Nel vasto e in parte nuovo mercato degli usi pubblici della storia l’emigrazione sembra avere assunto, in questi ultimi anni, un ruolo proprio e contraddittoriamente originale.
Intesa come “emigrazione italiana” e circoscritta, per lo più, all’ambito cronologico dei secoli XIX e XX, essa, quale fenomeno eminentemente economico e sociale, oltreché demografico, insiste su quell’arco di tempo che in modo disinvolto ed onnicomprensivo siamo soliti definire evo contemporaneo. Agli occhi di molti, tuttavia, presenta un indubitabile vantaggio su tanti altri fatti coevi e, spesso, interdipendenti (le grandi crisi agrarie ed occupazionali, le guerre mondiali, il fascismo, l’antifascismo ecc.): non suscita, infatti, e nemmeno pare possa evocare, di per sé, controversie insanabili o contese d’ordine ideologico troppo gravi e laceranti. Una volta accolto lo schema deprecatorio postumo che ne contraddistingue l’interiorizzazione più corrente e accettato senza eccessivi sforzi il compianto pietista delle sofferenze (altrui) e dei sacrifici di milioni di donne e di uomini (“nostri”), espatriati per calcolo o per bisogno, ma annessi in forma molto sbrigativa e disinvolta al patrimonio nazionale tanto nelle sue visioni più conflittuali (lotta di classe, scontro fra paesi ricchi e paesi proletari ecc.) quanto in quelle più fatalistiche e relativamente accomodanti (emigrazione come destino, come “mestiere” ecc.), l’esodo secolare e soprattutto la diaspora delle discendenze che ne conseguì si offrono, insieme, a una facile riscoperta. Ed è proprio tale riscoperta che trascende oggi i confini della curiosità scientifica e rimbalza festosa e persino orgogliosa sull’attualità dolente delle moderne migrazioni dirette in Italia fornendo alibi paradossali, armi taglienti e strumenti formidabili di polemica spicciola soprattutto a coloro che se ne vogliano servire o li vogliano spendere, con un pizzico di cinismo, sul più duttile terreno politico e identitario.
In alcune regioni, magari abbinato a fumose competenze rispetto alla regolamentazione dell’ordine pubblico, il governo dei flussi migratori convive addirittura negli assessorati, come intitolazione, con la tutela appunto dell’identità territoriale ovvero delle identità campanilistiche e municipali che, nel caso, se non confliggono, certo contrastano alquanto con quella “italiana”.
La dimensione locale, nondimeno, e regionale in subordine, risulta prevalere pour cause nel gioco sottile delle commemorazioni apertosi a far data da quando, intorno ai primi anni settanta del novecento, il saldo emigratorio cominciò ad essere, in Italia, positivo. Prima di allora pensare all’emigrazione come a un fatto costitutivo della realtà nazionale rappresentava solo un rovello emblematizzato dai ritardi o meglio dalle esitazioni e dalle incertezze, al riguardo, della cultura e, in essa, della storiografia del nostro paese. Si tratta di un dettaglio addebitato più volte da chi scrive e da pochi altri1 anche al perdurare, fra noi, d’una singolare schizofrenia che ha sempre permesso di parlare, magari con cognizione di causa e con relativa passione, di emigranti e di emigrati italiani all’estero senza farli quasi mai comparire nelle grandi ricostruzioni e nelle visioni coreografiche del passato, fuori dal particolare recinto in cui essi erano stati relegati e dal quale era stato loro consentito di uscire tutt’al più in veste di emissari del genio lavorativo italico, dell’espansionismo demografico della “stirpe” o, nella migliore delle ipotesi, di vittime sacrificali immolate, volenti o nolenti, sull’altare impervio dello sviluppo e della modernizzazione.
D’una simile circostanza risente senz’altro la parabola delle riappropriazioni simboliche di un fenomeno che da processo storico e, a tratti, da evento carico di risonanze e di conseguenze davvero capitali sull’evoluzione nel suo insieme dell’Italia contemporanea, è diventato oggetto di rappresentazioni pubbliche sino a reclamare, per sé, l’allestimento di iniziative e di strutture in grado di ricapitolarne ed esibirne tappe e caratteri fondamentali, per lo più, tuttavia, a livello locale2.
In un tale percorso che necessariamente e correttamente si dischiude solo all’indomani della conclusione di un ciclo più che secolare di esperienze patite e vissute, va inserita, a mio avviso, la riflessione sulla fattibilità dei musei dell’emigrazione italiana la latitanza di un cui “alto” esempio a livello nazionale viene periodicamente lamentata, in Italia, da più parti risultando convalidata dal ciclico infrangersi d’ogni tentativo compiuto per ovviarvi da dieci anni in qua tanto a Genova quanto a Napoli. In queste due città portuali che sarebbero dovute diventare sede d’un qualcosa in grado di avvicinarsi non dico a Ellis Island, ma quanto meno ai musei aperti nelle hospedarias e negli “ostelli” dell’immigrazione sudamericana di San Paolo e di Buenos Aires3, nessuno infatti ha mai posto seriamente mano a un vero progetto e se pure lo si stesse elaborando, come qua e là sembra succedere a volte4, nulla d’incoraggiante trapela al riguardo e soprattutto nulla fa credere che vi si possano conseguire, in tempi brevi, risultati soddisfacenti.
Tra essi, sotto il profilo espositivo e museale, spicca, come faceva notare Marco Rossi Doria5, anche un’esigenza che va ben al di là di quelle istituzionalmente connesse ai compiti dei luoghi classici di raccolta e di esibizione dei materiali etnografici6: la necessità, cioè, di far fronte alla perdita progressiva della memoria di un passato comune e razionalmente decifrabile. Il venir meno del ricordo così “pubblico” come ormai anche popolare d’una pratica di vita e di lavoro spesa all’estero attraverso diverse tappe o scansioni (l’urgenza del bisogno, il calcolo individuale, le strategie familiari, i viaggi e gli insediamenti, gli investimenti e i risparmi, i “trapianti” e i rimpatri ecc.) risulta tuttavia contenuto e contrastato ove si guardi a quella dimensione locale sopra già richiamata al cui livello si pongono, e non da ora, le più interessanti prove di realizzazione di mostre ed esposizioni da cui prende le mosse il presente intervento. In molta sintesi, esso si propone peraltro di storicizzare solo le fasi principali di un discorso sull’emigrazione spesso ambiguo ed umbratile, ma svolto comunque già in pubblico quale comincia a prospettarsi in Italia già verso la fine del secolo XIX a sufficiente distanza dal debutto, nel nostro paese, dei movimenti migratori di massa distinti dalle correnti tradizionali di espatrio più tipiche delle società di vecchio regime. L’annosità di queste migrazioni, frontaliere, stagionali, periodiche ecc., specie dalla montagna e da tutto l’arco alpino, non va certo trascurata né dimenticata non foss’altro perché se ne ritroveranno ampie tracce nelle sistemazioni e nelle esibizioni più e meno occasionali della seconda metà del novecento anche se la loro importanza, poi, non va nemmeno ingigantita o scambiata, ma semmai ad essi giustapposta, con gli esiti degli spostamenti più massicci di popolazione verificatisi in Italia a partire dagli anni settanta del secolo XIX in forma temporanea verso mete continentali europee7.
I primi segni di un desiderio, confuso se non diffuso, di meditare sulle conseguenze di queste emigrazioni di stampo dunque inedito e massime di quelle, fra esse, che avevano preso a dirigersi in modo regolare oltreoceano, si colgono nell’anno del IV Centenario colombiano, il 1892, a Genova dove una intera sezione della Mostra della Scoperta − l’“Esposizione Italo-americana” − è dedicata, in forma molto tentativa8, alle gesta degli italiani postisi, di tempo in tempo, sulle tracce del grande navigatore.
Il tema dell’emigrazione, declinato già qui come “lavoro italiano” all’estero e assente ancora nella grandi esposizioni di Firenze (1861) o di Torino (1884)9, fa una sua timida comparsa, di nuovo nella ex capitale subalpina del Regno, nell’annus mirabilis (e horribilis) della crisi di fine secolo, il 1898, più che nei padiglioni dell’Esposizione Generale allora inauguratavi, tra gli spazi intelligentemente dati da gestire agli allievi di Salvatore Cognetti de Martiis e del suo Laboratorio di Economia Politica attivo presso l’università torinese10.
Economisti in erba, ma tutti di grande avvenire (Geisser, Jannaccone, Sella, Cabiati, Prato, Bachi, Graziadei ecc.), pongono mano a una suggestiva ricerca che viene presentata e offerta alla platea mobile dei visitatori attraverso il linguaggio un po’ ostico e comunque obbligato della loro disciplina. La stessa che un giovane Einaudi, segretario fra l’altro del concomitante convegno su “Gli italiani all’estero. Emigrazione – commerci – colonie” provvede a edulcorare nei propri resoconti giornalistici per “La Stampa”11.
I visitatori possono così ammirare uno “stereogramma raffigurante il movimento dell’emigrazione italiana dal 1876 al 1896”, alcuni diagrammi lineari sul movimento dell’emigrazione italiana in USA, Argentina e Brasile durante la seconda metà dell’ottocento e una carta indicativa della presenza dei lavoratori italiani in ben 26 città straniere. Gli echi sui giornali d’informazione e sulle riviste del tempo non si fanno attendere, anche se talora il commento si manifesta, nei toni e per le motivazioni, non troppo dissimile dai topoi della “polemica sull’emigrazione” quale da decenni si veniva svolgendo un po’ in tutto il paese12. Novità, tuttavia, ve ne sono e se ne renderà di nuovo interprete Einaudi che di lì trarrà spunto, com’è noto, per redigere il suo primo importante studio, quello sul “Principe mercante” e “sulla espansione coloniale italiana” stimolato dall’esperienza torinese, dal posto che vi avevano preso i suoi colleghi e soprattutto dai contributi offerti all’Esposizione dal Comitato della Camera Italiana di Commercio ed Arti di Buenos Aires con un libro destinato a far epoca. Nel volume edito appunto nel 1898 dalla Compañia Sud-Americana de Billetes de Banco, che senza essere come spesso poi succederà un mero “catalogo”, riassume le ragioni dell’impegno espositivo degli immigrati e dei loro figli fissatisi nell’America australe, è Ausonio Franzoni a raccontare, per la Camera, gli antefatti d’una partecipazione rivelatasi poi ben più ampia e più incisiva del previsto nel solco della piccola tradizione che aveva avuto proprio in Argentina i suoi più sintomatici precedenti (ovvero le due esposizioni “industriali” italiane promosse nel 1881 e nel 1886 a Buenos Aires dalla dinamica Società di Mutuo Soccorso “Unione Operai Italiani”, nei locali della prima delle quali, chiusa la mostra, avrebbe aperto i battenti, ironia ma anche profezia del destino, il nuovo Asilo dell’Immigrazione porteño!):
La Colonia nostra, sempre in comunione di speranze e di intenti con la Patria, all’invito, al desiderio della valorosa città di Torino, risponde con quest’opera che, secondo il concetto originale, aveva ad essere (sic) una mostra di disegni rappresentanti le sue industrie, i suoi opifici alla Esposizione. Ma per nuove considerazioni la idea primitiva andò modificandosi di mano in mano….13.
Per un lungo corso di anni queste forme d’interazione tra l’Italia di dentro e l’“Italia fuori d’Italia” all’insegna di un credo lavorista e positivista tipico del tempo o, meglio, d’un tempo che vedeva ancora gemmare e fiorire, dall’emigrazione, grandi collettività etniche all’estero, massime in ambito urbano (anche se non sarebbe da dimenticare, nel fatidico 1911 di cui diremo appresso, un significativo documento fotografico sui contesti rurali “coloniali”, edito allora a Torino quale Album paulista delle proprietà agricole appartenenti agli italiani nello Stato di San Paolo – Brasile)14, si trovarono alla base delle principali iniziative di esibizione d’una realtà che comunque scaturiva dall’espatrio e dalla diaspora degli emigranti anche se ne taceva o ne sottodimensionava i problemi nel caso, non infrequente, che non fosse loro arriso un sicuro successo economico come pretendeva, esplicitamente, nel 1906 la fondamentale Esposizione degli Italiani all’estero di Milano15, preludio di altre minori collegate ai due congressi, per così dire “di categoria”, del 1908 e del 1911.
These congresses – nota Mark Choate riferendosi all’attività dell’Istituto Coloniale Italiano che li aveva promossi – became forums not only for heralding successes, but for complaining about insufficient support and the insormontable obstacles facing emigrant colonies. The Exhibitions of Italians Abroad did, however, play an important role in creating a national “Italian” identity and image for those who remained at home. The other sections of Italian national expositions inevitably highlighted certain industries and regions, reinforcing the regional divisions and rivalries which had bedeviled the peninsula’s history. The work of Italians Abroad, however, usually could be not traced back to a particular region; emigration was truly a national project. Outside of Italy, writers and observers could observe the special characteristics and achievements of the Italian “stock”, in competition with all other “races”, according to the pseudo-scientific concepts so dear to the late nineteenth century16.
Nella esaltazione delle virtù espansive dell’“Italia all’estero”, già l’Esposizione milanese del 1906 assumeva come veicolo più rappresentativo e visivamente efficace, la panoplia, indubbiamente impressionante, delle riviste e dei giornali in lingua italiana esistenti o esistiti fuori dai confini nazionali, il cui numero e, più di rado, la cui qualità sembravano poter segnalare, dall’età del Risorgimento in poi, l’estrema vitalità, anche linguistico culturale, del fenomeno da cui essi in gran parte traevano origine e spunto anche se poi, abbastanza giustamente, e precedendo in ciò le acide osservazioni prossime venture di Prezzolini, a collegarne l’attività e le funzioni all’operato (e agli interessi) poco apprezzabili e meno ancora raccomandabili dei loro più frequenti editori di riferimento, ossia i vari “prominenti” e notabili delle nostre “colonie”, sarebbe stato proprio un esponente di spicco del nazionalismo nascente come Luigi Villari il quale, in contrasto palese con Giovanni Preziosi e con molti altri compagni di cordata, confidava al padre Pasquale le sue molte e fondate perplessità al riguardo17.
In pubblico, e a maggior ragione “in mostra”, esse non erano destinate tuttavia a trapelare più di tanto né a far breccia su un’opinione pubblica borghese entusiasmata di lì a poco dallo scoppio della Guerra di Libia che tanto avvinse, per quel che se ne sa, anche la curiosità partecipe di molti emigrati ed emigranti in un clima di crescente adesione alle ideologie stricto sensu coloniali dell’Italia liberale.
Conseguentemente, quasi alla vigilia della prima guerra mondiale, la mostra celebrativa del cinquantenario dell’unità, spartitasi fra Roma e Torino, avrebbe potuto al massimo e soltanto confermare lo schema espositivo meglio noto legandolo per fili neanche tanto sottili alle mire oramai scoperte dell’espansionismo demografico e commerciale venute in auge in Italia per impulso del pensiero nazionalista. Anche nel 1911, infatti, l’emigrazione, che stava allora toccando picchi d’intensità mai più superati per l’avvenire, fece così la sua comparsa “in mostra”, e con l’ausilio per giunta di sussidi iconografici e cinematografici non del tutto imprevedibili in quella che era all’epoca la capitale del “muto”, Torino, ma anche in una maniera che potremmo definire scontata nella capitale del Regno, dove tuttavia contemplò l’inserimento d’integrazioni “demologiche” che sembrano per il nostro punto di vista di un certo interesse. Nel novero delle innumerevoli iniziative scientifiche e culturali che ebbero luogo a Roma in occasione della Esposizione Internazionale di quell’anno, si tenne infatti anche il Primo Congresso di Etnografia italiana18 di cui fu promotore, fra gli altri, quel Francesco Baldasseroni cui si deve uno dei primi contributi sulla praticabilità di un’idea sufficientemente rappresentativa degli “usi e <dei> costumi dei nostri emigranti” e dei loro figli e discendenti. Cartaceo e libresco fin che si vuole, non meno di quello contemporaneamente realizzato per una celebre trilogia dei Lincei, da Francesco Coletti, l’intervento del Baldasseroni nondimeno suggellava per un verso la stagione delle mostre dominate dai concetti del progresso scientifico industriale di stampo ottocentesco, in cui avevano trovato posto solo gli “accenni” all’operosità virtuosa degli emigranti intesi come self-made-men, e per un altro si apriva a prospettive di riflessione più moderne. Esse erano in parte riprese da Amy Allemand Bernardy con un’analisi dei risvolti antropologico culturali del fenomeno immigratorio nelle Little Italies d’America, fatto oggetto quindi di nuove attenzioni e reso finalmente passibile di una trattazione capace di divulgarne la conoscenza, in tale prospettiva, a pubblici tendenzialmente sempre più larghi.
Le esposizioni susseguitesi sin lì dalla metà dell’ottocento, infatti, avevano come dato “asilo” agli emigranti solo in veste di outsiders industriali anche perché si rivolgevano quasi spontaneamente a una platea composta “da specialisti e da imprenditori, ma soprattutto dal ceto medio e operaio” urbano19, senza mai porsi il problema del pieno inserimento dell’emigrazione, prevalentemente contadina o comunque d’estrazione rurale, nelle dinamiche, oltreché economiche, anche culturali e sociali, del paese di partenza. Ma questo fatto, col venir meno o col modificarsi dopo il primo conflitto mondiale, sia dei flussi migratori più consistenti e sia delle tecniche (e delle finalità) espositive delle mostre campionarie, celebrative, commerciali ecc., non lasciò subito il posto a un genere diverso di “presenza in pubblico” dell’emigrazione “descritta e ricordata”, per un cumulo di ragioni che oggi riesce abbastanza facile elencare. In primo luogo perché, seppure indebolito e intralciato dalla chiusura degli sbocchi emigratori, l’esodo proseguiva solo in direzione della Francia (e più tardi degli “agri” o del Reich nazista), poi perché la politica internazionale di Mussolini e le direttive impartite dai Fasci Italiani all’estero mai avrebbero tollerato, avendone dissolta l’effigie, di occuparsi in chiave critica e riflessiva di quella che veniva ancora percepita, vergognosamente, come una emorragia demografica da tamponare e da minimizzare nei suoi effetti snazionalizzatori, e infine perché in luogo delle celebrazioni positivistiche, le rassegne sull’operosità dei connazionali emigrati sarebbero state ben presto sostituite dal regime col facile elogio del “Genio italiano nel mondo” cui in effetti si potevano dedicare preziose collane di libri e magari argomentati convegni, ma ben poche mostre e, anche quelle, con la debita attenzione ai risvolti propagandistici di una filosofia di governo tutta imperniata sull’esaltazione dei valori della “stirpe”20. La “Mostra delle Terre d’Oltremare” che nel 1940 finì quasi per coincidere a Napoli con l’entrata in guerra dell’Italia, quale impresa destinata a far parola, in questo senso, dell’emigrazione e dei suoi frutti (all’estero, ma soprattutto nelle colonie di diretto dominio che pure erano già state oggetto di speciali esposizioni21 e che stavano comunque diventando teatro di interessanti casi d’espatrio per motivi di lavoro come bene ha spiegato di recente Nicola Labanca)22, si collocava all’interno di una logica o meglio di una retorica prevaricatrice che nemmeno il passaggio alla fase repubblicana sarebbe riuscita a demistificare e a soppiantare del tutto.
A chiudere infatti un quarantennio di interpretazioni forzosamente sintonizzate sulla lunghezza d’onda della “grandezza” italiana per tramiti emigratori strumentalmente ridimensionati o disinvoltamente fraintesi non bastarono,quasi per intero, le prime due decadi postbelliche quando, del resto, l’emigrazione aveva ripreso slancio e continuava a riprodursi imperterrita e, all’apparenza23, immodificabile.
Nel 1952 toccò a Luigi Einaudi, divenuto presidente della Repubblica, inaugurare a Napoli la “Mostra triennale del Lavoro Italiano nel Mondo”24 negli stessi identici spazi destinati ad ospitare, in contesti profondamente mutati, una iniziativa che sembrò preludere circa mezzo secolo più tardi, ossia ormai nel 199625, alla fondazione di un grande Museo nazionale dell’emigrazione italiana (che infatti, dopo quasi altri dieci anni, stiamo ancora aspettando).
Fra il 1952 e almeno il 1970, intanto, misurando all’ingrosso e salvo eccezioni poco numerose o poco significative, episodi di “messa in mostra” d’una emigrazione tuttora in corso non ve ne furono o non vi furono con il rilievo al quale ci hanno abituati in quasi ogni parte d’Italia le esperienze degli ultimi trentacinque anni.
È in questo arco di tempo, a mio avviso, che vanno ricercate le radici di una tendenza endemica e oggi sempre più diffusa a ripensare, affrontandole in concreto, la storia e la fenomenologia dell’emigrazione italiana attraverso esposizioni e mostre che traguardano al museo. Pare sintomatico, ad esempio, che in uno studio bibliografico recente e assai meticoloso26, quantunque condotto su base regionale piemontese, gli indici tematici segnalino solo a partire dalla fine degli anni settanta una organica presenza di mostre sia su scala locale e provinciale che su scala più ampia. In una sede come questa e per i limiti di spazio a disposizione non è certo il caso di passare ora in rassegna decine e decine, se non centinaia e centinaia, di mostre, magari di lodevole spessore documentario e talora finalizzate anche all’impianto di una qualche sezione “sull’emigrazione” all’interno di Musei preesistenti di solito della civiltà contadina, del lavoro agricolo, degli usi e costumi popolari ecc.27
Bastino quindi alcune sommarie osservazioni a cominciare da quella relativa al prevalere, un poco ovunque, dell’assetto fotografico nelle iniziative di esposizione28 di rado integrate dall’inserimento complementare o aggiuntivo di altri materiali iconografici ovvero da reperti ed oggetti di cultura materiale più e meno riconducibili alle esperienze d’espatrio. Fra le più recenti ne danno conferma ancora, al loro debutto, le prime iniziative gemmate dal neonato Archivio Paolo Cresci per la storia dell’emigrazione italiana con le mostre “documentario figurative” e “storico documentarie” di Barga e Castelnuovo Garfagnana del luglio 2000 su Giovanni Pascoli in Val di Serchio e con l’edizione del catalogo Il perche andiedi in America… tutto intessuto d’immagini dell’emigrazione dalla stessa valle, per le cure di Maria Rosaria Ostuni e d’altri autori, presentato a Lucca nel settembre del 2001 su delega e con il contributo della locale Provincia ossia, come il più delle volte suole accadere, per merito di una pubblica amministrazione.
Vale la pena di sottolineare, ad ogni modo, che a dare impulso a questa ultima vague concorrono soggetti e attori abbastanza diversi fra loro. All’inizio, e penso non per caso a una mostra vicentina su I Veneti in Brasile del 1976 alla cui realizzazione non fui personalmente estraneo, contarono parecchio contatti e stimoli provenienti da lidi geograficamente, ma anche socialmente, politicamente e culturalmente, distanti e distinti29.
La prima spinta, qui, veniva ad esempio dall’America Latina dove un anno prima, ma con un forte coinvolgimento italiano (sia istituzionale che scientifico a livello di CNR e non senza precoci diramazioni localiste), s’erano celebrati i centenari dell’arrivo dei primi immigranti trentini in Santa Catarina (a Rodeio) e di quelli veneti in Rio Grande do Sul (a Caxias do Sul). Mentre le precedenti ricorrenze (del 1950 e del 1925 come ho avuto modo di sottolineare più volte altrove) erano rimaste sostanzialmente senza echi speciali e prive comunque di riscontri da noi, pur avendo assunto, in Brasile, i sembianti della mostra ed anzi della celebrazione solenne con tanto di seguito memoriale, monumentale o museale, questa del 1975 cadeva in un momento propizio ossia in un momento in cui la percezione del definitivo estinguersi del fenomeno emigratorio rendeva ormai possibili e quasi necessarie una presa di coscienza e una partecipazione attiva anche da parte italiana.
Il che, tuttavia, non poteva avvenire fuori da un quadro di relazioni nel quale si potevano già scorgere in movimento interessi e sensibilità di assai differente origine. Fra il 1976 e il 1986, ad esempio, a sollecitare gli attori locali (enti pubblici e biblioteche civiche, scuole elementari ed altri istituti scolastici, accademie e circoli culturali, nuove associazioni fra emigranti ed emigrati) sono visibilmente, nella maggior parte dei casi o nei casi più qualificati, soggetti per così dire forti e assai precisamente motivati. L’attrazione dei modelli offerti o in procinto di esserlo dai grandi musei dell’immigrazione istituendi oltreoceano conta, io credo, in grado relativo. La notorietà di Ellis Island, e il suo restauro, o i rifacimenti degli “Ostelli” degli immigranti di Buenos Aires e di San Paolo del Brasile sono ancora di là da venire e appena se ne accenna nelle riviste specializzate30. Ciò non toglie tuttavia che alla spinta endogena si aggiungano talora stimoli derivanti anche dall’esterno o da strategie più larghe sul terreno delle relazioni culturali internazionali31 che però non vedono brillare più di tanto gli apparati ministeriali, compreso, quello, a rigor di logica più competente, degli Affari Esteri.
Una importante mostra fotografica sugli Italiani negli Stati Uniti (1870-1970) viene realizzata, ad esempio, dal Center for Migration Studies di New York e trasportata nel 1981 a Roma presso l’Istituto dell’Enciclopedia Italiana dove rimane aperta alcuni giorni (dal 30 aprile all’8 maggio) per cura del Cser ossia dell’altro centro scalabriniano che si avvale, come quello nordamericano d’altronde, di esperti appartenenti alla congregazione fondata dal celebre vescovo di Piacenza (Lidio e Silvano Tomasi e Gianfausto Rosoli nel caso). A sostenere lo sforzo degli scalabriniani, di qua e di là dell’oceano, sono sin dall’inizio Marcello Pacini e la Fondazione Giovanni Agnelli di Torino che egli dirige (e ne resterà traccia nella Pictorial History of Italian Americans ossia in Images, un libro fotografico newyorkese del 1981 che precede cronologicamente e anticipa visivamente quello di Allon Schoener su The Italian Americans.. ..per terre assai lontane edito dagli Alinari a Firenze nel 1988).
L’anno successivo la stessa Fondazione vicina alla Fiat allestisce e porta in giro nelle città menzionate dal titolo del catalogo una ulteriore mostra sull’Integrato metropolitano. New York Chicago Torino. Tre volti dell’emigrazione italiana. Ma bisogna attendere il 1983 per assistere all’impianto d’una mostra di pari importanza, qui su L’emigrazione trentina negli Stati Uniti (1870-1939), che abbia dietro di sé in primo luogo enti locali e istituzioni culturali di respiro provinciale o regionale già predisposte al discorso etnografico e museale: il che avviene a Trento, nel Palazzo della Regione tra il 2 e il 12 febbraio per merito del “Museo degli usi e costumi della gente trentina” inventato e diretto a San Michele all’Adige da Giuseppe Sebesta. Un mese prima, a rimarcare la possibilità di iniziative promosse per così dire più “dal basso”, a Cividale del Friuli un gruppo fotografico misto, italiano e sloveno, aderente al Circolo Ivan Trinko, aveva invece documentato per immagini le condizioni de L’emigrante della Valle del Natisone con una resa iconografica di tutto rispetto e molto attenta alla qualità dei lavori svolti dai protagonisti del proprio “racconto”. A un lavoro molto speciale e a una forma peculiare di emigrazione temporanea, il baliatico, si applicavano anche gli esiti d’una ricerca sfociata in mostra a Feltre nel 1984 ad opera di Daniela Canova Perco con il sostegno, collaudato in precedenza per l’esodo montano in Brasile, della locale Comunità Montana (ancora nel 1999 sul lavoro delle balie ritorneranno, guidate da Adriana Dadà, altre ricercatrici di Ponte Buggianese in provincia di Pistoia: come dire dalle Prealpi alla montagna appenninica).
Un’altra Comunità Montana, quella della Lunigiana, e non rimarrà sola neanche questa (penso a Quando in Valceresio si emigrava, 1861-1915 mostra fatta ad Arcisate nel Varesotto a cura di Carlo Brusa nel 1990 ), dividerà con la Filef, un organismo associazionistico sindacale fondato da Carlo Levi, il merito dell’allestimento della mostra già ricordata in nota su cento anni di emigrazione locale aperta presso il Museo Etnografico della Lunigiana nel 1988.
Il 1988 è l’anno in cui approda a Torino, nel prestigioso Museo dell’Automobile, Sapere la strada ossia la mostra sui Percorsi e mestieri dei biellesi nel mondo che a istanza della Banca Sella Peppino Ortoleva e Chiara Ottaviano avevano contribuito a realizzare due anni prima appunto a Biella, quale pegno d’una impresa scandita di lì in avanti da tappe di grande importanza nel campo degli studi e delle attività scientifiche e congressuali sull’emigrazione.
Il 1988, però, va detto, è anche l’anno della Seconda Conferenza Nazionale dell’Emigrazione che a differenza della prima (tenutasi ormai quattordici anni innanzi) produce dirette ricadute espositive e, di nuovo, fotografiche come son quelle che Paola Agosti, coadiuvata da Maria Rosaria Ostuni, dedica proprio allora all’Italia fuori d’Italia. Sempre nel 1988 e sempre per opera di queste due autrici, ma avendo come sponsor stavolta la Regione Piemonte, si segnala uno sforzo ancora più ambizioso e mirato di raccolta d’immagini emigratorie: Dal Piemonte al Rio della Plata. Esso precede se non preannuncia le molte ulteriori iniziative che in ambito piemontese si danno fra il 1989 e i giorni nostri grazie all’impegno di amministrazioni comunali e provinciali come quella di Cuneo (C’era una volta La Merica. Immigrati piemontesi in Argentina, 1990, oppure Dal monte al piano. Tracce di emigranti della provincia di Cuneo, 1991 , la prima con la consulenza scientifica del Cemla di Buenos Aires e di padre Luigi Favero, la seconda con la supervisione di Dionigi Albera). Nel 1989, soprattutto, si comincia poi ad assistere alla più organica e forse meglio preparata e sostenuta delle mostre di tutto il periodo che stiamo considerando ovvero a La terra delle promesse curata da Luciano Tosi e dall’Isuc di Perugia in cui va sottolineata l’alta qualità così della ricerca come della gestione, prima in ambito regionale e quindi all’estero, dell’iniziativa durata infatti in vita per ben cinque anni.
Se pure non manchino molti altri esempi di mostre itineranti (faccio l’esempio di Macaroni e vu’ cumprà Quando a emigrare eravamo noi progettata da chi scrive per l’editore milanese Teti nel 1994 e rimasta in circolazione sino al 2001 per merito di Ada Lonni), questa del Tosi che raggruppava immagini e documenti dell’emigrazione umbra all’estero fra i due secoli XIX e XX, invertiva in un certo senso la corrente degli impulsi e metteva al centro, assai più di quanto non fosse stato fatto in precedenza anche altrove, gli emigranti, le loro famiglie o i loro discendenti ed eredi come “autori” e “contributori” primi dei materiali esibiti e utilizzati. Un metodo e una tecnica, se così si possono chiamare, che vediamo affiorare in filigrana anche in altri contesti come ad esempio quello ligure dove La via delle Americhe, pure del 1989, e Dal Golfo al mondo, questa nel 1993, propongono , rispettivamente per il Genovesato e per La Spezia, degli itinerari espositivi fortemente caratterizzati non più solo dalle fotografie, bensì pure dal recupero e dalla esibizione di oggetti e di reperti concreti della “viva” emigrazione otto e novecentesca.
Conta abbastanza in tale recupero e nell’alternanza di “cose” e immagini, il fatto che fra i curatori vi siano studiosi come Gibelli, Croce, Brichetto ecc. dediti per altri versi, come si sa, all’indagine sulle scritture private (diaristica, autobiografia, memorialistica ecc.) e sulla epistolografia popolare. Una circostanza che ricorda, almeno a me, l’ostinazione con la quale il compianto Gian Paolo Cresci, le cui preziose raccolte sono state poi acquisite, come s’è già accennato, dall’amministrazione provinciale di Lucca, sognava di potere un giorno costruire una mostra tutta contrappuntata dal “basso continuo” delle lettere degli emigrati e delle varie corrispondenze “americane” la cui presenza aumenta peraltro considerevolmente negli esempi della decade 1990 allorché se ne segnalano di veramente interessanti in più sedi. A Bergamo ad esempio (dopo un debutto a Castione della Presolana con Emigranti nell’estate del 1988), Angelo Bendotti ed Eugenia Vultulina mettono insieme i materiali de Il pane degli altri che dal gennaio del 1994 “percorreranno”, su pannelli e gigantografie, varie località della provincia con il sostegno di un altro soggetto sempre più presente in un tal genere di imprese ossia il locale Istituto per la storia della Resistenza (anche a Borgosesia era stato nel 1989 l’Istituto storico della Resistenza della Provincia di Vercelli in collaborazione con una Società di Cultura locale a promuovere la mostra su L’emigrazione dei Valsesiani nell’Ottocento). Qualcosa di simile si registra, sino alle soglie dei giorni nostri, in Veneto dove l’emigrazione, però, diventa per la prima volta, o più frequentemente, terreno di confronto se non anche di polemica e di scontro per il convergere verso di essa d’interessi assai difformi: a parte episodi e dettagli minori valga il caso, che si segnala perché in un certo senso sdrammatizzante, della mostra storico fotografica su L’emigrazione trevigiana e veneta nel mondo di Amerigo Manesso e Livio Vanzetto che nel 2001 riesce infine a mettere miracolosamente insieme, se non esattamente d’accordo, l’Istresco (ovvero il locale Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea) e le amministrazioni − leghiste o a maggioranza leghista − della città e della provincia di Treviso. Non si tratta di un evento facilmente ripetibile a causa di una “politicizzazione” spesso malintesa dei problemi emigratori di ieri − al confronto e nel “contatto” con quelli immigratori di oggi − che d’altronde, com’è noto, hanno poi anche un loro côté legato all’esilio e al profugato politico (come certificano le mostre sugli italiani in Francia tra le due guerre del 1987 e del 1993 nella joint venture culturale fra il Centro Studi Piero Gobetti di Torino, il Cedec di Parigi e l’Archivio Centrale dello Stato di Roma).
Alla serie delle storie minori,come quella scaturita dal ritrovamento di un diario modenese/brasiliano a San Paolo che mise in moto dal 1998 al 2002 convegni e mostre ospitate nei piccoli Comuni di Novi e di Concordia sulla Secchia (rafforzando l’idea che anche gli emiliano romagnoli abbiano contribuito la loro parte all’“epopea” della grande emigrazione italiana: per cui si potrebbe volgere Lo sguardo altrove…, titolo della mostra aperta a Bedonia nel settembre del 1997 e portata poi in varie località per decisione dell’Istituto Fernando Santi e della Consulta regionale emiliana d’emigrazione e immigrazione) sembrerebbero appartenere tante iniziative geograficamente appartate che però, se si vanno poi a ben considerare, per le modalità di realizzazione e di allestimento, si rivelano addirittura “cosmopolitiche” e comunque di estrema rilevanza: succede così nell’agosto del 1996 ad Andretta, in provincia di Avellino, con la Mostra bibliografica, documentaria e fotografica” sull’emigrazione transoceanica dalla Campania tra Otto e Novecento, parte dei cui materiali confluiranno poi, in novembre, nelle sale dell’Istituto “Suor Orsola Benincasa” di Napoli a corredo di un importante convegno internazionale su Il sogno italo americano ideato e coordinato da Sebastiano Martelli.
Dell’anno successivo, il 1997, è comunque l’impresa forse più significativa di tutte, anche se dislocata lontano dall’Italia, che sia stata avviata da studiosi ed espositori compromessi con la ricerca sul campo di materiali e di documenti. Nell’ambito delle periodiche mostre nazionali che il Museo di Ellis Island, modello insuperato e invidiato da mezzo mondo in materia d’emigrazione, sceglie di promuovere e di ospitare è appunto allora, il 23 giugno, che ha luogo a New York , l’inaugurazione, presenti autorità americane e il ministro degli esteri in carica Lamberto Dini, della grande mostra sull’emigrazione italiana nel mondo rimasta aperta sino ad ottobre e fortemente voluta da Gianfausto Rosoli e dal Cser di Roma i quali si avvalgono per l’occasione della collaborazione di vari autori, quorum ego. Quale parte in causa dunque, avendone escogitato più che altro il titolo (The World in my Hand) mi asterrò da giudizi articolati di merito o d’ordine qualitativo, tuttavia non posso non ricordare in rilievo, assieme, con ovvio rimpianto, al promotore e a Gian Paolo Cresci venuti a mancare non molto tempo appresso, che si trattò di un evento sul serio periodizzante (e, se posso notarlo, discutibilmente ripreso, in molti sensi, nel 2003, da Emanuele Stolfi con la “sua” mostra romana al Vittoriano su “Tante patrie, Una Patria: l’identità italiana nel mondo attraverso l’emigrazione” trasposta in un lussuoso catalogo dal titolo rassicurante Italiani nel mondo). Con ogni probabilità anche tale evento mise la corporazione degli specialisti, già allora in crescita, davanti a una sfida ovvero dinanzi alla improcrastinabile necessità di unificare e di rendere accessibile in un vero e proprio Museo dell’Emigrazione italiana l’insieme oramai cospicuo di materiali esistenti a proposito dell’esperienza migratoria nazionale. Non solo di quelli fotografici (che nel 1992, e di nuovo per impulso di Rosoli, avevano trovato la strada di una esposizione imponente alla Biblioteca Casanatense di Roma − Una valigia piena di America – ancora riecheggiata in sedicesimo da altre più recenti, bilingui e di emanazione ministeriale)32, bensì pure di quelli sonori, visivi e concreti33. Pure questi meriterebbero una collocazione unitaria che, per il versante cinematografico e televisivo se non anche nella rete, si spera possano avere un giorno a Gualdo Tadino, sede dell’ultimo dei “musei tentati” in Italia – assieme a quello un po’ a se stante di Salina e delle Eolie per le cure appassionate di Marcello Saija34 e appena dopo quello sanmarinese ostinatamente voluto e diretto da Noemi Ugolini35 − un punto di coagulo, di riferimento e di raccolta privilegiato: senza volere con questo, sia detto in conclusione, contrapporre magari alle iniziative in grande delle quali si è cominciato a parlare per Napoli o per Genova (fra l’altro capitale europea, nel 2004, della cultura), le mille riappropriazioni, non sempre o non tutte convergenti, d’una memoria e di un passato legati all’emigrazione all’estero degli italiani che tuttora indefessamente si danno a livello locale e ancor più in futuro, c’è da credere, si daranno in varie parti della penisola grazie alla collaborazione sempre più stretta fra chi l’emigrazione la studia con serietà e con impegno e chi invece l’ha vissuta o quanto meno discende da coloro, e furono milioni, che la vissero (o “furono costretti” a viverla) di persona durante i secoli XIX e XX.
Note
* Relazione di apertura dei lavori all’incontro di studio su “I Musei dell’emigrazione. Esperienze locali e internazionali a partire da Gualdo Tadino. Riflessioni, proposte e dibattiti in forma di convegno”, Gualdo Tadino, 7 e 8 giugno 2002. L’inaugurazione ufficiale e l’apertura al pubblico del Museo di Gualdo hanno avuto luogo il 29 novembre del 2003.
1 Si veda Matteo Sanfilippo, Problemi di storiografia dell’emigrazione italiana, Viterbo, Settecittà 2002.
2 Massimo Negri, Musealizzare la storia contemporanea?, in Id. e Roberto Guerri (a cura di), Nuovi Musei di Storia Contemporanea in Europa, Edizioni del Comune di Milano (Quaderni/14 de “Il Risorgimento”) 2002, pp. 22-23.
3 Anche il “Museo dell’Immigrazione” di Ellis Island, dopo una laboriosa e protratta gestazione, dal 1964 al 1989, aprì i battenti, in effetti, solo nel settembre del 1990. Salutato con entusiasmo sin dalla vigilia della nascita sulla stampa italiana (cfr. per tutti l’articolo di Arturo Zampiglione, Nasce il Museo dell’Emigrante: l’America ricorda gli antenati europei, “La Repubblica”, 26 agosto 1989) ha ormai al suo attivo una folta bibliografia ch’è abbastanza nota anche da noi, mentre forse sono meno conosciute le iniziative che dalla metà degli anni ottanta in poi hanno condotto alla realizzazione in Brasile, nell’antica Hospedaria di San Paolo al Braz, del Museu dos Imigrantes e poco dopo a Buenos Aires, pure qui negli spazi ch’erano stati un tempo le sale dell’Asilo degli immigranti a Puerto Madero, del Museo Nacional de la Inmigración argentino (su cui cfr. Ministerio del Interior – Dirección Nacional de Migraciones, Argentina. Un pais de inmigrantes, Buenos Aires 1998 e Id., Programma Museo Hotel de Inmigrantes: un proyecto con historia, ivi, 2000): quello che conta rilevare, comunque, è la datazione in ogni caso “alta” delle stesse imprese meglio riuscite e, assieme, la circostanza che a volerle imitare siano ancor oggi dei paesi storicamente d’immigrazione (si pensi alla Francia dove una commissione presieduta dall’ex ministro Jacques Toubon lavora fra molte polemiche all’istituzione di un museo ad essa dedicato: cfr. Anna Maria Merlo, Un museo dell’immigrazione, in “Il Manifesto”, 17 febbraio 2004). In realtà il panorama delle iniziative museali grandi e piccole nelle aree di arrivo della grande emigrazione asiatica ed europea otto-novecentesca implicherebbe sforzi descrittivi notevolissimi (e appena adombrati dalla menzione che posso fare qui di alcuni casi a me meglio noti dell’America Latina, dove ci si può imbattere nei Musei “Ao ar livre” di Santa Catarina, in qualche “Memorial da Colonização” tedesca – a Palmeira in Paranà – ma anche italiana – a Bento Gonçalves in Rio Grande do Sul – e in una serie di musei “da imigração” o “de la inmigración” come quelli tedeschi del Cile (a Frutillar, a Puerto Octay ecc.), quelli giapponesi del Brasile e del Perù (Museu Historico da Imigração Japonesa no Brasil, a San Paolo; Museo Commemorativo de la Inmigración Japonesa, a Lima ecc.) e così via.
4 Su “due nuovi musei”, uno di modeste proporzioni appena avviato (nelle isole Eolie come si dirà qui sotto in nota 34) e l’altro più ambizioso e tutto ancora da fare a Napoli, si veda Sergio Frau, Emigranti: miserabili in vetrina, “La Repubblica”, 5 giugno 1999, articolo integrato da una intervista fatta a chi scrive (Anche una sala al jazz siciliano, ivi) come di tanto in tanto succede nel periodico riaccendersi di lodevoli curiosità per i problemi della nostra “antica” emigrazione sulla stampa d’informazione italiana e regionale, dove un amico e collega illustre come Silvio Lanaro si è spinto di recente a candidarmi al ruolo di direttore d’un ipotetico e istituendo museo tematico manifestando così una stima di cui gli sono grato, ma prospettando un futuro sin troppo roseo a me personalmente e, in generale, a un tale tipo d’impresa (Silvio Lanaro, Per un museo degli emigrati, “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 11 marzo 2003).
5 Marco Rossi Doria, Ellis Island. E’ possibile ridestare la memoria nei bambini in questo nostro tempo dell’usa e getta?, in Aa.Vv., La memoria e le cose, nr. monografico di “Parolechiave”, 9 (1995), pp. 145-156.
6 Per i quali si vedano gli Atti del Convegno Internazionale di Studi sui Musei Etnografici, a cura di Giuseppe Bergamini, Andreina Ciceri e Gian Paolo Gri, Udine Società Filologica Friulana 1993; Carlo Nobili, Musei delle genti e musei dei popoli: processi identitari e didattica delle differenze nei musei etnografici italiani, “Lares”, 64, 3 (1998), pp. 351-376 ; Giovanni De Vita, Musei locali e tradizioni popolari, ivi, 65, 4 (1999), pp. 361-376 e infine anche Accademia di Agricoltura, Scienze e Lettere di Verona, Agricoltura,musei,trasmissione dei saperi. Atti del Secondo Congresso Nazionale dei musei agricoli ed etnografici, Verona, 13-14 febbraio 1998, a cura di Giancarlo Volpato, Verona Fondazione Cariverona 2000.
7 Ercole Sori, L’emigrazione continentale nell’Italia postunitaria, “Studi Emigrazione”, 38, 142 (2001), pp. 259-295.
8 Wautrain V. Cavagnari, La Giuria dell’Esposizione Italo-Americana, Genova 1892. Relazione, Genova Tipografia del R. Istituto Sordo-Muti 1893: quella dei “genovesi/argentini” del 1892, come ammettevano qualche anno più tardi anche i compilatori del tutto solidali di un celebre volume bonaerense − Comitato della Camera Italiana di Commercio ed Arti, Gli Italiani nella Repubblica Argentina, Buenos Aires, Compaňia Sud-Americana de Billetes de Banco, MDCCCXCVIII, p. 51 − era stata “più una prova di patriottismo dei concorrenti che una dimostrazione efficace delle condizioni degli italiani in America” (fatta parziale eccezione, forse, per la sola Sezione dedicata alle Società di Mutuo Soccorso etniche).
9 Aa.Vv., Le grandi Esposizioni in Italia 1861-1911, Napoli, Liguori, 1988; Nicola Labanca (a cura di), L’Africa in vetrina. Storie di musei e di esposizioni coloniali in Italia, Paese (Treviso), Pagus, 1992 e Mauro Misiti, L’Italia in mostra. Le esposizioni e la costruzione dello Stato nazionale, in “Passato e presente”, 14, 37 (1996), pp. 33-54.
10 Claudio Pogliano, Cognetti De Martiis. Le origini del Laboratorio di Economia Politica, “Studi Storici”, 17, 3 (1976), pp. 152-153.
11 Esposizione Generale Italiana, Gli italiani all’estero. Emigrazione – Commerci – Missioni, Torino, Tipografia Roux Trassati 1899.
12 Fernando Manzotti, La polemica sull’emigrazione nell’Italia unita fino alla prima guerra mondiale, Milano, Roma, Napoli, Città di Castello, Dante Alighieri, 1969 2.
13 Ausonio Franzoni, Presentazione, in Gli Italiani nella Repubblica Argentina, cit., p. 11.
14 Sul quale si veda Chiara Vangelista, Da un album fotografico del 1911: immigrazione e proprietà nello Stato di San Paolo, “Ventesimo Secolo”, I (1991), n. 2-3.
15 Gli Italiani all’Estero. Collana di studi e documenti scelti dal materiale esposto alla Mostra de “Gli Italiani all’Estero” (Esposizione internazionale di Milano 1906), Milano, Libreria Fratelli Bocca 1909, 5 voll.
16 Mark Irvan Choate, Defining “Greater Italy”: Migration and Colonialism in Africa and the Americas 1880-1915, Ph.D. Dissertation, Yale University 2002, p.108.
17 Sui giudizi liquidatori di Luigi Villari nei confronti dei fogli d’informazione italoamericani, definiti una “parodia del <vero> giornalismo” cfr. ivi, p.111 e Giovanni Preziosi, L’emigrazione italiana negli Stati Uniti, “Rivista d’Italia” 1910, n. 2, pp. 253-254, mentre per il parere di Giuseppe Prezzolini “su quella talvolta eroica e talvolta turpe stampa ‘coloniale’ che fioriva ed appassiva ogni due o tre anni o anche ogni due o tre mesi nei rioni delle Piccole Italie” si veda il suo I trapiantati, Milano Longanesi, 1963, pp. 57-58.
18 Si vedano in via generale Sandra Puccini, Evoluzionismo e positivismo nell’antropologia italiana (1869-1911), in Pietro Clemente et alii, L’antropologia italiana. Un secolo di storia, Roma-Bari 1985, pp. 99-148 e in particolare Amy Allemand Bernardy, L’etnografia delle “Piccole Italie” e Francesco Baldasseroni, Come si devono studiare gli usi e costumi dei nostri emigrati, in Società di Etnografia Italiana, Atti del Primo Congresso di Etnografia italiana, Roma 19-24 ottobre 1911, Perugia, Unione Tipografica Cooperativa, 1912, pp. 173-182.
19 Silvia Dacomo, L’immagine di Torino nelle guide delle esposizioni industriali (1884-1898-1911), “Il Risorgimento” 49, 1-2 (1997), pp. 53-82.
20 Carl Ipsen, Demografia totalitaria. Il problema della popolazione nell’Italia fascista, Bologna, Il Mulino, 1997, pp. 71-145.
21 Ministero delle Colonie, La Mostra Coloniale di Genova 1914, Roma, G. Bertero, 1914.
22 Nicola Labanca, Quaderni di “petit blancs”. Diari e memorie dell’“imperialismo demografico” italiano, introduzione a Id. (a cura di), Posti al sole. Diari e memorie di vita e di lavoro dall’Africa Italiana, Rovereto, Museo Storico della Guerra, 2001.
23 Sandro Rinauro, Sognando l’America. Mete dell’emigrazione italiana negli anni della Ricostruzione tra desiderio e realtà, in Guglielmo Scaramellini (a cura di), Città regione e territorio. Studi in memoria di Roberto Mainardi, Milano, Cisalpino Istituto Editoriale Universitario, 2003, pp. 201-230.
24 Laura Scognamillo, I precedenti storici del progetto “Italiani nel mondo”: 1940 Mostra delle terre d’Oltremare – 1952 Mostra del lavoro italiano nel mondo, in Aa. Vv., La Mostra d’Oltremare per gli italiani nel mondo 1996-2000, Napoli, Ente Autonomo Mostra d’Oltremare, 1996, pp. 73-83.
25 Emilio Franzina, Gli italiani al nuovo mondo:retrospettive e prospettive per il Duemila, “Rassegna Storica Irpina”, 7, 11-12 (1996), pp. 87-96.
26 Regione Piemonte, Emigrazione piemontese all’estero. Rassegna bibliografica, a cura di Mauro Reginato, Patrizia Audenino, Carlo A. Corsini, Paola Corti, “Quaderni della Regione Piemonte”, supplemento al n. 29, II semestre 1999.
27 Un primo elenco sommario aggiornato al 1996 sta in Roberto Togni, Gaetano Forni e Francesca Pisani, Guida ai musei etnografici italiani, Firenze, Olschki, 1997 dove figurano, assieme a quelli che verremo richiamando nel testo, i musei o le sezioni museali dell’emigrazione di Coreglia Antelminelli (Lucca: Museo della Figurina di Gesso e dell’Emigrazione), di Favale di Màlvaro (Genova: Museo dell’Emigrante “Casa Giannini”), di Prata di Pordenone (Pordenone: Museo della Miniera), di Rosazza (Biella: Casa Museo della Storia del Costume e delle Tradizioni dell’Alta Valle del Cervo), di Santa Maria Maggiore (Verbania: Museo dello Spazzacamino), di Schilpario (Bergamo: Sezione emigranti del Museo Etnografico) e di Vibo Valentia (Catanzaro: Museo dell’Emigrazione). Per quanto accurato, l’elenco non è completo ed esclude non solo alcune “sezioni” (come quella “Lavoro ed emigrazione” del Museo Provinciale della vita contadina “Diogene Penzi” di Cavasso Nuovo, PN o quella sull’emigrazione dell’Ecomuseo della Valle Elvo Serra BI) e Fondazioni come la Casa America di Genova bensì pure realtà e strutture indubitabilmente nuove per l’Italia come il Parco Storico Paesaggistico “Nitti” di Maratea fondato nel 1996 in provincia di Potenza avendo “come tema principale l’emigrazione italiana all’estero in prospettiva storica e attuale” (Lorenzo Maria Di Napoli, Il Parco Storico Nitti, in L’attività dei centri di ricerca – Quale futuro per l’emigrazione? Atti del Convegno di Studi, San Marino 4-5 ottobre 2002, a cura di Noemi Ugolini, San Marino, Guardigli, 2003, p.314).
28 Pietro Barbano, Partire dalle fotografie, in Per terre assai lontane. Cento anni di emigrazione lunigianese e apuana, Provincia di Massa Carrara, Comunità montana della Lunigiana, Museo etnografico della Lunigiana 1988 (2a ed. ivi 1998). La riflessione su emigrazione e riproduzione fotografica delle esperienze che la riguardano o vi si connettono ha impegnato più di uno storico da Antonio Gibelli (autore già nel 1989 di un saggio/guida di notevole lucidità – “Fatemi unpo sapere…” Scrittura e fotografia nella corrispondenza degli emigranti ligure – contenuto nel catalogo della mostra genovese su L’emigrazione ligure tra evento e racconto: La via delle Americhe, Genova, Sagep, 1989, pp.87-94) a Peppino Ortoleva (nell’articolo Una fonte difficile. La fotografia e la storia dell’emigrazione, in “Altreitalie” 3, 5 (1991), pp. 120-158) a Paola Corti (in forma riepilogativa introducendo un volume da lei stessa curato per l’emigrazione nella collana degli Editori Riuniti – Roma 1999 − dedicata alla storia della società italiana “in fotografia” e in dettaglio, in precedenza anche in altre sedi per cui si veda Ead., L’émigration temporaire féminine piémontaise pendant la grand émigration: les images des sources, “Cahiers de la Méditerranée”, 52 (1996), pp. 163-172; L’emigrazione stagionale italiana nel Midi attraverso la fonte fotografica: appunti di lettura, ivi, 58 (1999), pp. 19-37). Per lungo tempo, però, l’iniziativa è stata in mano a fotografi ed espositori che meritoriamente, come accenneremo anche nel testo, hanno “aperto − essi pure – la strada” seppure alternando di solito il recupero di immagini del passato a ritratti realizzati nel presente. Un elenco, di nuovo, risulterebbe eccessivamente lungo e necessariamente lacunoso, ma vale la pena di rammentare almeno a titolo esemplificativo i nomi di alcuni autori che si sono cimentati col tema sospinti non di rado da preoccupazioni di spiccato ordine artistico come Paola Agosti, Antonio Ria, Italo Zannier e Maria Zorzon ecc. (tra le molte citazioni possibili, si vedano di loro mano, cataloghi come P. Agosti (e M.R. Ostuni), L’Italia fuori d’Italia. Immagini di emigrazione, Roma, Seconda Conferenza Nazionale dell’Emigrazione, 1988; A. Ria, Italians in Manchester. History, traditions, work, Introduction by Lalla Romano – Historical note by Barbara Ronchetti, Località Amérique, Quart (Aosta), Musumeci Editore, 1990; Cordenons Avellaneda. Caratteri e fotografie di un’emigrazione, a cura di Italo Zannier, fotografie di Maria Zorzon, testi di Javier Grossutti e A. Becquer Casaballe, Lestans (PN), CRAF, 1998).
29 I Veneti in Brasile nel centenario dell’emigrazione (1876-1976), a cura di Mario Sabbatini ed Emilio Franzina, Vicenza, Edizioni dell’Accademia Olimpica, 1977 – dalle remote premesse poste con questa iniziativa, e passando attraverso tutti i mutamenti specie politici di un quarto di secolo, sono scaturiti anche gli inconcludenti sforzi compiuti di recente per realizzare un museo dell’emigrazione veneta in Villa Conti Velo Zabeo di Velo d’Astico (VI) su mandato dell’amministrazione provinciale di Vicenza a guida leghista (con una dotazione iniziale prevista in quasi un milione di euro e con strascico cospicuo di accuse e polemiche di cui dà conto dettagliato l’articolo di acre denuncia Veneti in Brasile e brasiliani a Vicenza. La Manueleide, i sospetti, fazzendeiros e cangaçeiros, “Il Sospiro del Tifoso”, 2002, n.5, p. 10). In realtà e non solo per debito di patriottismo localista dello scrivente, sarebbero tutti da studiare questi tentativi fatti in una “zona campione” che solo nel giro dell’ultimo biennio ha visto ora fiorire ed ora abortire anche numerosi altri programmi del tutto affini. Da quello parzialmente inverato con l’appoggio della Regione Veneto a Valstagna dove nel giugno del 2003 è stato ufficialmente inaugurato il museo etnografico “Canal del Brenta” sul lavoro contadino e l’emigrazione a cura di Daniela Perco (cfr. La Valbrenta si racconta, “Giornale di Vicenza”, 17 giugno 2003) all’altro tuttora in fieri, ma legato a una impegnativa proposta di legge che lo vorrebbe finanziare con ben dieci milioni di euro per la costituzione appunto di un museo dell’emigrante a Foza sull’Altipiano dei Sette Comuni (Nasce il Museo dell’Emigrante, ivi, 10 dicembre 2003 e Cristiano Carli, Museo s’impara da San Marino, ivi, 8 aprile 2004). Nel mentre, com’era da immaginarsi, quasi si inseguono e si rincorrono le mostre fotografiche d’ambito provinciale ultimamente rilanciate anche dalle presentazioni itineranti e musicali dell’Orda, il noto libro del giornalista vicentino del Corsera Gianantonio Stella (nell’impossibilità di tutto citare, mi limito a menzionarne solo un paio di fine gennaio 2004: L’altro Veneto in Cile. Mostra di fotografie di emigranti veneti, a Camisano (Sede Municipale) e Quando eravamo noi ad emigrare a Schio (Palazzo Toaldi Capra) e una addirittura che si terrà – o dovrebbe tenersi – a Pedavena “entro il 30 maggio 2004”: Con la valigia in mano. L’emigrazione nel feltrino dalla fine dell’Ottocento al 1960. Dunque si moltiplicano i propositi di collegare agli ambiti della ricerca scientifica (e persino a quelli della creazione artistica: cfr. il resoconto della mostra inaugurata a Vicenza sulle opere di Tiziano Fabris discendente di asiaghesi espatriati in America e impegnato a raccontarne la storia “trattando indumenti e documenti” donatigli dai parenti argentini: Forbiche, indumenti per testimoniare la grande emigrazione, in “Giornale di Vicenza” 18 marzo 2004) la sfera d’azione e d’intervento dei luoghi mussali, oggetto di crescenti ed oscuri desideri: ma discorsi analoghi a questi abbozzati per il Vicentino si potrebbero ripetere quasi invariati a proposito di molte altre località sia del sud che del nord (e qui di nuovo per maggior competenza territoriale potrei ricordare quelle carniche e del Friuli, quelle trentine di Storo, delle Valli Giudicarie ecc.) oppure anche d’importanti città capoluogo come Brescia, dove una nota Fondazione, ora sotto la presidenza di Sandro Fontana, politico e storico di complemento, si è segnalata non più tardi di due anni fa per l’idea di costituire dal suo seno un “Centro di documentazione sulla storia del lavoro italiano all’estero” intimamente collegato al Museo – peraltro anch’esso tuttora “istituendo” – dell’Industria e del Lavoro” (Fondazione Micheletti, Seminario sullo “Studio storico dell’emigrazione italiana”, Brescia 15 maggio 2002).
30 Teresa Isenburg, Hospedaria de imigrantes: una fonte per lo studio delle migrazioni, “Società e storia”, 6, 22 (1983).
31 È il caso, visto il termine usato (in sigla RCI), della torinese Fondazione Giovanni Agnelli della quale fra poco si dirà e dell’allora suo direttore scientifico Marcello Pacini di cui si può vedere con profitto nel 1999 un riepilogo in Id., Una cronaca culturale. Le attività della Fondazione Agnelli dal 1976 al 1999, Torino, Edizioni della Fondazione Giovanni Agnelli, pp. 101-125.
32 Gli Italiani all’Estero. 140 anni di fotografie delle comunità italiane – Italians Abroad. 140 years of photography of the Italian communities, a cura di Michele Rak, Consorzio in Lucina – Fototeca di Roma 2001, un volume bilingue di estrema modestia e di scarsa originalità viste (anzi riviste) le fotografie assemblate con la “collaborazione” del Ministero degli Esteri/Ministry of Foreign Affairs (cfr. Raul Soutelo Vazquez, Imágenes en la distancia: reflexiones sobre fotografía y emigración, “Estudios migratorios latinoamericanos” 51 (2003), pp. 488-491).
33 Un filone di qualche interesse e di sicuro avvenire sembra quello che , arrivando assai dopo quanto era successo in alcuni paesi di accoglienza degli italiani (penso all’Argentina e al Brasile dove se ne diede più di un esempio già al tempo della visita in America Latina di Giovanni Gronchi), traguarda oggi alla monumentalizzazione della epopea emigratoria con statue e gruppi scultorei ad hoc (ma non dissimili fra loro e somiglianti anche, come tipologia, a molti di quelli “bellici”). Fra gli ultimi in ordine di tempo segnalo il pregevole Monumento all’Emigrante, opera di Antonio Bottegal, inaugurato nel Piazzale della Stazione Ferroviaria di Feltre il 14 febbraio 2004.
34 Un primo risultato conseguito dal museo eoliano – che al pari di tutti gli altri si candida a funzionare anche da centro di documentazione e da promotore d’incontri di studio e di convegni – sta ora nei due volumi che raccolgono appunto gli atti del congresso “inaugurale” di Salina dell’1-6 giugno 1999, cfr. L’emigrazione italiana transoceanica tra Otto e Novecento e la storia delle comunità derivate, a cura di Marcello Saja, Messina, Edizioni Trisform, 2003.
35 Quantunque il Museo dell’emigrante con l’annesso Centro Studi permanente sull’Emigrazione della Repubblica di San Marino sia al momento il più attrezzato e il più solido fra tutti quelli esistenti da noi, la natura giuridica particolare della cornice in cui esso venne a calarsi, nascendo ufficialmente nel 1997 dopo circa dieci anni di gestazione e di accurati preparativi (una cornice che fornisce grande slancio e che garantisce continuità impensabili nei contesti di pari dimensioni a livello comunale o provinciale nel resto della penisola), fà sì che oggi se ne possa parlare, in rapporto all’Italia, come di una felice eccezione e per molti aspetti anche come di un modello imitabile e avallato a breve distanza dalla sua fondazione da flussi consistenti di visitatori, da una produzione convegnistica e cartacea di buona qualità e già nel 2001 dal prestigioso invito ad allestire nei saloni di Ellis Island una mostra sull’emigrazione sanmarinese simile a quella italiana di cinque anni prima (cfr. Republic of San Marino, A Small State in the Great History. San Marino Emigration between event and narration, Ellis Island Immigration Museum 21st April – 28th May 2001, San Marino, 2001).