Introduzione
Si ritorna a parlare con particolare insistenza del voto da accordarsi agli italiani all’estero che non lo domandano, mentre, ben altre, finora insoddisfatte, loro rivendicazioni non sono riuscite a trovare in Italia cervelli e cuori che le ascoltassero1.
Con queste parole il “Bollettino quindicinale dell’emigrazione” annunciava nel marzo 1956 la propria contrarietà al voto ai residenti all’estero. Il dibattito, nella primavera del 1956, si era fatto particolarmente intenso in coincidenza con le discussioni più generali sulle riforme legislative sull’emigrazione. Il mondo degli “addetti ai lavori” tuttavia sembrava particolarmente scettico sulla questione, tanto che non solo il “Bollettino quindicinale” ma anche la rivista “Italiani nel mondo” – attraverso un articolo del direttore, Leonida Felletti – espresse una posizione contraria:
1) Creerà delle divisioni in seno alle collettività stesse (…) 2) Potrebbe indurre tali paesi a preferire elementi meglio disposti a partecipare alla vita politica dello Stato in cui vivono, anziché a quella dello Stato d’origine (…) 3) Ogni manifestazione che ricordi o accentui l’appartenenza del lavoratore ad altre nazionalità può determinare la rigida applicazione delle norme discriminatorie2.
La questione del voto agli emigrati nell’Italia del dopoguerra era stata sollevata fin dalle elezioni per l’assemblea costituente, quando da più parti venne posta la possibilità di far partecipare alle elezioni i connazionali residenti all’estero, ipotesi che in realtà venne in seguito accantonata. Il problema, già nel 1946, era comunque un problema di vecchia data, nel senso che del diritto di voto agli emigrati si parlava fin dalla fine dell’Ottocento, quando era ormai chiaro che l’emigrazione sarebbe stata una costante nello sviluppo socio-economico del paese. La questione è stata oggetto di dibattiti, proposte, iniziative parlamentari, convegni e periodicamente è stata sul punto di essere vicinissima ad un esito legislativo: messa in cantiere fin dal primo congresso degli italiani all’estero del 1908, accennata al secondo congresso del 1911, riproposta all’indomani del primo e del secondo conflitto mondiale e diventata poi oggetto di dibattito a più riprese nel periodo repubblicano.
Il lungo dibattito – tra proposte di legge, iniziative governative, appelli, sessioni internazionali – non si è fermato neanche quando, nel dicembre 2001, il parlamento italiano ha approvato la legge 459/2001, intitolata proprio “Norme per l’esercizio del diritto di voto dei cittadini italiani residenti all’estero”, anzi si è fatto più intenso in coincidenza con le prime tornate elettorali referendarie che hanno vista applicata la nuova legge e con le elezioni politiche del 2006, oggetto delle analisi contenute in questo dossier3.
Questo lungo dibattito in realtà presenta alcune costanti nel suo svolgimento, che come detto si sono puntualmente riproposte anche negli ultimi anni, alla vigilia del voto del 2006. In questa introduzione è opportuno richiamarne quattro.
Salta subito agli occhi, innanzitutto, che il confronto politico sul tema si è intensificato in coincidenza di passaggi politici particolarmente delicati: la fase immediatamente precedente alla prima guerra mondiale e la fase immediatamente successiva, i mesi che seguono la fine della seconda guerra mondiale, il periodo di crisi del sistema politico nel 1992-93, quando venne proposto (nel novembre 1993, bocciato al Senato) un progetto piuttosto simile a quello poi approvato nel 20014.
In secondo luogo, l’attribuzione al diritto di voto di un valore di riconoscimento e di “ricompensa” alle comunità residenti all’estero, che hanno intrattenuto tradizionalmente rapporti difficili e conflittuali con le istituzioni italiane, sia quelle poste fuori dai confini nazionali (consolati e ambasciate) sia quelle interne (dalle amministrazioni locali agli enti previdenziali). Già nel 1885, in occasione della conferenza coloniale italiana a Napoli, gli oratori convenivano nel giudicare negativamente la negligenza degli uffici consolari nei confronti dei cittadini emigrati, che provocava inevitabilmente un senso di rivalsa e di diffidenza nelle comunità verso coloro che avrebbero avuto il compito di proteggerle ed assisterle5. Questa situazione era destinata a peggiorare nel corso del tempo. Nonostante le riforme nell’ordinamento consolare avvenute dopo la seconda guerra mondiale, il problema è rimasto aperto e anche la nuova ondata emigratoria in età repubblicana si è scontrata con il “muro” delle istituzioni, incapaci di elaborare una politica emigratoria completa e soprattutto dotata di strutture e personale specializzato. Lo stesso Mariano Rumor ammise al riguardo nel 1975 – aprendo i lavori della Conferenza nazionale dell’emigrazione – che “è stato sbagliato quasi tutto”. Cosa c’entra il voto con tutto ciò? C’entra, perché puntualmente il diritto di voto ai residenti all’estero si è riempito di motivazioni e di significati che ne estendevano il valore, arrivando a rappresentare in sostanza una forma di risarcimento per decenni di incomprensioni e negligenze6.
In terzo luogo, il diritto di voto è stato costantemente sostenuto e propagandato da gruppi politici ed economici, che in pratica hanno agito – in tempi e luoghi differenti – come una sorta di lobby, a volte trasversale agli stessi schieramenti parlamentari. L’azione di lobbying ha di fatto impedito che sul tema si sviluppasse un dibattito ampio e articolato, capace di coinvolgere tutti gli attori in questione e non soltanto i semplici addetti ai lavori. Altre forme di estensione del suffragio in Italia sono state infatti accompagnate da movimenti della società civile e da una mobilitazione culturale che nel caso del voto degli italiani all’estero sono stati residuali e minoritari. A titolo di esempio possiamo ricordare il voto alle donne o il suffragio universale maschile, e, se non vogliamo scomodare questi episodi “maggiori”, possiamo ugualmente prendere in esame il voto ai diciottenni. Il problema è che nel confronto politico e giuridico sull’argomento hanno trovato poco spazio nel corso dei decenni i riferimenti alla cittadinanza e ai suoi confini materiali e simbolici, per cui, per usare una espressione di Marina Montacutelli, il voto all’estero è apparso soltanto come il “premio di una rappresentanza riservata”7.
Una quarta costante che è opportuno richiamare è l’estrema varietà delle soluzioni pratiche da adottare per far esercitare effettivamente il voto ai residenti all’estero, sui cui si sono alternate le proposte più diverse e su cui, anche dopo che la legge del 2001 è stata approvata, è proseguito il confronto. I problemi evocati al riguardo naturalmente non erano – e non sono – questioni eminentemente tecniche, perché attengono alla scelta delle forme della rappresentanza e del come esercitare i diritti civili. Da questo punto di vista, i problemi sorti in occasione delle elezioni politiche 2006 (verifica delle anagrafi consolari, spedizione anticipata dei plichi elettorali, campagna elettorale all’estero, per citarne solo alcuni) e le conseguenti polemiche hanno riproposto in pieno alcuni dei nodi del contendere e hanno messo in luce i limiti della legge del 2001 e della sua applicazione.
Approvata la legge 459/2001, il 15 giugno 2003 – in occasione del referendum sull’art. 18 dello Statuto dei lavoratori – si è recato alle urne il 21,8% degli aventi diritto nella circoscrizione estero per il primo quesito (reintegro dei lavoratori) e il 21,7% per quanto riguarda il secondo quesito (servitù coattiva). Il dato dell’affluenza al voto dei residenti all’estero non si discosta molto dal dato dei residenti in Italia, che restò al 25,8%: il referendum infatti non raggiunse il quorum e non fu valido. Simile sorte toccò ai referendum sulla procreazione assistita del giugno 2005, mentre nel 2006 in occasione delle elezioni politiche ha votato il 39,0% degli aventi diritto e in occasione del referendum confermativo sulla riforma costituzionale il 27,5%8. Proprio l’esito dell’ultima tornata referendaria – così differente da quello scaturito dalla consultazione “dentro i confini”: all’estero hanno prevalso i “sì” con il 51,9% – ha rivelato ancora una volta in tutta la sua diversità quante specificità possieda il cosiddetto “voto all’estero”. In realtà – oltre ai dati e alla loro scomposizione per continenti, stati e singole città – sappiamo ancora poco su chi e perché si è recato a votare o a non votare, su come si sono organizzate le formazioni politiche, su quali parole-chiave hanno mobilitato gli elettori, sul riscontro concreto di tale mobilitazione, sugli sviluppi prossimi venturi della partecipazione e della rappresentanza. I contributi qui presentati possono costituire proprio una prima “fotografia” del fenomeno, non limitata alla semplice esposizione statistica ma orientata a mettere in relazione l’attuale partecipazione elettorale dei residenti all’estero con le radici e le origini delle rispettive comunità di appartenenza, che nel corso del tempo si sono notevolmente trasformate e alle quali cominciano a stare strette le tradizionali categorie di riferimento con cui sono state inquadrate, a partire probabilmente della stessa categoria di “italiani all’estero”.Note
Il lungo dibattito – tra proposte di legge, iniziative governative, appelli, sessioni internazionali – non si è fermato neanche quando, nel dicembre 2001, il parlamento italiano ha approvato la legge 459/2001, intitolata proprio “Norme per l’esercizio del diritto di voto dei cittadini italiani residenti all’estero”, anzi si è fatto più intenso in coincidenza con le prime tornate elettorali referendarie che hanno vista applicata la nuova legge e con le elezioni politiche del 2006, oggetto delle analisi contenute in questo dossier3.
Questo lungo dibattito in realtà presenta alcune costanti nel suo svolgimento, che come detto si sono puntualmente riproposte anche negli ultimi anni, alla vigilia del voto del 2006. In questa introduzione è opportuno richiamarne quattro.
Salta subito agli occhi, innanzitutto, che il confronto politico sul tema si è intensificato in coincidenza di passaggi politici particolarmente delicati: la fase immediatamente precedente alla prima guerra mondiale e la fase immediatamente successiva, i mesi che seguono la fine della seconda guerra mondiale, il periodo di crisi del sistema politico nel 1992-93, quando venne proposto (nel novembre 1993, bocciato al Senato) un progetto piuttosto simile a quello poi approvato nel 20014.
In secondo luogo, l’attribuzione al diritto di voto di un valore di riconoscimento e di “ricompensa” alle comunità residenti all’estero, che hanno intrattenuto tradizionalmente rapporti difficili e conflittuali con le istituzioni italiane, sia quelle poste fuori dai confini nazionali (consolati e ambasciate) sia quelle interne (dalle amministrazioni locali agli enti previdenziali). Già nel 1885, in occasione della conferenza coloniale italiana a Napoli, gli oratori convenivano nel giudicare negativamente la negligenza degli uffici consolari nei confronti dei cittadini emigrati, che provocava inevitabilmente un senso di rivalsa e di diffidenza nelle comunità verso coloro che avrebbero avuto il compito di proteggerle ed assisterle5. Questa situazione era destinata a peggiorare nel corso del tempo. Nonostante le riforme nell’ordinamento consolare avvenute dopo la seconda guerra mondiale, il problema è rimasto aperto e anche la nuova ondata emigratoria in età repubblicana si è scontrata con il “muro” delle istituzioni, incapaci di elaborare una politica emigratoria completa e soprattutto dotata di strutture e personale specializzato. Lo stesso Mariano Rumor ammise al riguardo nel 1975 – aprendo i lavori della Conferenza nazionale dell’emigrazione – che “è stato sbagliato quasi tutto”. Cosa c’entra il voto con tutto ciò? C’entra, perché puntualmente il diritto di voto ai residenti all’estero si è riempito di motivazioni e di significati che ne estendevano il valore, arrivando a rappresentare in sostanza una forma di risarcimento per decenni di incomprensioni e negligenze6.
In terzo luogo, il diritto di voto è stato costantemente sostenuto e propagandato da gruppi politici ed economici, che in pratica hanno agito – in tempi e luoghi differenti – come una sorta di lobby, a volte trasversale agli stessi schieramenti parlamentari. L’azione di lobbying ha di fatto impedito che sul tema si sviluppasse un dibattito ampio e articolato, capace di coinvolgere tutti gli attori in questione e non soltanto i semplici addetti ai lavori. Altre forme di estensione del suffragio in Italia sono state infatti accompagnate da movimenti della società civile e da una mobilitazione culturale che nel caso del voto degli italiani all’estero sono stati residuali e minoritari. A titolo di esempio possiamo ricordare il voto alle donne o il suffragio universale maschile, e, se non vogliamo scomodare questi episodi “maggiori”, possiamo ugualmente prendere in esame il voto ai diciottenni. Il problema è che nel confronto politico e giuridico sull’argomento hanno trovato poco spazio nel corso dei decenni i riferimenti alla cittadinanza e ai suoi confini materiali e simbolici, per cui, per usare una espressione di Marina Montacutelli, il voto all’estero è apparso soltanto come il “premio di una rappresentanza riservata”7.
Una quarta costante che è opportuno richiamare è l’estrema varietà delle soluzioni pratiche da adottare per far esercitare effettivamente il voto ai residenti all’estero, sui cui si sono alternate le proposte più diverse e su cui, anche dopo che la legge del 2001 è stata approvata, è proseguito il confronto. I problemi evocati al riguardo naturalmente non erano – e non sono – questioni eminentemente tecniche, perché attengono alla scelta delle forme della rappresentanza e del come esercitare i diritti civili. Da questo punto di vista, i problemi sorti in occasione delle elezioni politiche 2006 (verifica delle anagrafi consolari, spedizione anticipata dei plichi elettorali, campagna elettorale all’estero, per citarne solo alcuni) e le conseguenti polemiche hanno riproposto in pieno alcuni dei nodi del contendere e hanno messo in luce i limiti della legge del 2001 e della sua applicazione.
Approvata la legge 459/2001, il 15 giugno 2003 – in occasione del referendum sull’art. 18 dello Statuto dei lavoratori – si è recato alle urne il 21,8% degli aventi diritto nella circoscrizione estero per il primo quesito (reintegro dei lavoratori) e il 21,7% per quanto riguarda il secondo quesito (servitù coattiva). Il dato dell’affluenza al voto dei residenti all’estero non si discosta molto dal dato dei residenti in Italia, che restò al 25,8%: il referendum infatti non raggiunse il quorum e non fu valido. Simile sorte toccò ai referendum sulla procreazione assistita del giugno 2005, mentre nel 2006 in occasione delle elezioni politiche ha votato il 39,0% degli aventi diritto e in occasione del referendum confermativo sulla riforma costituzionale il 27,5%8. Proprio l’esito dell’ultima tornata referendaria – così differente da quello scaturito dalla consultazione “dentro i confini”: all’estero hanno prevalso i “sì” con il 51,9% – ha rivelato ancora una volta in tutta la sua diversità quante specificità possieda il cosiddetto “voto all’estero”. In realtà – oltre ai dati e alla loro scomposizione per continenti, stati e singole città – sappiamo ancora poco su chi e perché si è recato a votare o a non votare, su come si sono organizzate le formazioni politiche, su quali parole-chiave hanno mobilitato gli elettori, sul riscontro concreto di tale mobilitazione, sugli sviluppi prossimi venturi della partecipazione e della rappresentanza. I contributi qui presentati possono costituire proprio una prima “fotografia” del fenomeno, non limitata alla semplice esposizione statistica ma orientata a mettere in relazione l’attuale partecipazione elettorale dei residenti all’estero con le radici e le origini delle rispettive comunità di appartenenza, che nel corso del tempo si sono notevolmente trasformate e alle quali cominciano a stare strette le tradizionali categorie di riferimento con cui sono state inquadrate, a partire probabilmente della stessa categoria di “italiani all’estero”.Note
1 Contro il voto agli emigranti, “Bollettino quindicinale dell’emigrazione”, 25 marzo 1956, p. 91.
2 Leonida Felletti, Il voto agli emigranti, “Italiani nel mondo”, febbraio 1956, p. 7.
3 Per un’analisi più approfondita delle differenti proposte nel tempo mi permetto di rinviare a Michele Colucci, Il voto degli italiani all’estero, in Storia dell’emigrazione italiana, vol. II, Arrivi, a cura di Piero Bevilacqua, Andreina De Clementi ed Emilio Franzina, Roma, Donzelli, 2002, pp. 597-609. Per una disamina delle proposte nel periodo repubblicano si veda Fulco Lanchester (a cura di), Il voto degli italiani all’estero. Seminario di studio e documentazione, Roma, Bulzoni, 1988. Per un’analisi storica e il panorama di alcune proposte alla metà degli anni sessanta, si veda Antonio Napolitano e Antonio Di Stefano, Sul diritto di voto agli italiani all’estero, “Studi Emigrazione”, 14 (1967), pp. 1-30.
4 Per una ricostruzione del dibattito degli anni novanta, soprattutto di tipo giuridico e costituzionale, si veda Leopoldo Elia, Il voto degli italiani all’estero tra cittadinanza e rappresentanza, “Politica internazionale” 4-5 (2000), pp. 65-74. Il numero 3-1994 di “Affari sociali internazionali” presenta invece una serie di interventi storici sul fenomeno e sul dibattito ai primi anni Novanta.
5 Conferenza coloniale riunita a Napoli dall’8 al 13 novembre 1885: atti, relazioni e voti, Napoli, Società africana d’Italia, 1886.
6 Il tema del risarcimento si intravede anche nel dibattito precedente l’assemblea costituente, quando la proposta di far votare anche i residenti all’estero venne motivata, tra le altre ragioni, con l’esigenza di premiare l’impegno nella resistenza antifascista degli esuli e degli emigrati, il cui contributo alla liberazione dal nazifascismo non era stato adeguatamente riconosciuto.
7 Marina Montacutelli, Smagliature del Paradiso. Il “voto degli italiani all’estero” tra etnia nazione, e cittadinanza, “’900. Per una storia del tempo presente”, 8-9 (2003), p. 101.
8 I dati dell’affluenza elettorale alle elezioni politiche si differenziano molto da circoscrizione a circoscrizione: in Europa ha votato il 36,3% degli aventi diritto, in Africa, Asia, Oceania, Antartide il 39,9%, in America settentrionale e centrale il 34,7%, in America meridionale il 49,6%.