michelangelo Molinari, anch’egli marmorino di Clivio, puntualmente annotava[19]. Muratori e fornaciari della Valcuvia si spingevano al di là del novarese per raggiungere la Lomellina, il Monferrato, Asti e l’astigiano, Alessandria, Tortona e l’alessandrino e in certi casi Voghera, Vigevano fino al basso pavese, una fascia che fa pensare alla possibilità di una loro conversione professionale dal settore edile a quello agricolo, alla quale si riferiva il Braudel parlando degli spostamenti di molti montanari delle Alpi meridionali francesi in pianura “nel pieno dei lavori di mietitura”[20]. Anche da Luino, Mesenzana e Brissago Valtravaglia andavano a lavorare nelle stesse zone comprese Ovada, Serravalle Scrivia, Novi ligure. Da Castelveccana partivano numerosi pure per alcuni paesi del parmense e del piacentino, destinazione cui non fu certamente estranea la vasta committenza religiosa della dinastia Buzzi di Viggiù già nel Settecento[21]. Non pochi muratori di Bedero Valcuvia, Cavona, Castel Cabiaglio e Cuveglio raggiungevano Genova e da qui negli anni quaranta e cinquanta non mancarono coloro che si imbarcarono per la Sardegna[22]. Anche i migranti della Valmarchirolo, infine, si spingevano nel basso Piemonte, ma ne troviamo ugualmente più a nord a Pinerolo e addirittura in tutt’altra zona a Ventimiglia, da dove alcuni raggiungevano il Nizzardo e a Provenza mentre quelli della Val Dumentina e Val Veddasca andavano a lavorare anche nel Granducato di Toscana [23].

Molti migranti rimanevano però entro i confini della Lombardia. Talora si dirigevano in centri minori come Lodi, Casalmaggiore, Crema e infine Monza divenuta negli anni venti grazie a qualche proficua commessa una delle mete preferite dei muratori della Valcuvia ‒ Duno, Cuveglio, Vergobbio. Scalpellini e marmorini di Clivio, Viggiù e della Valceresio in genere invece si resero famosi per una gran quantità di decorazioni marmoree in quasi tutte le chiese del milanese, del pavese, del lodigiano e del cremonese e nelle grandi città lombarde dove furono chiamati probabilmente anche grazie alla notorietà del già citato Pompeo Marchesi. Un’attenzione particolare merita Bergamo già meta privilegiata dei fornaciari di Bosco Valtravaglia[24]. Questa mano d’opera specializzata si recava però soprattutto a Milano, la cui intensa attività edilizia di inizio Ottocento trasse impulso tra l’altro dalle opere pubbliche avviate dai francesi. Divenuta nel 1802 capitale della I Repubblica Italiana e poi nel 1805 del napoleonico Regno d’Italia, Milano attirò, infatti, stuoli di muratori dalle valli e in particolare scalpellini della Valceresio impegnati tra l’altro nella costruzione e nella decorazione dell’Arco Trionfale del Sempione chiamato poi della Pace. E così continuò a verificarsi dopo il 1814 quando la città tornò ad essere sede del governo asburgico e poi negli anni trenta quando conobbe un’autentica “febbre edilizia” anticipatrice per molti versi di quella postunitaria stimolata dalla committenza civile privata ma anche da quella pubblica laica e religiosa.

I valligiani partivano a piedi[25], partivano in primavera e taluni facevano qualche rapido ritorno a casa per salutare i loro cari ma rientravano definitivamente d’inverno[26]. Solo in alcuni casi infine artisti e capomastri potevano permettersi di pagarsi una dimora in affitto. Generalmente a Milano i lavoratori alloggiavano nel quartiere di San Simpliciano ricco di osterie e di locande, subito dietro l’Arco della Pace. E tutte le mattine si mettevano in piazza “sul Ponte Vetro (…) in aspettazione d’essere chiamati al lavoro da qualche capomastro”[27]. Spesso inoltre i migranti più giovani che giungevano in città per iniziare l’apprendistato dopo una generica formazione presso il paese d’origine, dormivano presso qualche parente, amico o più noto impresario, come quel Francesco Pozzi di Cuveglio con dimora a Milano nella contrada di San Calimero, che offriva loro un piatto di minestra e si incaricava anche di trattare per loro le condizioni di pagamento coi padroni dei cantieri e di riscuotere le paghe. Erano giovani appassionati della loro arte che desideravano apprendere e imparare e per questo, in mancanza di scuole di disegno locali come fu, ad esempio, quella aperta a Viggiù nel 1872, proprio a Milano essi avevano la possibilità di studiare disegno a Brera o di andare a lezione presso maestri impegnati nella fabbrica del Duomo[28]. Quanto all’età come avevano fatto i loro padri i migranti portavano con sé i loro figli giovanissimi. Dalle alte valli e soprattutto dai paesi più poveri, Dumenza e Duno, partivano già a dodici e tredici anni, e se avevano meno di dieci anni erano accompagnati dai cosiddetti contratti d’affidamento stipulati dagli impresari con le madri. E già a questa età alcuni morivano lontano da casa “per caduta da un precipizio” o “per incidente”, difficoltà del viaggio e via dicendo. Ma anche nella migliore delle ipotesi il prezzo pagato dall’emigrante era alto, l’indebolimento fisico, la malattia come la silicosi nel caso dei marmisti e con esso l’abbassamento dell’età media di vita: “E come arrivano all’età di quarantacinque anni in circa muoiono quasi tutti per essere arte di fatiche e per non avere il sostentamento in patria”[29]. Solo in pochi casi infine sappiamo di intere famiglie che migravano. Più in generate si trattava di emigrazione solo maschile, solo stagionale che non comportava chiusura della casa e vendita dei beni. Era un’emigrazione affrontata comunque senza traumi e cioè con la sicurezza di tornare portando con sé qualche soldo per essere di aiuto alla famiglia e di trovare le cose e i propri cari come li avevano lasciati e soprattutto di trovare il “focho acceso” e cioè una casa abitata grazie alla mediazione preziosa delle donne.

  1. Le montagne delle donne. Non solo “bestie a due gambe”

Come sempre l’emigrazione non creava problemi solo in chi partiva. Anche chi restava ne avvertiva dolenti le conseguenze sul piano affettivo, economico e sociale. Da antica data nel Varesotto all’inizio della primavera alcuni comuni si spopolavano completamente. D’estate oltre al parroco, il cappellano, il sacrestano, le autorità comunali e qualche anziano oramai inabile al lavoro la montagna rimaneva un paese senza uomini. Specie dove il numero degli emigranti era più elevato ciò generava liti e contenziosi per il pagamento della tassa personale, la cui esenzione venne riconosciuta solo in certi casi a chi si assentava per almeno sei mesi. In secondo luogo l’emigrazione creava enormi difficoltà per la leva rendendo assai difficile per i coscritti lontani ottemperare regolarmente gli obblighi del servizio militare. Facilitava inoltre anche le fughe all’estero soprattutto a chi abitava vicino al confine svizzero e poteva facilmente far perdere le tracce di sé[30]. Alcuni di questi renitenti alla leva erano aiutati da parenti e amici che li nascondevano lontano come aveva fatto la madre di un giovane muratore di Bisuschio il quale d’estate lavorava a Torino presso lo zio capomastro[31]. E non era la sola che aveva affrontato il pericolo della galera per proteggere il figlio: nei comuni dove per la partenza di molti giovani ne restavano pochi “toccanti l’età della coscrizione” intere famiglie si trasferivano in altri paesi del regno, quelli col maggior numero di “abbondante gioventù”, per poi ritornar in patria di lì a qualche anno una volta scampato il pericolo della coscrizione[32].

Il principale ribaltamento sociale prodotto dall’emigrazione degli uomini era però soprattutto legato all’attività delle donne. Il loro lavoro nei campi manteneva in vita una sorta di economia naturale che si contrapponeva a quella, incentrata sul denaro, inaugurata dagli uomini i quali, lasciando stagionalmente le montagne, imparavano a monetizzare il proprio lavoro. Le loro mogli, sorelle e madri invece erano impegnate nell’agricoltura ‒ partoriscono e allattano, seminano, arano, mietono, coltivano, costruiscono case e terrazzamenti – mettendo spesso a repentaglio vita e salute. Abbiamo trovato una testimonianza significativa degli effetti economici del fenomeno relativa al cantone di Maccagno sulla montagna sopra il Verbano a nord di Luino. All’inizio dell’Ottocento gli uomini se ne andavano per quasi tutto l’anno e le donne erano “tute occupate all’agricoltura, a portare il carbone e la legna dai monti alla riva per tradurlo colle barche alla città”. E questi erano “mestieri che fanno più volentieri perché facendo li suddetti mestieri resta loro tempo fra la giornata di accudire figli, far qualche lavorerio ne’ piccoli loro fondi ed altre cose domestiche”. I filandieri del posto erano dunque costretti a cercare manodopera femminile per il settore tessile e filatrici “in altri paesi” quali Luino, Germignaga, Porto Ceresio dove erano numerose le filande[33].

Ma oltre a quelli economici non mancavano gli effetti sociali. Spesso, infatti, l’attività agricola delle donne era causa di un abbrutimento e di un indebolimento fisico che penalizzava perfino il loro ruolo di madri e donne. A Monteviasco, ad esempio, molte morivano per cadute da burroni e precipizi, ma erano numerose anche le morti per “parto infelice” cui contribuiva non poco la vita dura condotta per la maggior parte dell’anno tanto che raramente venivano registrate qui morti femminili per febbri senili o per vecchiaia. Ma è vero anche che, come è stato ampiamente sottolineato dagli studi, la storia delle donne nelle montagne non era solo storia di abbruttimento e di fatica, storia di denti gialli e di capelli bianchi, storia cioè di “bestie a due gambe” ingobbite sotto il peso di cesti di legna e di fieno[34]. Con la loro stanzialità e l’occupazione fisica del territorio le donne avevano responsabilità notevoli nel paese a livello familiare e pubblico, come evoca la bella immagine del “focho acceso”, pur in un quadro di persistente ineguaglianza giuridica cogli uomini. In primo luogo costituivano una cinghia di trasmissione tra i diversi membri della famiglia, prendendosi cura dei figli e avviandoli ad una prima formazione professionale; in secondo luogo tessevano le fila dei rapporti sociali assumendo ruoli precisi sotto forma di supplenza ed esplicite funzioni pubbliche all’interno della comunità a tutela di quelle prerogative e di quesì privilegi riservati ai residenti, primo fra tutti l’accesso al credito garantito dalla proprietà della terra. Non a caso questa era ampiamente protetta dai rischi di alienazione sia con regole restrittive del mercato matrimoniale sia accordando alle madri in via eccezionale la possibilità di possedere o di operare compravendite per i figli minori. Rispondevano a questo stesso fine anche forme di affiliazione di coniugi venuti da fuori di cui sono state trovate prove significative nell’alto varesotto sul lago Maggiore in particolare a Porto Valtravaglia. Si trattava di adozioni da parte della famiglia della sposa del futuro marito che entrava a farne parte a pieno titolo e che costituiva una delle principali strategie per aggirare gli ostacoli statutari in materia successoria e i rischi di alienazione della terra permettendo alla donna di tutelare i suoi beni anche quando in assenza di figli maschi, fosse rimasta l’unica discendente della famiglia[35].

  1. Muratori e suolini, giornalieri e canepari

Nel varesotto non si emigrava solo dalle valli: alle zone agrarie di cui si è detto – le montagne a nord, le colline nel mezzo e la pianura al sud – corrispondevano, infatti, fin dal Settecento distinte tipologie migratorie con differenti occupazioni stagionali, mete e percorsi. Ci riferiamo in particolare ai distretti collinari e di alta pianura asciutta di Varese, Tradate, Gavirate e Angera ma anche a quelli allora milanesi di Saronno, Gallarate, Busto e Somma Lombardo. Da qui nei primi decenni dell’Ottocento si muoveva stagionalmente un flusso migratorio di mestiere per così dire misto e complesso che comprendeva sia una manodopera edile del tutto simile a quella dalle valli sia gruppi di contadini giornalieri e avventizi dediti ai lavori dei campi. Manovali, capomastri, muratori, fornaciari migravano numerosi da Barasso, Gazzada, Daverio nel distretto di Varese come pure da Gavirate, Comabbio, Angera e dai comuni intorno a Tradate, specie da Gornate o da Venegono Superiore. Ne partivano pure da Vedano Olona e Morazzone per andare a praticare quella che chiamavano “l’arte loro” e si dirigevano verso centri lombardi minori e maggiori come Monza, Lodi, Crema, Milano[36]. Si trattava anche in questo caso di un’emigrazione su brevi distanze, stagionale e di soli uomini organizzata in loco in base a qualche precisa committenza. Per questo come i valligiani pure questi migranti si dirigevano a gruppi nella medesima città: così da Comerio già nel 1828 molti erano quelli che andavano insieme “a travagliare a Milano”. E solitamente partivano a marzo per tornare a novembre come i migranti di Morazzone, ad esempio, che partivano tutti insieme a primavera poiché “solamente nella primavera han principio li lavoreri di muratore”[37].

Un’interessante specializzazione professionale era qui costituita dai cosiddetti “suolini”, vale a dire i pavimentatori piastrellisti di dimore pubbliche e private “dalle fatiche dei quali riportano qualche contante (e) si sostengono nell’inverno le loro famiglie”. Negli anni trenta dell’Ottocento se ne ritrovano molti che provenivano da Malnate diretti a Como, Novara, Mantova, Crema, Caravaggio, Brescia e soprattutto a Milano[38]: spesso lavoravano insieme presso un capo suolino, alloggiavano anch’essi come i valligiani nel quartiere di San Simpliciano, si fermavano “la maggior parte dell’anno” e rientravano a casa definitivamente soltanto durante i mesi invernali. E proprio come i valligiani alcuni approfittavano della dimora in città per frequentare la scuola d’ornamenti di Brera la sera, dopo il lavoro giornaliero. Solo in rari casi partivano con i loro cari, come Matteo Batistella di Malnate che nel 1834 ‒ a detta dei suoi stessi compagni di lavoro ‒ era “traslocato colla sua famiglia nella città di Milano”[39]; più spesso, infatti, essi lasciavano a casa le mogli e i figli più piccoli portando con sé quelli che avevan compiuto i dodici-tredici anni come quel ragazzo che ne aveva solo quindici quando la deputazione comunale di Malnate rilasciava la dichiarazione che egli “da più anni si trasferi(va) a Milano ad esercitare il mestiere di manuale”. In tal modo però si disgregavano intere famiglie i cui membri maschi talora migravano tutti insieme per andare a esercitare l’arte dei loro padri, come i fratelli Grizzetti di San Salvatore di Malnate o i tre fratelli De Angeli partiti da Malnate rispettivamente per Milano e per Brescia[40].

A questa emigrazione edile si univa quella dei contadini giornalieri che riciclavano la propria attività di bracciantato nella bassa lombarda o piemontese dove la proprietà fondiaria aveva conosciuto notevoli trasformazioni e lo sviluppo dell’agricoltura intensiva richiedeva uomini e capitali: qui, infatti, da agosto a settembre lavori come la trebbiatura e la mietitura esigevano una quantità di mano d’opera tale che esauriva le disponibilità locali, per non parlare della risicoltura[41]. Anche in questo caso i migranti non si vendevano come mano d’opera generica. Avevano, ad esempio, una loro precisa specializzazione quelli che andavano “a coltivar i risi nell’ex-Lombardia” vale a dire in Piemonte – come scriveva il Gioia già nel 1804 ‒ o offrivano la forza delle loro braccia per il taglio del fieno o la mietitura del grano nel vercellese, nel novarese fino a Vigevano, Pavia, la Lomellina. Dalla seconda metà del Settecento ne partivano per mancanza di lavoro dai dintorni di Varese e dai borghi circostanti e, come aveva scritto in termini generali nel 1816 la regia delegazione milanese “per trovarvi meno miserie e più facile accesso alla città onde potere procurarsi qualche guadagno”[42].. Ne partivano poi dal distretto di Angera e dalle aree paludose del lago Maggiore “per l’esercizio della loro professione”: ne troviamo più d’uno di questa zona che era “da più anni a servire come contadino” ad Oleggio nel novarese. Ne partivano anche da Gavirate per le campagne del pavese e della Lomellina e per le risaie della bassa Lombardia, milanese e mantovano; ne partivano poi dal distretto di Tradate e in particolare da Gornate e da Castelseprio, unendosi ai contadini che migravano dei vicini distretti di Appiano o di Saronno i quali “andavano per il mondo a far giornata (…) alle risaie e prati del ducato Inferiore”. Già negli anni trenta sappiamo poi di molti canepari di Cavaria” i quali andavano in giro per tutto lo stato”, il Lombardo-Veneto come pure in Piemonte, specie a Novara, per “lavoro di canapa (…) e con tal mezzo procurare a sé e alle proprie famiglie il necessario sostentamento”[43]. Ne partivano infine dai distretti allora milanesi di Busto, Somma Lombardo e di Gallarate: da Fagnano Olona e Gorla Maggiore, i contadini andavano “nell’estiva stagione (…) in paesi del ducato Inferiore in qualità di giornalieri a far la raccolta de fieni e de risi (…) con notabil discapito della propria salute”[44]. Spesso, infatti, proprio come i montanari e i valligiani anche questi contadini pagavano con la vita il prezzo dei loro sacrifici poiché “non rare volte per l’aria cattiva perdono la vita o almeno soggiagiono a gravissime malattie”. Vi si ammalavano e tornavano a casa solo per morire, come sappiamo di un contadino di Comabbio[45].

  1. Artigiani, camerieri e domestici

A queste due forme tradizionali di emigrazione – lavoratori edili e braccianti agricoli ‒ se ne aggiunse poi nell’età della Restaurazione un’altra in parte nuova, certo di minore entità ma egualmente significativa quella che seguì alla carestia del 1816 quando “ridotti alla fame molti traslocarono a Milano i loro pochi beni insieme a tutta la famiglia”. In certi casi i registri parrocchiali riportano testimonianze di veri e propri questuanti e mendicanti che disoccupati e senza mezzi si davano a “illecite azioni (…) di borseggio” per sopravvivere[46]. Spesso però si trattava di lavoratori volenterosi ridotti in miseria dalla crisi che si riversavano disperatamente nella città alla ricerca di un’occupazione qualsiasi e la trovavano in qualità di camerieri, cuochi e di “famulato” presso grandi famiglie milanesi: nel 1838 si dice, infatti, che fossero 12.000 i domestici nel capoluogo lombardo[47]. Specie dopo il 1816 cuochi, cucinieri, camerieri d’albergo partirono sempre più numerosi dalla Valceresio, il Brinzio, il luinese e valli limitrofe diretti a Milano ed in altre città lombarde e alcuni specie dalla Val Dumentina si spinsero addirittura fino a Parigi, tradizione che continuò nei decenni successivi[48]. Ma il fenomeno interessò ampiamente anche la pianura asciutta come spiegavano le autorità milanesi scrivendo che “la fame e il bisogno di vivere spinse dalla campagna alla città un numero di individui (…) per impiegarsi nelle arti o nel famulato in famiglie delle classi più agiate”. Ad esso si attribuiva principalmente la diminuzione delle nascite registrata negli anni successivi malgrado gli aumenti di matrimoni in tutte le province lombarde[49]. Alcune significative testimonianze degli effetti sociali di questa emigrazione legata al servizio domestico e alla ristorazione riguardano la città di Varese dove negli anni di nostro interesse vennero registrati numerosi casi di serventi e camerieri che partivano dal quartiere di Casbeno. Ma ricordiamo anche la coppia di giovani sposi della parrocchia di Biumo Inferiore che, come molte altre di paesi vicini, erano andati a servizio a Milano e avevano dovuto lasciare a balia il figlioletto “per avere allattamento”. Sappiano, infine, che alcuni come i coniugi Berini di Biumo venivano drammaticamente a sapere della morte del loro figlio Pompeo di soli 17 giorni “i cui genitori sono domestici a Milano”[50].

Il fronte di questi nuovi migranti della pianura asciutta si estendeva però anche al vasto settore degli artigiani e commercianti e di coloro che avendo più inventiva di altri potevano tentare qualche attività in proprio come quei due cugini malnatesi che fin dal Settecento si eran dati ad un’attività tutta particolare: “fondono campane ma perlopiù fuori della terra anzi fuori di stato”. Anche in questo caso si trattava di una emigrazione antica risalente indietro nei secoli quando accanto ai lavoratori dell’edilizia si svilupparono correnti di emigranti dediti all’artigianato e al commercio, calzolai, sarti, fornai, osti, speziali e mercanti di vari provenienza. Ma essa si consolidò decisamente dopo la crisi del 1816 quando prese la strada delle grandi città. Nella prima metà dell’Ottocento non mancarono, infatti, giovani di bottega presso qualche salsamentario, garzoni di fabbri ferrai, marangoni cioè esperti di piccoli lavori in ferro, stampatori di tela e via dicendo che sempre più spesso insieme ai loro familiari videro nei maggiori centri urbani lombardi spazi di occupazione e crescita nei settori più disparati della meccanica, dell’edilizia, della tipografia, della ristorazione, della confezione, degli articoli di lusso e dei lavori di cucito[51]. Di Besozzo, ad esempio, era originario un tale “di condizione mercante di generi di moda” che aveva ricevuto dalle autorità permesso per poter “girare liberamente in tutto il territorio dello stato lombardo”[52]. Da Tradate e dai comuni circostanti invece nel secondo e terzo decennio del secolo si mosse un buon numero di sarti, calzolai, falegnami, fabbri ferrai ma anche di salsamentari, prestinari e caffettieri, vetturali e carrettieri, camerieri e domestici, garzoni di ogni tipo richiamati in città dal proliferare dei servizi commerciali e artigianali per una clientela sempre più raffinata in crescente espansione. Come si può capire si trattava di trasferimenti pressoché definitivi perché spesso l’intero gruppo familiare era coinvolto nella nuova attività urbana. Proprio da Tradate, ad esempio, nel 1858 partì per Milano un’intera famiglia, quella dei coniugi Rimoldi, macellaio lui cucitrice lei, che riuscirono ben presto a trovare lavoro a entrambi i loro figli, uno come fabbro l’altra come cucitrice. Ma non mancarono casi di negozianti di altri paesi del distretto di Tradate trasferitisi con i loro familiari  a Milano, Torino, Monza, Brescia o in paesi delle “province venete”[53]. Anche tale emigrazione infine produsse i medesimi problemi che si sono riscontrati nelle valli, a partire dalla renitenza al servizio militare e al pagamento delle imposte, problemi che si moltiplicarono a partire dagli anni quaranta con il progressivo aumento dell’emigrazione in “esteri paesi”[54].

  1. Verso “oltremontane regioni”. I legami familiari

Come si è visto nei primi decenni dell’Ottocento l’emigrazione dal varesotto era stata ancora in prevalenza stagionale, di soli uomini e indirizzata in buona parte a stati della penisola. E tale rimase perlopiù fino all’Unità. Tuttavia non mancarono già prima gli spostamenti all’estero al di là delle Alpi secondo un’antica tradizione venuta a consolidarsi anch’essa negli anni e ad assumere nuovi aspetti. Nel 1833, ad esempio, come si è già accennato il Rebuschini ci informava che la Francia era il punto di riferimento di fumisti e spazzacamini provenienti dal distretto di Maccagno, i quali costituirono talora grosse associazioni di mestiere e fondarono ditte rinomate a Parigi. Il fenomeno si intensificò col tempo e riguardò estese zone del varesotto dalle valli alla pianura. Ne sono prova le richieste di passaporti cumulativi da parte di molti migranti che volevano intraprendere a loro piacere viaggi secondo le opportunità di lavoro sia all’interno del regno ‒ Lombardia e Veneto ‒ che in altre località italiane con significative estensioni a zone estere di nuovo interesse professionale: tra queste la Svizzera ‒ dove si recavano tra l’altro parecchi vetturali e fabbri ferrai di Tradate ‒ o la Francia dove, spiegava Antonio Bottinelli di Viggiù che tradizionalmente andava a lavorar in Piemonte e nello stato pontificio, si “estendevano (…) ora le incombenze di (sua) professione”. E la Svizzera italiana si accostò sempre più decisamente alla meta tradizionale del Piemonte pure per alcuni fabbri ferrai provenienti dal territorio intorno a Varese[55].

Ma la nuova emigrazione all’estero comprendeva soprattutto le due tipologie occupazionali tipiche di quella tradizionale e su brevi distanze entro i confini della penisola: lavoratori dell’edilizia da una parte e giornalieri, vale a dire manodopera rurale, dall’altra. Muratori e scalpellini della Valceresio si recavano soprattutto in Svizzera. Quelli di Bisuschio in particolare potevano agevolmente prendere la strada del vicino confine di Porto Ceresio per raggiungere Lugano, Bellinzona o Locarno, dove già all’inizio degli anni trenta “sgraziatamente trovò la morte” più d’un emigrante “per oggetto di sua professione di muratore”. Anche un sempre maggior numero di scalpellini, stuccatori e tagliapietra di Viggiù abbandonarono ben presto gli antichi percorsi del Piemonte o della Lombardia per recarsi in “regioni oltremontane” dalla Svizzera interna sia francese che tedesca ‒ Briga, Ginevra, Zurigo, Berna – alla Francia [56]. Lo stesso può dirsi anche per i muratori di Cuasso al Monte e di Cuasso al Piano e per i marmorini di Clivio i quali preferivano le zone della Savoia e del Lionese vale a dire i dipartimenti delle Alpes Maritimes e dell’Isère a sud-est del paese, dove andavano a piedi secondo il cronista Molinari[57]. La regione dell’Isère e altre località della Francia meridionale, come Saint Marcelin a nord-ovest di Lione o Chantelle nei pressi di Grenoble, erano tra le mete preferite di muratori e manovali di Marchirolo, Cunardo e Viconago, uno dei quali morì proprio “strada facendo per Grenoble in Francia (…) poco distante da Torino”. E tra i migranti non mancavano in qualche caso  le donne che si andavano a impiegare in qualità di domestiche[58].

Anche dalla Valcuvia, dalla Valtravaglia e dalle valli del luinese abbiamo raccolto prove di partenze per la Svizzera: quelle ad esempio di alcuni carbonari di Monteviasco e di Agra o muratori di Mesenzana sicuramente al seguito dell’architetto Paciochi “domiciliato per sua professione in stato elvetico”. Sappiamo poi, ad esempio, di un tale di Brissago Valtravaglia morto sotto una valanga di neve sul Gottardo da dove transitava “per restituirsi in patria” dalla Svizzera. Ma anche questi valligiani guardavano alla Savoia e ai dipartimenti meridionali francesi dove si guadagnavano il vitto e il soldo” come muratore o “per l’esercizio della sua professione di pittore” cioè imbianchino. Spesso vi trovavano anch’essi la morte come un tale che a Saint Remy nel 1855 “nella costruzione d’una chiesa essendo caduta la volta restò sotto quelle rovine”[59]. L’emigrazione transalpina infine riguardò anche i lavoratori della pianura come i canepari di Cavaria e di Premezzo o i contadini di Tradate che dagli anni quaranta in poi cominciarono ad abbandonare la tradizionale meta dei loro spostamenti, la bassa Lombardia e il Piemonte, per recarsi sempre più spesso anch’essi al di là delle Alpi a “travagliare della loro professione”[60].

A partire dagli anni trenta alle mete tradizionali della migrazione all’estero si unì quella verso l’Ungheria e l’Austria, dalla Boemia e Moravia alla Stiria, Carinzia, Tirolo, Slovenia e poi Vienna. Non era neppure questa una meta del tutto nuova. Già in precedenza, infatti, in area germanica eran stati attive squadre di stuccatori di Porto Ceresio che lavoravano nelle corti principesche del Sacro Romano Impero ma ora il fenomeno assumeva dimensioni e caratteri diversi  in quanto si legava sia ad una certa urbanizzazione e ad un aumento della popolazione urbana sia della costruzione della rete viaria e ferroviaria[61]. Proprio tra il 1830 e il 1850, infatti, furono messi a punto in Francia e Germania cinquanta chilometri di binari. Insieme agli sviluppi dei lavori stradali sui valichi alpini la cosa richiamò in un modo o nell’altro sempre più forza lavoro anche dall’Italia dove peraltro si facevano sentire gli effetti di una forte crisi economica. Così scrivevano, infatti, le autorità del tempo: “Dopo il 1848 e specialmente dopo il 1851 quando la crittogama delle viti e la atrofia nei bachi da seta e l’aumento delle imposte (…) impoverirono i contadini quasi di più gli agiati, (…) si ebbe una vistosa emigrazione, però quasi sempre occasionale sia per lavorare la terra come per servire da manovale o tagliapietre sulle strade ferrate della Germania”. Quelli che non trovavano lavoro erano costretti a tornare a casa ma altri facevano fortuna e tra questi “dominava l’abitudine di ritornare e d’impiegarla in proprietà stabili nel proprio paese natio, fosse pure ubicato infelicemente”. Queste parole significative facevano riferimento all’uso anche nelle nostre valli di fare della terra un oggetto di scambio e una preziosa garanzia ipotecaria per ottenere prestiti da chi aveva accumulato denaro[62].

Quanto alla provenienza, i migranti che partivano per l’est europeo “per occuparsi dei lavori ferrati” arrivavano in qualche caso dalle terre intorno a Varese, Luvinate, Cocquio Trevisago, Malnate[63]. Ma essi arrivavano soprattutto dalle valli e in particolare dalla Valceresio: tra i primi a valicare le Alpi per la Moravia c’era stato, infatti, un tale di Induno che aveva portato il figlio con sé ed entrambi si erano “impiegati presso queste costruzioni della strada ferrata”. Ne partirono poi numerosi negli anni quaranta da Cantello, Clivio, Saltrio, Induno Olona, ma soprattutto da Bisuschio e da Arcisate da dove ci fu chi dalla Moravia si spinse poi al nord in località dell’attuale Polonia o a sud-est in Moldavia (Romania) o, in Ungheria, a Szob sede della centrale della strada ferrata a pochi chilometri a nord di Budapest. Alcuni erano al servizio di vere e proprie imprese come la Baraggi o di impresari come il Ronchetti entrambi di Bisuschio, che operavano rispettivamente in Galizia e in Polonia. Degno d’attenzione è pure un’altra società formatasi in Polonia tra Alessandro Bianchi e Marcello Calcagni, anch’essi di Bisuschio, che nel 1860 assunsero a Varsavia l’appalto per la costruzione di un ponte in pietra. Nell’impresa furono coinvolti imprenditori di Bisuschio che reclutarono e pagarono a loro volta il viaggio agli operai[64]. Questi spostamenti interessarono poi progressivamente anche le altre valli e da tutte fu dato un ugual tributo di termini di vite umane. Abbiamo raccolto testimonianze significative dalla Valmarchirolo, da Cunardo, da Viconago, da Brusimpiano dove sempre più spesso a partire dagli anni quaranta si piansero “lavoratori sulla strada ferrata” deceduti lontano da casa in Austria, Ungheria, Boemia, Moravia, Slovenia e sepolti qua e là nei vari cimiteri dei poveri di Presburgo (oggi Bratislava in Cecoslovacchia), Marburgo (oggi Maribor in Slovenia), Lubiana e altre località della bassa Austria[65].

Non mancarono da ultimo alcune sporadiche partenze anche per la Russia in linea con la tradizione settecentesca che aveva portato capomastri e artigiani a migrare a san Pietroburgo per la costruzione della città[66]. Quel che è certo è che nel più vasto mercato occupazionale i nuovi migranti avevano modo di passare con una certa facilità da un lavoro a un altro e di diversificare la propria opera secondo le necessità[67]. Il caso più clamoroso in tal senso fu indubbiamente quello di Giuseppe Soldini di Bisuschio: “Dimorò a Grenopoli in Francia suo circondario per due anni in qualità di muratore, nella città di Milano per altre due campagne, in altri paesi di Lombardia e nel Piemonte alquante altre mesate, in vari anni quale contadino e manuale alcun tempo alle opere stradali e per alcune campagne alle strade del San Gottardo e di Melide in Svizzera qual manuale e contadino”; e veniamo a sapere che “dall’anno 1823 a tutto l’anno 1833 (…) passò alquanti mesi ai lavori stradali e rurali nel Canton Ticino”[68]. Nel caso del Soldini sappiamo che egli tornava senz’altro a casa in modo saltuario per riabbracciare i suoi cari rimasti a Bisuschio. Ma non sempre era così. Francia, Svizzera interna, Austria erano indubbiamente mete lontane e chi partiva spesso trasformava il suo insediamento da transitorio in definitivo. La maggior frequenza dei nuovi tragitti “oltremontani” contribuì a modificare il volto della tradizionale emigrazione di mestiere, aggiungendo problemi nuovi a quelli antichi, problemi di carattere soprattutto morale e umano legati alle disgregazioni di interi nuclei familiari. Taluni migranti, infatti, si trasferivano all’estero con donne del loro paese, si integravano poi a pieno titolo nelle nuove comunità dove vedevano poi nascere e crescere i loro figli e i figli dei loro figli e scrivevano a casa solo per avere qualche documento anagrafico[69]. Altri invece, una volta appresa la lingua, facevano addirittura perdere ogni traccia di sé, si fidanzavano e si sposavano lontano dal paese natale rendendo ancor più definitivo anche da questo punto di vista il distacco dalla madrepatria[70]. “Maregnani Isaia del comune di Brinzio si trasferì in Moravia per lavoro fino dal gennaio 1845 abbandonando i genitori, la moglie e due figlie: più non fece ritorno in patria né diresse alla propria famiglia il benché menomo sussidio”. E non era solo questo il caso di chi “lasciava moglie e figli privi di ogni mezzo di sussistenza e notizie”[71].

  1. Le nuove mete extraeuropee

Già negli anni trenta, insieme a Francia, Svizzera, Germania, Inghilterra, Russia e Norvegia, l’America divenne una meta frequente per alcuni migranti del lago di Como secondo il Rebuschini. Di lì a poco nel 1846 il Lanzani vi aggiungeva l’Egitto e insisteva anch’egli sulle Americhe dove alcuni migranti già sarebbero andati “ad esercitarvi arte o commercio”[72]. A partire dagli anni quaranta aumentarono, infatti, anche dal varesotto le partenze per l’Africa settentrionale, la Tunisia, l’Egitto ma soprattutto l’Algeria, neo colonia francese. Qualcuno di Viggiù si recò al Cairo in Egitto, qualche altro di Bedero Valcuvia a Tunisi, ma la maggior parte dei lavoratori delle valli si diresse ad Algeri o nelle località più grandi e famose della costa e dell’immediato retroterra algerino come Bona (oggi Annaba) e Costantina d’Algeri ove negli anni quaranta e cinquanta si ritrovano molti muratori e manovali della Valceresio, del luinese, della Valcuvia e della Valmarchirolo da Mesenzana a Viconago, Duno, Vergobbio, Cuvio, Cuveglio, Cavona[73]. Ricordiamo in particolare Giacomo Buzzi Leone scultore di Viggiù denominato “Maometto” perché tra 1819 e 1823 soggiornò e lavorò ad Alessandria d’Egitto e al Cairo dove fece venire una squadra di operai e manovali dal suo paese d’origine. Ma migranti provenienti un po’ da tuto il varesotto erano sparsi sulla costa africana ovunque ci fosse offerta di lavoro[74]. Anche i contadini del piano asciutto, ad esempio, specie della zona di più antica tradizione migratoria come Gornate Olona, videro a un certo punto nell’Africa la vera occasione della loro vita, un salto qualitativo per arricchirsi[75].

Non mancarono poi varie partenze per l’Australia mentre si intensificarono quelle per l’America, specie meridionale, preludio del grande esodo postunitario il quale nella seconda metà dell’Ottocento si propagò “come un contagio, dando origine ad un’emigrazione su vasta scala, un’emigrazione di intere famiglie e pressoché definitiva”[76]. Tra le cause di questa autentica “febbre d’emigrazione” si ponevano nuove leggi di coscrizione, l’aggravio delle imposte e la “fallanza degl’importantissimi raccolti dell’uva e dei bozzoli” che a più riprese, come già si è detto, dagli anni cinquanta rovinò proprietari, fittavoli e contadini. Si trattava di una emigrazione non specializzata legata alla difficile congiuntura economica. Anche dal varesotto, infatti, molti migravano “quasi senza sapere a quale professione si sarebbero dedicati”: era stato indubbiamente così per un tale di Tradate, falegname andato a Montevideo nel 1856, per un pizzicagnolo di Induno Olona caduto e morto in mare a New York nel 1851 mentre cercava di tornare a bordo del naviglio che lo aveva trasportato fin lì da Londra, o infine per un muratore di Porto Ceresio che si trovava a Washington city nel 1854[77]. Sono solo tre casi tra i tanti ma che sembrano assai significativi. Da Porto Valtravaglia infine negli anni cinquanta partirono cinque lavoranti in vetri che non trovavano più lavoro in paese, già sede di famose fabbriche di cristalli. Ma nello stesso periodo emigrarono oltre oceano anche dal piano e dall’alto milanese “a lavorare di sua professione di contadino” come un giovane di appena tredici anni di Fagnano Olona che voleva partire per l’America e il cui zio si impegnava con la madre, grazie a quei contratti di affidamento di cui si è detto, a tutelarlo “come se fosse suo proprio figlio tanto nel tragitto come in ogni altra evenienza del caso”[78]. Queste nuove partenze oltre oceaniche erano destinate come è noto a moltiplicarsi dopo l’unità. Basti pensare alla grande emigrazione degli scalpellini della Valceresio nel Vermont degli anni ottanta dovuta alla crisi delle costruzioni in pietra e all’avvento del calcestruzzo: con esse gli spostamenti divennero definitivi come provano le lapidi del cimitero di Barre che portano incisi tanti cognomi viggiutesi[79]. Mutava così decisamente volto l’emigrazione stagionale e di mestiere e su più brevi distanze che anche nel varesotto aveva rappresentato uno strumento di conservazione e salvaguardia del sistema economico, uno strumento cioè che aveva permesso tutto sommato di mantenerlo malgrado le sue deficienze senza mai sconvolgerlo a fondo.


[1]           Legenda: A.P.= archivio parrocchiale; A.C.= archivio comunale. Rimando tra l’altro a Mobilità imprenditoriale e del lavoro nelle Alpi in età moderna e contemporanea, a cura di Giovanni Luigi Fontana, Andrea Leonardi e Luigi Trezzi, Milano, Cuesp, 1998, pp. 75-116; La montagna mediterranea: una fabbrica d’uomini? Mobilità e migrazioni in una prospettiva comparata (secoli XV-XX), a cura di Dionigi Albera, Paola Corti, Atti del convegno (Cuneo, 8-10 ottobre 1998), Cavallermaggiore, Gribaudo, 2000; Donne e lavoro. Prospettive per una storia delle montagne europee XVIII-XX secc., a cura di Nelly Valsangiacomo e Luigi Lorenzetti, Atti del convegno internazionale (Mendrisio 11-13 settembre 2008), Milano, Franco Angeli, 2010. Vedi ancora Raoul Merzario, Il paese stretto. Strategie matrimoniali nella diocesi di Como, secoli XVI-XVIII, Torino, Einaudi, 1981; Luigi Lorenzetti e Raul Merzario, Il fuoco acceso. Famiglie e migrazioni alpine nell’Italia d’età moderna, Roma, Donzelli, 2005. Ma sull’organizzazione sociale legata all’economia delle migrazioni cfr. anche Raoul Merzario, Adamocrazia. Famiglie di emigranti in una regione alpina (Svizzera italiana, XVIII secolo), Bologna, il Mulino, 2000.

[2]           Vedi rispettivamente per le citazioni nell’ordine: R. Merzario, Il paese stretto, cit.; Marina Cavallera, Un “motore immobile”. Emigrazioni maschili di mestieri e ruolo della donna nella montagna lombarda dell’età moderna, in Donne e lavoro, cit., p. 31; Pier Paolo Viazzo, Comunità alpine. Ambiente, popolazione, struttura sociale nelle Alpi dal XVI secolo ad oggi, Bologna, il Mulino, 1990.

[3]           La montagna è stata considerata a lungo quel “mondo rozzo (dove) ogni cosa ha il carattere di arcaismo e di insufficienza”, dal quale bisognava “sciamare”, di cui aveva parlato a suo tempo Braudel. Oltre a Fernand Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo Il, trad. it. Torino, Einaudi, 1953, I, pp. 15-16 e p. 39, vedi dunque le considerazioni di P.P Viazzo, Comunità alpine, cit., e Il modello alpino dieci anni dopo: oltre il revisionismo, in La montagna mediterranea, cit., pp 31-46; M. Cavallera, Imprenditori e maestranze: aspetti della mobilità nell’area prealpina del Verbano durante il secolo XVIII, in Mobilità imprenditoriale, cit., pp. 75-116; Ead., Terra e tradizione: quando il lavoro diventa arte, in La natività di Angelo Maineri, a cura dell’Associazione amici del Sacro Monte di Varese, Varese 1999; Ead., Imprenditorialità e strutture cetuali nel versante italiano delle Alpi in età moderna, in La montagna mediterranea, cit., pp. 71-92.

[4]           R. Merzario, Adamocrazia, cit., p. 23.

[5]           Melchiorre Gioia, Discussione economica sul dipartimento del Lario (Milano 1804), Lugano, presso G. Ruggia e C., 1837, p. 29. ll distretto di Varese ‒ uno dei quattro del dipartimento nel 1801 insieme a Como, Lecco e Sondrio ‒ comprendeva in quella data anche i comuni del cantone di Appiano, oggi in gran parte comaschi. Successivamente nel 1805 i cantoni del distretto di Varese rimasero otto: Varese, Tradate, Angera, Gavirate, Cuvio, Viggiù, Maccagno superiore e Luino. Vi erano esclusi invece tutti i comuni dell’alto milanese vale a dire dei distretti di Gallarate, di Saronno, di Busto Arsizio, di Somma Lombardo che come è noto, fecero parte della provincia di Milano fino al 1927 quando fu costituita quella di Varese, dove furono inseriti. Si fa notare che nel presente lavoro si è tenuto conto per quanto è stato possibile degli attuali confini della provincia stessa.

[6]           Ivana Pederzani, Varese “villa di delizia”. Rinnovamento e sviluppo (1760-1861), Varese, Macchione, 2019.

[7]           Per lo sviluppo manifatturiero della zona tra Sette e Ottocento cfr. Pietro Macchione, Una provincia industriale. Miti e storia dello sviluppo economico tra Varesotto e Alto Milanese. I. Dal XVIII secolo alla prima guerra mondiale, Varese, Lativa, 1989, nonché Carlo Castiglioni, Storia fisica e politica della città di Varese e terre adiacenti, Varese, Tip. Giuseppe Rainoldi, 1837, pp. 20-21.

[8]           Come una povera contadina di Fagnano Olona colta da morte “sulla strada di Milano andando all’ospedale”. Cfr. A. P. Olona, Registro dei morti, anno 1820. Oltre a Inchiesta statistica, 1807, in Archivio di Stato, Milano (d’ora in poi ASMi), Studi, p. m., cart. 1160 vedi Cenni statistici sull’agricoltura della provincia di Como, Milano, 1833 (nota anche come Inchiesta Rebuschini), in ASMi, Studi, p. m., cart. 1139. Statistica agraria delle provincie lombarde. 1833, in particolare f. 18 v. e a integrazione di questi dati la successiva Inchiesta del 1839 in Agricoltura e condizioni di vita dei lavoratori agricoli lombardi: 1835-1839, inchiesta di K. Czoering, a cura di Luigi Faccini, Milano, Editrice bibliografica, 1986, pp. 467 ss. Per le citazioni cfr. R. Merzario, Il capitalismo nelle montagne. Strategie familiari nella prima fase di industrializzazione nel comasco, Bologna, il Mulino, 1989, p. 19.

[9]           “Paesi di pochi frutti” ma anche “troppo gravati di carichi” erano quasi tutti quelli della Valceresio, della Valtravaglia e della Valcuvia. Così in molte delle Risposte ai 45 quesiti in ASMi, Catasto, cartt. 3035 ss.

[10]          “Nella parte montuosa di questa provincia formante pressoché un terzo della totale popolazione una quantità di maschi dall’ adolescenza alla vecchiaia è assente per oggetti di mestieri (…) alcuni rimpatriano unicamente nell’inverno e molti comunque ammogliati non sono reduci se non dopo il corso di più anni” rilevavano già nel 1816 le autorità asburgiche. Osservazioni della Regia Delegazione Provinciale di Como allegate a Movimenti della popolazione nella provincia di Como, Como 30 luglio 1816, in ASMi, Popolazione, p. m., cart. 46. Per la testimonianza del 1833 cfr. Cenni statistici, cit., f. 18 v.

[11]          La citazione è riferita al 1817 quando gli abitanti della Valcuvia scrivevano che “circa milleduecento (…) esce annualmente da queste comuni per recarsi a guadagnar dalla loro mano d’opera o alla capitale od altrove”. Petizione per la bonifica della palude di Careggio. 1817, in Archivio di Stato, Como (d’ora in poi ASCo), Prefettura, cart. 1219. Per l’altra nel titolo del paragrafo si rimanda a Risposte ai 45 quesiti. Ferrera, in ASMi, Catasto, cart. 3037, distretto di Cuvio.

[12]          Oltre a M. Cavallera, L’emigrazione nel secolo XVIII: terre lombarde dell’arco alpino, vedi Pierangelo Frigerio, Beppe Galli e Antonio Trapletti, Le valli varesine e l’emigrazione delle maestranze d’arte, entrambi in Emigrazione e territorio: tra bisogno e ideale, Atti del convegno internazionale (Varese 18-20 maggio 1994), a cura di Carlo Brusa e Robertino Ghiringhelli, Varese, Lativa, 1995, II, rispettivamente pp. 13-74 e pp. 157-208 e da ultimo Francesco Parnisari, “Absente dalla patria e fuori di questo dominio di Milano”. Movimenti migratori dalle valli varesine in età moderna, in Lombardia ed Europa. Incroci di storia e cultura, a cura di Danilo Zardin, Milano, Vita e Pensiero, 2014, pp. 219-235.

[13]          “Chi far il muratore, chi far l’oste secondo vengano da Dio illuminati” e “secondo la loro abilità” avevano rilevato fin dal Settecento i cancellieri delle comunità, Vedi in particolare Risposte ai 45 quesiti, 1751. Dumenza, in ASMi, Catasto, cart. 3038, distretto di Maccagno. Ma cfr. anche F. Parnisari, “Absente dalla patria…”, cit., p. 225.

[14]          Ne è prova il fatto che nel registro dei morti di Dumenza erano molti quelli che risultavano nativi proprio di diversi paesi della Liguria. Cfr. A. P. Dumenza, Registro dei morti, anni 1816-1860. Per Agra, oltre alla specifica notizia di “molti osti in terre del regno” in Inchiesta statistica 1807, cit., distretto VII di Maccagno, cfr. A. P. Agra, Registro dei morti, anni 1816, 1836, 1838, 1840, 1848, 1854, 1855 ma vedi anche M. Cavallera, Imprenditori e maestranze, cit., pp. 89-90.

[15]          Petizione di Pietro Mai alla Deputazione Comunale del Brinzio, Brinzio 31 luglio 1846, in A. C. Brinzio, cart. 34. Pubblica Sicurezza, fasc. l. Atti di Polizia. Notizie numerose sull’industria tessile a domicilio nelle valli in Inchiesta statistica 1807, cit., per la Valcuvia in particolare e i canepari di Orino cfr. distretto V di Cuvio.

[16]          Oltre a nota 4 vedi Raffaello Ceschi, Artigiani migranti della Svizzera italiana (sec. XVI-XVIII), “Itinera”, 14 (1993), pp. 21-31; Patrizia Audenino, La mobilità artigianale nelle alpi italiane, in Mobilità imprenditoriale, cit., pp. 93 -108; Dionigi Albera, Cultura della mobilità e mobilità della cultura, in Studi sull’emigrazione, a cura di Rosaria Ostuni, Milano, Electa, 1991, pp. 367- 377.

[17]          Cristina Casero, Viggiù terra di scultori. Enrico Butti e altre personalità di rilievo nella seconda metà dell’Ottocento, in Storia dell’arte a Varese e nel suo territorio, II, Varese Insubria University Press, 2011; per la citazione cfr. Antonio Piatti, Viggiù terra d’artisti, Milano, L. Alfieri, 1942, p. 9, ma vedi anche Francesco Caravatti, Viggiù nella storia e nell’arte, Varese, Arti grafiche varesine, 1925, pp. 96 ss. Cfr. poi Memoriale Molinari, Clivio, s.a., p. 86.

[18]          Già al tempo dell’Inchiesta del 1807 quelli di Cuasso andavano nel regno di Francia e quelli di Brenta in Valcuvia “parte nel regno e parte a Zurigo”. Cfr. Inchiesta statistica 1807, in particolare distretto VI di Viggiù e distretto V di Cuvio.

[19]          Memoriale Molinari, cit., pp.76 e 81-82. Per i dati nel testo cfr. A. P. Cuasso al Piano, Registro dei morti, anni 1817, 1847, 1856; A. P. Bisuschio, Registro dei morti, anni 1827, 1835, 1844; A. P. Clivio, Registro dei morti, anni 1821, 1832, 1834; A. P. Viggiù. Registro dei morti, anni 1823, 1826, 1831 e poi 1832, 1855; A. P. Arcisate, Registro dei morti, anni 1829, 1834; A. P. Induno Olona, Registro dei morti, anni 1825, 1834, 1841, 1856, 1858, 1859.

[20]          Savoiardi nel basso Rodano, catalani vicino a Barcellona, perfino corsi in maremma toscana. Cfr. F. Braudel, Civiltà e Imperi, cit., pp. 32-33.

[21]          A. P. Luino, Registro dei morti, anni 1817, 1818, 1826, 1828, 1834, 1835, 1851, 1854; A. P. Mesenzana, Registro dei morti, anni 1834, 1835, 1849; A. P. Brissago, Registro dei morti, anno 1817; A. P. Castelveccana, Registro dei morti, anno 1821 ma vedi anche; A. P. Porto Valtravaglia, Registro dei morti, anno 1837.

[22]          A. P. Bedero Valcuvia, Registro dei morti, anni 1839, 1853, 1854, 1856; A. P. Cavona, Registro dei morti. anni 1804, 1821-1826-1833-1847; A. P. Castel Cabiaglio, Registro dei morti, anni 1841, 1843, 1852; A. P. Cuvio e Cuveglio (con Vergobbio, Azzio, Duno), Registro dei morti, anni 1825, 1841, 1845, 1848, 1853, 1855.

[23]          A. P. Viconago, Registro dei morti, anni 1829, 1830, 1832, 1834, 1850, 1856; A. P. Marchirolo, Registro dei morti, anni 1818, 1819, 1822; A. P. Cunardo, Registro dei morti, anni 1838, 1843, 1853, 1856, 1857; A. P. Dumenza, Registro dei morti, anni 1832, 1834, 1843, 1850; A. P. Maccagno superiore, Registro dei morti, anni 1856, 1860; A. P. Armio, Registro dei morti, anni 1826, 1830, 1842, 1855; A. P. Biegno, Registro dei morti, anni 1818, 1832, 1842; A. P. Lozzo (Val Veddasca), Registro dei morti, anni 1832, 1836, 1840.

[24]          A. P. Cuvio e Cuveglio (con Vergobbio, Azzio, Duno), Registro dei morti, anni 1825, 1830 e poi 1843, 1845; A. P. Clivio, Registro dei morti, anni 1854, 1857; A. P. Bisuschio, Registro dei morti, anno 1826; A.P. Viggiù, Registro dei morti, anni 1843, 1849, 1855; A. P. Arcisate, Registro dei morti, anni 1835, 1847. Per Bosco Valtravaglia cfr. Inchiesta statistica 1807, cit., distretto V di Cuvio.

[25]          “La maggior parte degli scalpellini e marmorini di Clivio facevano la strada da Clivio a Barlasina a piedi e quelli facoltosi arrivati qui, prendevano un somarelo per farsi trasportare a Milano”. In svariate località di valle esistevano già diligenze e altre vetture di trasporto quale la diligenza della posta svizzera che dal Gottardo giungeva a Milano ma ciononostante “gli operai che in quell’epoca andavano pel mondo guadagnarsi il vito facevano la strada a piedi”. Cfr. Memoriale Molinari, cit., pp. 107-109.

[26]          “Più di trecento maschi dal comune di Bisuschio emigrano annualmente a quegli esercizi per nove o dieci mesi ogni anno, per loro ordinario recapito tengono alloggio in città recandosi di tempo in tempo a casa per la diretta e facile comunicazione colla loro famiglia” scrivevano le autorità comunali nel 1833. La Deputazione Comunale di Bisuschio all’Imperial Regio Commissario Distrettuale di Arcisate, Bisuschio 18 dicembre 1833, in A. C. Bisuschio, cart. 18.

[27]          Carteggio, in fascicolo Convenienza a proibire o no ai garzoni operai delle province lombarde di recarsi negli stati esteri ad apprendere od esercitare diversi mestieri, in ASMi, Commercio, p. m., cart. 177. Circa il loro alloggio sappiamo che molti di Dumenza dormivano a Milano presso l’albergo della Madonna del Monte nella parrocchia del Carmine. Cfr. A. P. Dumenza, Registro dei morti, anni 1837-1856.

[28]          Cfr. tra l’altro il caso di Abbondio Molinari andato a Milano all’età di 12 anni e padre di Michelangelo futuro estensore del famoso Memoriale che sarebbe a sua volta divenuto marmorino. Memoriale Molinari, cit. p. 70. Per la scuola di disegno di Viggiù cfr. F. Caravatti, Viggiù, cit., p. 141. Vedi poi per il Pozzi A. P. Cuvio e Cuveglio (con Vergobbio, Azzio, Duno), Registro dei morti, anno 1822.

[29]          Risposte ai 45 quesiti, 1751. Dumenza, cit. Per il ragazzo del Brinzio morto ad appena tredici anni a Bergamo, dove alloggiava presso lo zio, perché “cadde da una loggia dall’altezza di tre metri” cfr. A. P. Brinzio, Registro dei morti, anno 1827.

[30]          Nel 1821 la deputazione comunale di. Bisuschio denunciò che “tutti i coscritti si diedero alla fuga”. Si veda La Deputazione Comunale di Bisuschio all’Imperial Regio Commissario Distrettuale di Arcisate, Bisuschio 15 marzo 1821, in A. C. Bisuschio, cart. 28. Ma vedi anche La Congregazione Municipale della Regia Città di Milano all’Imperial Regio Commissario Distrettuale di Arcisate, Milano 20 luglio 1831, in A. C. Induno Olona, cart. 30. Militari e liste di leva.

[31]          Si trattava di Carlo De Rocchi, la cui madre aveva pensato “di accasarsi all’estero col detto suo figlio requisito”. La donna fu poi arrestata e successivamente discolpata. Sul caso cfr. Relazione della Deputazione Comunale, Bisuschio 13 marzo 1821, in A. C. Bisuschio, cart. 28.

[32]          Cfr. l’ampia documentazione in A. C. Bisuschio, cart. 28 in particolare La Deputazione Comunale di Bisuschio all’Imperial Regio Commissario Distrettuale di Arcisate, Bisuschio 3 marzo 1831.

[33]          Prospetto delle arti e manifatture esistenti nel cantone VII distretto di Varese prima del 1796 con quelle esistenti attualmente, Como 24 novembre 1805 e per la citazione Relazione del Prefetto di Como, Como 5 dicembre 1804, entrambi in ASCo, Prefettura, cart. 919. Vedi poi sullo stesso punto R. Merzario, Il capitalismo nelle montagne, cit., p. 114.

[34]          R. Merzario, Bestie a due gambe. Le donne nelle valli insubriche, in Pater familias, a cura di Angiolina Arru, Roma, Biblink, 2002, pp. 123-136. Cfr. le testimonianze relative a Monteviasco in A. P. Monteviasco, Registro dei morti, anni 1816-1860.

[35]          M. Cavallera, Un “motore immobile”, cit., pp. 26-67 e quivi in particolare il caso di Porto Valtravaglia p. 42. Ma vedi anche R. Merzario, Adamocrazia, cit., pp. 19 ss.

[36]          Cfr. per Varese Elenco degli assenti illegalmente inviato dalla Congregazione Municipale all’lmperial Regio Commissario Distrettuale di Varese, Varese 21 marzo 1853, in A. C. Varese, XIII, cart. l e poi rispettivamente A. P. Barasso, Registro dei morti, anni 1840, 1851; A. P. Gazzada, Registro dei morti, anni 1828, 1856; A. P. Daverio, Registro dei morti, anno 1848; A. P. Gavirate, Registro dei morti, anno 1855; A. P. Comabbio, Registro dei morti, anni 1819, 1849, 1854; A. P. Angera, Registro dei morti, anni 1833, 1835, 1859; A. P. Gornate Olona, Registro dei morti, anno 1842; A. P. Venegono Superiore, Registro dei morti, anni 1833, 1855; A. P. Vedano Olona, Registro dei morti, anni 1833, 1847, 1855; A. P. Morazzone, Registro dei morti, anni 1817, 1825, 1831, 1836, 1840, 1841, 1842, 1857.

[37]          Per Comerio cfr. La Deputazione Comunale al Regio Cancelliere Censuario di Gavirate, Comerio 24 aprile 1828, in A. C. Comerio, cart. 33. Militari e liste leva. 1815-1830; per Morazzone cfr. L’Imperial Comando di coscrizione in Como all’Imperial Regio Commissario Distrettuale di Tradate, Como 24 ottobre 1838, in A. C. Morazzone, cart. 13. Ma vedi anche A. P. Morazzone, Registro dei morti, anni 1825, 1841.

[38]          Oltre alle Risposte ai 45 quesiti, 1751. Malnate, in ASMi, Catasto, cart. 3035, distretto di Varese, per le notizie sull’ Ottocento cfr. sia A. P. Malnate, Registro dei morti, anni 1832, 1835, 1846, 1849, 1853, 1855, sia l’ampia documentazione relativa al pagamento della tassa personale in A. C. Malnate, cart. 33. Finanza.

[39]          Attestato controfirmato da sei suolini e dalla stessa Deputazione Comunale, Malnate 9 febbraio 1836, in A. C. Malnate, cart. 33. Finanza. Per un tale Croci studente a Brera cfr. Attestato di frequenza rilasciato dall’ lmperial Regia Accademia delle Belle Arti di Brera, Milano 3 marzo 1846, in A. C. Malnate, cart. 34. Finanza.

[40]          Grizzetti Pietro alla Deputazione Comunale di Malnate, Malnate 27 dicembre 1844 e Attestato di iscrizione nel ruolo personale “come abitanti da un anno in questa cura” rilasciato dal parroco di San Simpliciano per i tre fratelli De Angeli, Milano 5 dicembre 1844, tutto in A. C. Malnate, cart. 33. Finanza.

[41]          Sulla risicoltura e il lavoro dei giornalieri cfr. tra l’altro L. Faccini, L’economia risicola lombarda dagli inizi del XVIII secolo all’Unità, Milano, SugarCo, 1976, e I lavoratori della risaia tra 700 e 800. Condizioni di vita, alimentazione, malattie, “Studi storici”, XV (1974), 3, pp. 146 ss.

[42]          Per la testimonianza nel testo cfr. M. Gioia, Discussione economica, cit., p. 33. Si veda poi per la citazione Osservazioni della Regia Delegazione Provinciale di Milano, cit.

[43]          Si vedano le richieste di passaporti a partire dal 1830 in A. C. Cavaria, XXI, cart. 20. Atti di pubblica sicurezza. Cfr. poi per quanto detto nel testo La Deputazione Comunale all’Imperial Regio Commissario Distrettuale, Angera 30 giugno 1857, in A. C. Angera, cart. 171; A. P. Angera, Registro dei morti, anno 1847; A. P. Gavirate, Registro dei morti, anni 1824, 1841, 1850, 1852; A.P. Gornate, Registro dei morti, anno 1841; A. P. Castelseprio, Registro dei morti, anno 1831.

[44]          “I lavori agricoli sono tutti eseguiti da persone abitanti nel distretto, una parte anzi di essi in alcun tempo dell’anno si reca fuori stato per la tribiatura dei frumenti, pel raccolto del riso e per la lavoratura della canapa”, coltivazione diffusa “in piccole partite” nei distretti di Somma Lombardo e di Busto Arsizio, sia soprattutto in quello di Gallarate dove “nei terreni forti si semina in qualche parte la canapa”. Quesiti sull’agricoltura distretto XlII di Gallarate, in Agricoltura e condizioni di vita, cit., pp. 569, 578 e 549.

[45]          “Arrivò dal basso il sabato sera, ve fu a tagliar risi, la domenica mattina venne in messa, subito dopo si mise a letto e munito della confessione comunione e oli santi, morì in prima sera del giorno stesso” annotava il parroco di Comabbio nel 1855 di un suo parrocchiano. A. P. Comabbio, Registro dei morti, anno 1855.

[46]          L’Imperial Regia Delegazione Provinciale di Como all’Imperial Regio Commissario Distrettuale di Varese, Como 30 ottobre 1850, in A. C. Malnate, cart. 46. Militari e liste di leva. Per la prima citazione nel testo cfr. Osservazioni della Regia Delegazione provinciale di Milano, cit.

[47]          Franco Della Peruta, Il tramonto di un regno: il Lombardo-Veneto dalla Restaurazione al Risorgimento (1814-1859), Milano Cassa di risparmio delle province lombarde 1988, p. 29.

[48]          La Commissione di Leva della città di Milano all’Imperial Regio Commissario Distrettuale di Arcisate, Milano 15 luglio 1829, in A. C. Induno Olona, cart. 30. Militari e liste di leva e A. P. Luino, Registro dei morti, anno 1841. Inoltre vedi La Deputazione Comunale al Deputato Politico di Brinzio, Brinzio 5 giugno 1851, in A. C. Brinzio, cart. 34. Sicurezza Pubblica, fasc. 1. Atti di Polizia.

[49]          Rapporto intorno al movimento di popolazione, 1817-1818, spedito dall’Ufficio di Polizia alla Commissione aulica di Vienna, Milano 30 giugno 1820, in ASMi, Popolazione, p. m., cart. 46.

[50]          Cfr. rispettivamente A. P. Varese (parrocchia di Casbeno), Registro dei morti, anno 1826. e A. P. Varese (parrocchia di Biumo Inferiore), Registro dei morti, anno 1828. Vedi anche i numerosi casi di “figli di servitore” e “figli di inservienti” morti in tenera età negli anni venti a Morazzone, in A. P. Morazzone, Registro dei morti, anni 1816 ss.

[51]          Non fu un caso che la moglie di un affittuario di Bodio Lomnago a pochi chilometri da Varese, rimasta vedova del marito nel 1842 con cinque figli a carico, di cui il più grande di quindici anni e il più piccolo di due, decidesse si trasferirsi proprio in Milano “per colà darvi qualche professione”: ella riuscì a occuparne uno, il maggiore, come giovane di studio e le femmine una come sarta e l’altra come ricamatrice. Cfr. La Deputazione Comunale di Bodio all’Imperial Regio Commissario Distrettuale di Varese, Bodio Lomnago 30 luglio 1845, in A. C. Bodio, XXI, cart. 9. Pubblica Sicurezza. Anni 1826-1892. Provvedimenti vari di polizia. Per la prima citazione nel testo vedi Risposte ai 45 quesiti, Malnate, in ASMi, Catasto, cart. 3035, distretto di Varese ma cfr. anche A. P. Malnate, Registro dei morti, anni 1832, 1835, 1846, 1849, 1853, 1855.

[52]          Cfr. Carta di iscrizione nell’anagrafe della Regia Città di Milano, rilasciata dal podestà, Milano 6 dicembre 1854, in A. C. Brinzio, cart. 34. Pubblica Sicurezza, fasc. 4. Atti di polizia.

[53]          Elenco dei garzoni e operai esistenti in questo comune di Tradate, s. a. (ma successiva al 1836), in A. C. Tradate, cart. 18, fasc. 27; per il caso Rimoldi cfr. La Deputazione Comunale di Tradate all’Imperial Regio Commissario Distrettuale di Tradate, Tradate 12 novembre 1858, in A. C. Tradate, cart. 18, fasc. 32; vedi inoltre A. P. Venegono Inferiore, Registro dei morti, anno 1853. Ma cfr. anche il caso riportato alla nota 51.

[54]          Attestati di domicilio prodotti dai parroci delle rispettive contrade per ottenere nel borgo d’origine l’esenzione dalla tassa personale, in A.C. Gallarate, XI, cart. 97, Finanza. 1841-1846.

[55]          Vedi vari casi riportati in Assenti illegalmente dal 1848 a tutto il 1857, in A. C. Varese, XIII, cart. 1. Cfr. poi le richieste di passaporti in A. C. Tradate, cart. 17. Sicurezza Pubblica, fasc. 24. Disposizioni su emigrati e cart. 18, fasc.33 nonché A. C. Bodio Lomnago, XXI. cart. 9. Pubblica Sicurezza, Anni 18261892. Sul Rebuschini cfr. Cenni statistici, cit., p. 19 v.

[56]          A. P. Bisuschio, Registro dei morti, anni 1829, 1831. Per Viggiù cfr. Stati di famiglia, 1811-1857; Riassunto generale della popolazione rilevato colla fin e dell’’anno 1847 e valevole pel Ruolo della tassa personale dell’anno 1848 ma anche Elenco degli individui assenti illegalmente, 1850 inviato dalla Deputazione Comunale di Viggiù all’Imperial Regio Commissario Distrettuale di Arcisate, Viggiù 26 aprile 1850, tutto in A. C. Viggiù, XXI rispettivamente cartt. 81-28-70-89.

[57]          “In quei tempi tutti andavano a piedi ed a Lione in Francia feci conoscenza con dei cuassini stucatori gli quali mi assicuravano che (…) andavano da Cuasso a Lione in dodici giorni e da Cuasso a Parigi in ventitré giorni e facevano tutte le strade a piedi”. Cfr. Memoriale Molinari, cit., p. 107 ma cfr. anche A. C. Cuasso al Monte, XII, cart. 27. Anni 1845- 1879, fasc. Passaporti per l’estero; A. P. Cuasso al Monte, Registro dei morti, anni 1838-1842; A. P. Cuasso al Piano, Registro dei morti, anni 1824, 1831, 1837, 1838, 1839, 1843, 1846, 1847, 1854; A. P. Clivio, Registro dei morti, anni 1821, 1832, 1834.

[58]          Così una tale Marianna Righetti di Viconago. Oltre a A. P. Viconago, Registro dei morti, anno 1832 ma anche anni 1835, 1842, 1843 cfr. A. P. Marchirolo, Registro dei morti, anni 1837-1841-1852-1862-1863; A. P. Cunardo, Registro dei morti, anni 1842, 1843, 1846.

[59]          Oltre a A. P. Monteviasco, Registro dei morti, anni 1848-1864; A. P. Agra, Registro dei morti, anno 1836; A.P. Mesenzana, Registro dei morti, anno 1844; A. P. Brissago Valtravaglia, Registro dei morti, anno 1858 vedi A. P. Cassano Valcuvia, Registro dei morti, anni 1823, 1842, 1844 e anche per la citazione nel testo A. P. Cuvio e Cuveglio (con Vergobbio, Azzio e Duno), Registro dei morti, anni 1850, 1855, 1858.

[60]          Più di un contadino di Tradate cominciò a chiedere regolare passaporto per la Svizzera oltre che per il Piemonte e ciò “per un anno e per sua professione” e in qualche caso emigrarono anche le donne, come la contadina di Venegono Superiore morta in Croazia nel 1858. Vedi dunque A.P. Venegono Superiore, Registro dei morti, anno 1858. Cfr. poi Elenco di individui di Premezzo che chiedono passaporti per l’estero per travaliare della loro professione di canapa, Premezzo 14 agosto 1850, in A. C. Cavaria, XXI, cart. 20. Richieste di passaporto; per Tradate vedi A. C. Tradate, XXI, cart. 18, fasc. 33.

[61]          F. Parnisari, “Absente dalla patria…”, cit., pp.226 ss.

[62]          Si rimanda per le citazioni nel testo a L’Imperial Regio Commissario Distrettuale di Varese alla Sottoprefettura di Varese, Varese 26 agosto 1870, in A. C. Varese, XIII, cart. 1. Vedi infine per il cenno al prestito L. Lorenzetti, R. Merzario, Il fuoco acceso, cit., pp. 85 ss.

[63]          Cfr. rispettivamente La Deputazione Comunale di Luvinate all’Imperial Regio Commissario Distrettuale di Varese, Luvinate 31 maggio 1846; La Commissione distrettu1ale di Varese alla Deputazione Comunale di Malnate, Varese 10 gennaio 1857 e la Petizione di Stefano Bernasconi all’Imperial Regio Commissario Distrettuale di Varese, Malnate, 1846, rispettivamente in A. C. Luvinate, cart. 15. Liste di leva e in A. C. Malnate, cart. 46. Militari. Vedi poi A. P. Malnate, Registro dei morti, anno 1848. Per Cocquio Trevisago cfr. A. P. Cocquio, Registro dei morti, anni 1845. Per Varese cfr. A. P. Varese (parrocchia di Casbeno), Registro dei morti, anno 1844.

[64]          A. C. Bisuschio, cart. 7. Per le notizie su imprese e impresari ferroviari si veda la documentazione in A. C. Bisuschio, cart. 34. Per il Brinzio cfr. le richieste di passaporto per l’Austria in A. C. Brinzio, cart. 34. Pubblica Sicurezza, fasc. 1. Atti di Polizia.

[65]          “Sepolto nel cimitero presso la strada ferrata sulla quale lavorava” scriveva il parroco di Viconago di un suo parrocchiano morto nel 1855 in Austria e rimasto colà a riposare in eterno. A. P. Viconago, Registro dei morti, anno 1855 ma vedi pure anni 1846, 1847, 1848. Cfr. poi A. P. Marchirolo, Registro dei morti, anni 1843, 1845, 1846, 1852, 1853, 1855; A. P. Cunardo, Registro dei morti, anni 1845, 1850; A. P. Brusimpiano, Registro dei morti, anno 1844.

[66]          Già nel 1823 era partito per la Russia un tale di Varese “sarto da donna” e nel 1828 era andato a Odessa un altro sempre di Varese che “ridotto all’estrema miseria” si era lasciato convincere a partire da due cognati che si trovavano già là. Cfr. Nota delle persone che emigrarono da questo stato e di quelle provenienti da stati esteri che si stabilirono in Varese. La Congregazione Municipale di Varese all’Imperial Regio Commissario Distrettuale di Varese, Varese 9 dicembre 1828, in A. C. Varese, XIII, cart. 1.

[67]          “Nelli ultimi tempi scriveva il Casnati ‒ si videro anche levarsi di qui de grossi contingenti di cottimisti e di braccianti che attesero nelle varie parti d’Italia od oltralpe alle ferrovie e alle strade e costruzioni pubbliche”. Cfr. Giovanni Casnati, Memorie sulla emigrazione dei contadini e sulle condizioni sociali delle nostre campagne, Como, Ostinelli, 1868, p. 4.

[68]          La Deputazione Comunale di Bisuschio all’ Imperial Regio Commissario Distrettuale di Arcisate, Bisuschio 28 luglio 1846, in A. C. Bisuschio, cart. 34.

[69]          La Deputazione Comunale all’ Imperial Regio Commissario Distrettuale di Arcisate, Bisuschio 22 giugno 1837, in A. C. Bisuschio, cart. 28. Si veda poi la documentazione in A. C. Bisuschio, cart. 34.

[70]          Così Bianchi Rodolfo, scalpellino di Bisuschio al servizio dell’impresa Baraggi per la costruzione di strade ferrate in Galizia. Taluni facevano del matrimonio un mezzo di avanzamento sociale come Francesco Gandolla, tagliapietre proveniente da Bisuschio che sposò la figlia di un mercante di granaglie della Boemia. Cfr. documentazione in A. C. Bisuschio, cart. 34.

[71]          Cfr. ad esempio il caso di Pietro Mai tessitore di tela di Brinzio in L’Imperial Regio Commissario Distrettuale di Cuvio all’ Imperial Regia Delegazione Provinciale in Como, Cuvio 6 giugno 1853, ma vedi pure per il caso citato nel testo La Deputazione Comunale di Brinzio all’lmperial Regia Delegazione Provinciale di Como, Brinzio 10 luglio 1852, tutto in A. C. Brinzio, cart. 34. Sicurezza pubblica, fasc.1. Atti di Polizia.

[72]          Cenni statistici, cit., f. 19 v. e per la citazione Estore Lanzani, Manuale geografico, statistico, commercia/e della provincia di Como, Como, Ostinelli, 1846, p. 149.

[73]          A. P. Viggiù, Registro dei morti, anno 1819; A. P. Bedero Valcuvia, Registro dei morti, anno 1862; A. P. Mesenzana, Registro dei morti, anni 1845, 1849; A. P. Viconago, Registro dei morti, anno 1843; A. P. Cuvio e Cuveglio (con Vergobbio, Azzio e Duno), Registro dei morti, anni 1849, 1850, 1853, 1858; A. P. Cavona, Registro dei morti, anni 1847, 1857.

[74]          Pasetti Donato tagliapietra di Induno, ad esempio, era stato ingaggiato ad Aumale in Algeria “per la costruzione di un molino”; di Cunardo ve n’erano a Guelma “per l’esercizio della sua professione”; altri di Castel Cabiaglio si trovavano a Nemours (oggi Ghazaouet) al confine col Marocco ma ancora in stato algerino “impero francese”; altri ancora di Cuvio erano a lavorare a Romans, altri di Bisuschio a Orleansville (attuale El Asman) e alcuni di Viconago a Blida a sud di Algeri. Cfr. A. P. Induno Olona, Registro dei morti, anno 1850; A. P. Cunardo, Registro dei morti, 1850, 1859; A. P. Castel Cabiaglio, Registro dei morti, anni 1854, 1855; A. P. Cuvio e Cuveglio (con Vergobbio, Azzio, Duno), Registro dei morti, anno 1858; A. P. Bisuschio, Registro dei morti, anni 1849, 1850, 1853; A. P. Viconago, Registro dei morti, anni 1843, 1849. Vedi infine sul Buzzi nominato nel testo A. Piatti, Viggiù terra d’artisti, cit., p 55.

[75]          Così per il Castiglioni originario appunto di Gornate ma domiciliato dal 1837 a Tradate e trasferitosi giovanissimo a Milano quale caffettiere e pasticcere il quale era poi andato in giro per il mondo, raggiungendo Bellinzona, Roma e infine Algeri. Cfr. Relazione della Deputazione Comunale di Tradate al Cancelliere Distrettuale di1 Tradate, Tradate 19 ottobre 1853, in A. C. Tradate, cart. 17, fasc. 24.

[76]          In Australia a Sidney si era recato il marito di certa Margherita Comolli di Porto Valtravaglia la quale, perse le di lui tracce, si era rivolta ma invano alle autorità milanesi per effettuare opportune ricerche. Il Governatore di Milano all’Imperial Regia Intendenza Provinciale di Como, Milano 29 novembre 1859, in A. C. Porto Valtravaglia, cart. 33.

[77]          Nel periodo precedente “pochi s’avventurarono al viaggio per l’America (e) il successo fu in genere favorevole giacché non fu infrequente il caso di più o meno vistose spedizioni di danaro e di eredità”. G. Casnati, Memorie sull’emigrazione, cit., pp. 4-5. Infine per i casi citati nel testo cfr. la richiesta di passaporto di Bernecchi Luigi in data 6 novembre 1856 in A. C. Tradate. XXI, cart. 18, fasc. 29 e A. P. Induno Olona, Registro dei morti, anno 1851. Per il muratore di Porto Ceresio vedi A. C. Porto, Registro dei morti, anno 1854.

[78]          La Deputazione Comunale di Porto all’Imperial Regio Commissario Distrettuale di Luino, Porto Valtravaglia 10 febbraio 1859, in A. C. Porto Valtravaglia, cart. 33. Cfr. poi le richieste di passaporti per l’America in A. C. Tradate, cart. 18 fasc. 32 nonché quelle tra 1858 e 1861 viste insieme al caso riportato nel testo in A. C. Fagnano Olona XXI, cart. 62. Sicurezza pubblica.

[79]          Daniela Carlini, L’emigrazione da un’area nord orientale del circondario di Varese: la Val Ceresio, in Emigrazione e territorio, II, cit., pp. 141 ss.