Le trasformazioni politiche del Brasile
Nel 1888 il regime politico brasiliano cambia radicalmente. Pedro II si reca in Europa e nel mese di marzo la figlia Isabella, che regge l’impero in assenza del padre, abolisce definitivamente la schiavitù. L’ira dei grandi possidenti terrieri non è probabilmente sufficiente a motivare una sollevazione politica, anche perché la decisione era prevista da tempo. Infatti il ruolo e la visibilità del partito repubblicano e del movimento abolizionista erano divenuti sempre più notevoli. Tuttavia il malumore dei grandi proprietari si fonde con le rivendicazioni dell’esercito, con lo scontento di molti maggiorenti per l’inefficienza del gioco dei partiti – sino ad allora mediato dall’imperatore, che, però, adesso è malato – e con la scarsa simpatia della Chiesa cattolica per una casa regnante che vuole leggi favorevoli alla libertà di culto, alla laicizzazione della scuola e al matrimonio civile. Le diverse componenti della protesta si coagulano e portano alla rivoluzione del 15 novembre 1889 e all’instaurazione della repubblica. Il generale Manuel Deodoro da Fonseca diviene il primo presidente brasiliano e inaugura la stagione dei capi di stato incapaci dal punto di vista amministrativo, ma proni davanti all’esercito e ai grandi possidenti. In compenso il nuovo regime penalizza la gerarchia cattolica, che, autorizzata dalla Santa Sede, avvia nel dicembre del 1889 segreti pourparlers, ma non riesce a evitare la separazione tra Chiesa e Stato.
Il periodo è confuso e le polemiche molteplici, anche per l’incapacità del nuovo capo dello stato. I proprietari terrieri cercano di controllare l’evoluzione della vita politica, ma i loro interessi non sono omogenei. Le antiche province si trasformano in singoli stati, la cui coesione a livello federale è abbastanza lasca. E, per quanto qui ci riguarda, ogni stato applica una propria politica immigratoria, anche perché la repubblica affida le terre demaniali ai singoli stati che possono quindi utilizzarle per incrementare ulteriormente il numero dei propri immigrati. D’altronde la differenziazione delle politiche migratorie precede la rivoluzione, che si limita quindi a favorire un processo già in atto. Nell’ottobre 1885, per esempio, l’allora provincia di San Paolo garantisce ai fazendeiros il rimborso del prezzo del viaggio dell’emigrante (solo o con famiglia) e, l’anno successivo, affida la regolazione degli arrivi alla Sociedade promotora d’immigraçao, che le assicura in pochi anni un flusso continuo di manodopera a basso costo.
Tutti gli stati, che compongono la repubblica brasiliana, mirano comunque a sfruttare il più possibile gli immigrati, ma questi non sono sempre disposti a sopportare: la reazione è particolarmente vivace in ambito urbano, ma non mancano le proteste rurali. A San Paolo scoppia nel 1892 un moto di protesta per l’uccisione di un capitano italiano, che si estende ad altri centri e provoca di contraccolpo una violenta repressione e persino agitazioni anti-immigrati. Gli italiani, che sono la maggior componente della manodopera immigrata, rurale e urbana, sono quindi sospettati di aver importato le dottrine anarchiche e socialiste. Il che non è vero, anche se in Brasile sono sorti numerosi fogli anarchici ed è persino esistita una “colonia” italiana a base anarchica, la famosa colonia Cecilia fondata dal pisano Giovanni Rossi nel Paraná.
Di fatto le proteste italiane non nascono dalle sotterranee agitazioni dell’estrema sinistra immigrata, ma dalle condizioni di sfruttamento disumane: si ricordi che per molti proprietari terrieri e, di conseguenza, anche per i primi industriali brasiliani gli immigrati sono il naturale sostituto degli schiavi. Tali proteste godono quindi persino dell’assistenza del clero, soprattutto quello immigrato che in numerosi casi si schiera a fianco dei compatrioti.
Lo scontro violento con gli industriali (a volte, per altro, anch’essi di origine italiana) e con lo stato brasiliano spinge la comunità immigrata una maggiore coesione, a cercare di sfruttare il proprio peso numerico, che di certo non è indifferente, essendo pari agli inizi del Novecento a oltre un milione di anime. Purtroppo, però, lo stato italiano si rivela incapace di difendere i suoi cittadini all’estero. E la situazione di questi ultimi è peggiorata dalla drastica caduta dei prezzi del caffè nella seconda metà del decennio e dalla conseguente crisi delle esportazioni, particolarmente virulenta alla fine del secolo.