Comunità italiana in Australia. Cura pastorale: note storiche, sviluppo e opzioni future
1. Introduzione
Le ricerche sulla comunità italiana, nei vari stati o nel suo insieme, sono aumentate enormemente negli ultimi tre decenni1. Svariati saggi hanno infatti colto e raccontato l’esperienza dei primi insediamenti, l’emigrazione di massa dopo la seconda guerra mondiale e il lento successivo integrarsi. È interessante notare come diversi scritti portano la firma di autori inglesi. La storia e la cultura italiana hanno fatto da traino, per questi “italiani di adozione”, nell’approfondimento dei vari aspetti della collettività immigrata in Australia arricchendola di contenuti.
I numerosi saggi storici delineano una dettagliata fotografia della comunità italiana. Tuttavia certe posizioni ideologicamente contrarie alla Chiesa e la difficoltà di studiare una storia non sempre documentata e, se documentata, dispersa in numerosi archivi soprattutto di Congregazioni religiose, hanno oscurato l’impegno della Chiesa che è rimasto letteralmente dietro le quinte, quasi annullato. Questa assenza in scritti firmati da accademici, sociologi e storici (anche se non mancano le eccezioni2) si applica del resto anche ad altri paesi, dove la cura pastorale degli italiani ha avuto uno sviluppo ed una struttura ben più visibile di quanto avvenuto in Australia. Si pensi, per esempio, alle parrocchie nazionali nel Nord America e alla rete di missioni in vari paesi del Nord Europa3.
Questo saggio intende offrire: un ragguaglio di alcuni dati statistici desunti dall’ultimo censimento; un esame dei tre periodi storici (prima, durante e dopo la seconda guerra mondiale) in cui è possibile suddividere la storia della cura pastorale dell’emigrazione italiana in Australia; i risultati maturati grazie all’apporto di molti operatori pastorali; e, in conclusione, alcune brevi riflessioni sul futuro della comunità italiana in Australia.
2. Alcuni dati statistici
I dati dell’ultimo censimento (2001) rivelano che in tale anno vivevano in Australia 218.718 nati in Italia e 800.256 discendenti di italiani. La popolazione nata in Italia o con origini italiane superava dunque il milione e rappresentava poco più del 20% dell’intera popolazione cattolica in Australia (5.000.451).
In questo campione, 353.603 indicano come lingua preferenziale in famiglia l’italiano. L’uso della lingua, per fasce d’età, è così distribuito: 5.391 (0-4anni), 10.312 (5-11 anni), 15.852 (12-19 anni), 127.178 (20-49 anni), 74.287 (50-64 anni), 89.671 (65+ anni). Bisogna notare il numero rilevante di quelli nella fascia dai 20 ai 49 anni: rappresentano infatti le ultime ondate dell’emigrazione italiana in Australia insieme a coloro che hanno mantenuto un uso attivo della lingua madre. I valori, paragonati a censimenti previi, manifestano un declino in atto, tuttavia la pastorale per gli italiani di lingua italiana non è destinata a scomparire in pochi anni, come alcuni sembrano ritenere.
La maggiore concentrazione di coloro che usano tuttora la lingua italiana si trova negli stati del Victoria (Melbourne) con 149.140 e del New South Wales (Sydney) con 96.813. In tutti gli altri i livelli sono minori.
3. Appunti storici
Una caratteristica nella storia dell’emigrazione italiana in Australia4, come del resto in tante altre nazioni meta di flussi italiani consistenti è l’impegno ecclesiastico a fianco dell’emigrante. Fin dall’inizio molti religiosi, “mandati da Dio” secondo una felice espressione di Pino Bosi 5, affiancarono infatti la presenza italiana in Australia.
La divisione nei tre periodi (prima, durante e dopo) la seconda guerra mondiale è opinione personale e viene suggerita come possibile formula per una interpretazione non solo dell’emigrazione italiana in Australia, ma anche dell’operato dei rappresentanti della Chiesa italiana a beneficio degli aborigeni prima e in seguito di gruppi di emigrati italiani.
Prima della seconda guerra mondiale
Il primo censimento del 1828, nello stato del New South Wales, annoverava 23 nomi di origine italiana. Gli immigrati raggiungono la cifra di 3.890 nel 1891 e di circa 33.000 all’inizio della seconda guerra mondiale6.
Un primo gruppo di ecclesiastici e religiosi italiani approdò in Australia per sostenere gli sforzi rivolti all’evangelizzazione degli aborigeni. Alcuni di essi divennero vescovi come il cappuccino Eleazaro Torreggiani (1879), Giovanni Cani (1879) ed Ernesto Coppo, (1923) nel tentativo, incoraggiato da Roma, di rompere l’egemonia di posizioni e ruoli clericali difesi strenuamente dal clero irlandese.
La situazione penosa in cui versavano le tribù aborigene aveva colpito l’attenzione di Roma. Su sollecitazione della Congregazione per la Propagazione della Fede, ma anche per l’interessamento di John Polding, arcivescovo benedettino di Sydney, diversi missionari italiani accettarono la sfida. Per la cronaca si possono ricordare: i passionisti (Raimondo Vaccari, Maurizio Lencioni, Luigi Pesciaroli), i benedettini (Emanuele Ruggero, Onorio Garrone, Ottavio Barsanti, Vincenzo Coletti), molti sacerdoti ed in particolare la spedizione di cinque sacerdoti, tra i quali padre Mazzucconi e due catechisti delle Missioni Estere di Milano (PIME), nella Nuova Caledonia.
I loro sforzi non approdarono a molti risultati positivi, ad eccezione dell’abbazia benedettina di New Norcia nel Western Australia. Il sogno benedettino di una conversione degli aborigeni tramontava con grande costernazione di coloro che si erano adoperati per il suo successo.
Un secondo gruppo, che coltivò la speranza di poter evangelizzare gli Aborigeni, venne in contatto con gli emigrati italiani. La stragrande maggioranza apparteneva alle seguenti congregazioni religiose: francescani, salesiani e gesuiti7.
Erano francescani padre Severino Mambrini, padre Ludovico Cigliano e padre Settimo Balò. Il primo (Abbadia S. Salvatore 29.11.1875 – 16.12.1940) fu davvero “personalità francescana”, come ebbe ad affermare al suo funerale a Sydney McGuire, vescovo di Rockhampton (Qld.) 8. Dopo essersi accattivato le simpatie del clero locale, profuse le sue migliori energie nella visita ai numerosi connazionali che si erano insediati nel Nord Queensland. In un famoso memorandum esprime le sue impressioni in seguito alla visita di numerosi gruppi di italiani dediti alla coltivazione e al taglio della canna da zucchero che, nonostante l’abbandono religioso in cui versavano, avevano mantenute le buone tradizioni di famiglia. Il secondo (Forio 20.9.1895-17.3.1969) fu internato come prigioniero di guerra in Australia. Il terzo (Civitella 3.7.1891-11.1.1975) fu inviato dai superiori per continuare l’opera del confratello Mambrini subito dopo la Seconda Guerra Mondiale. Incontrò grandi difficoltà nello stabilire un “modus operandi” con i confratelli “australiani” e con Daniel Mannix, arcivescovo di Melbourne.
Tra i salesiani possiamo ricordare il vescovo Ernesto Coppo (6.2.1870-28.12.1948), inviato nel Kimberley (al nord dell’Australia), perché si dedicasse all’evangelizzazione degli aborigeni. Venuto in contatto con la situazione di “abbandono disperato” in cui versavano gli emigranti italiani in Australia, avviò la prima missione nella parrocchia di Richmond (Vic.) 9. L’attività fu presto estesa ad altri centri con elevata presenza di italiani. Dovunque le circostanze lo permettessero, creava società di mutuo soccorso per venire incontro alle famiglie che versavano in condizioni di povertà.
Padre Paolo Zolin (21.7.1879-21.8.1963), vicentino di Breganze, fu il primo sacerdote ad interessarsi degli italiani nello stato del Sud Australia. Il suo dettagliato resoconto rivela una conoscenza approfondita dei gruppi di immigrati, sia ad Adelaide che in vari centri rurali dello stato del Sud Australia. Ha lasciato un valido censimento della comunità: 808 famiglie per un totale di 5.050 individui su una popolazione cattolica di circa 55.000. Nelle sue conclusioni spiega le ragioni della limitata pratica religiosa: la mancata celebrazione di feste religiose, l’atteggiamento non conciliatorio del clero locale, il contatto continuo con il mondo protestante e i matrimoni misti.
I gesuiti furono numerosi e importanti. Padre Vincenzo de Francesco(23.11.1985 in Massercola (Caserta)-20.10.1974) ricevette l’incarico di cappellano della comunità italiana residente a Melbourne dall’arcivescovo Mannix nel 1921 e mantenne tale incarico sino al 193410. Erano gli anni della depressione, un periodo in cui, ricorderà Bob Santamaria, “non era il caso di reagire a insulti che venivano rivolti agli Italiani o di sfidare la superiorità dei Protestanti o degli stessi Cattolici” 11. Padre Francesco non sempre ricevette la collaborazione e l’aiuto dalla sua stessa comunità, cosa che avrebbe agevolato enormemente il suo lavoro.
Gli succedette nel 1938 padre Ugo Modotti (2.5.1897-12.1971), che ristabilì un proficuo contatto con la comunità di Melbourne e dintorni. Durante gli anni precedenti lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, nella comunità italiana, si verificarono episodi incresciosi fra gli aderenti al Fascio e i simpatizzanti di sinistra12. Con l’appoggio incondizionato dell’arcivescovo Mannix, che ne stimava le doti brillanti, padre Ugo fondò l’Opera Religiosa Italiana. Questa, oltre ad impegnarsi per salvaguardare gli interessi spirituali della comunità di Melbourne, formulò un piano di assistenza per l’intero comunità australiana. Il piano non incontrò, però, il favore di Giovanni Panico, allora nunzio apostolico. Le ricerche d’archivio, anche se non conclusive, rivelano che Roma aveva già deciso di affidare la cura spirituale della comunità italiana in Australia a congregazioni religiose di origine italiana.
Quali erano le motivazioni di questa “scelta storica”? I vescovi australiani perseguivano una politica assimilazionistica e Roma, forse edotta dall’esperienza delle migrazioni europee nel Nord e Sud America, propendeva per una politica di lenta integrazione e la creazione di proprie strutture per assistere gli emigrati. L’eredità lasciata da Modotti, con una sede provvisoria a Hawthorn, fu presa in consegna dai cappuccini, immediatamente dopo la partenza del gesuita da Melbourne.
Oltre ai membri di congregazioni religiose, altri hanno preso a cuore le sorti della comunità italiana. Si possono ricordare don Giuseppe La Rosa; due ecclesiastici di spicco come i già citati monsignor Giovanni Panico e Daniel Mannix; ed, infine Bob Santamaria, una delle personalità più rilevanti della scena politica del ventesimo secolo in Australia.
Il primo (24.10.1915-6.2.1990) era di origini calabresi e giunse in Australia il 21 maggio 1939 per rivedere alcuni parenti13. Fu trattenuto a Sydney dallo scoppio della guerra. Accolto da padre Mambrini, divenne un valido appoggio del francescano e, dopo la sua morte, si prodigò instancabilmente per la comunità italiana della città. Con l’appoggio della Nunziatura, si adoperò per portare sollievo e conforto ai numerosi internati e prigionieri di guerra italiani nei vari campi di raccolta. Sostenne le Conferenze di S. Antonio e della S. Vincenzo de Paolis e fondò il Segretariato Sociale Italiano per le famiglie povere in Italia. Due delle chiese (Surry Hills, in seguito presa dagli scalabriniani e Smithfield dai benedettini), dove Don Giuseppe si incontrava con la comunità italiana, divennero centri di irradiazione missionaria.
Daniel Mannixe Giovanni Panico, avevano vedute molto diverse. Il primo, ardente sostenitore della “causa irlandese”, aveva ideato e sostenuto il progetto della cura pastorale per gli italiani in tutta l’Australia e, durante la riunione annuale dei vescovi australiani ad Adelaide nel 1944, ne aveva ricevuto un tacito consenso. Se il piano studiato dal gesuita Modotti fosse decollato la storia dell’assistenza spirituale agli emigrati avrebbe avuto sviluppi ben diversi!
Panico coltivava invece l’ambizioso progetto di restituire l’Australia ai cattolici australiani. Era un disegno suo, segreto, che si sposava con i desideri della gerarchia ecclesiastica romana. Partendo da Roma, aveva ricevuto dal cardinale Fumasoni Biondi l’incarico di operare in favore dell’autonomia degli altri gradi della gerarchia ecclesiastica australiana, la quale aveva forti vincoli di dipendenza dalla curia irlandese. Era proprio un impegno delicato… 14
Per quanto riguardava la salvaguardia della fede dei numerosi italiani nel continente australiano, Panico era convinto che fosse meglio ricorrere a forze “esterne”, più sensibili al valore della lingua e della cultura, tipiche di ogni emigrante. Con il rischio di forzare o condizionare ricerche archivistiche, che da sole potrebbero gettare luce sulla verità degli avvenimenti, ritengo che con molta probabilità “l’opzione romana” 15, come venne battezzata, si ricollegava all’esperienza avuta con le emigrazioni europee in Nord e Sud America e con la paura che la gerarchia locale non fosse preparata a gestire situazioni storiche similari.
Bob Santamaria (15.8.1915-1998), o, secondo le sue origini eoliane, Bartolomeo Agostino Santamaria, è stato uno uno degli scrittori più prolifici nel campo sociale e politico. Ha pubblicato una serie di libri e studi monografici, oltre a moltissimi articoli per la stampa australiana. Dopo la sua morte, avvenuta nel 1998, numerosi saggi sono stati scritti su di lui; pochi, però, hanno considerato l’importanza della sua provenienza etnica. Solo il giornalista Les Carlyon lo ha definito: un “nazionalista australiano e italiano fino al midollo”. Lo stesso Santamaria non ha mai voluto, e non senza ragione, sottolineare la propria appartenenza italiana, se non verso la fine della sua esistenza. Nel 1939, scrive: “Nessuna sfida per la Chiesa in tempi recenti appare così irta di difficoltà come l’emigrazione di popolazioni italiane in paesi anglosassoni. Sappiamo bene a quali difficoltà vanno incontro i numerosi missionari che operano in terre di missione, in mezzo a culture così diverse…E ci sarebbero non poche persone che sarebbero disposte ad ammettere che i missionari hanno maggior successo nelle terre di missione a confronto, per esempio, con i numerosi Italiani, nominalmente cattolici, che si sono stabiliti in Australia16”.
Durante la seconda guerra mondiale
La seconda guerra mondiale rappresenta un capitolo doloroso nella storia dell’emigrazione italiana in Australia17 Gli emigrati italiani, naturalizzati o meno, divennero vittime di azioni repressive da parte dell’allora Governo australiano, perché ritenuti nemici dello Stato. Era la prassi dettata da un rigido concetto di sicurezza nazionale.
In Australia, nel 1940, vivevano circa 35.000 tra italiani e oriundi. Su un totale di 7.711 internati (includendo giapponesi e tedeschi), 4.727 maschi italiani (con casi isolati anche di donne e bambini) furono rinchiusi in campi dove le condizioni di vita, pur non eguagliando quelle dei campi di concentramento in Germania, li privavano dei diritti essenziali. Non era inoltre possibile parlare l’italiano neppure al telefono, come non era possibile indire e partecipare a riunioni di qualsiasi genere. Queste misure draconiane gettarono nell’insicurezza psicologica e nella privazione altrettante famiglie, rafforzando, nel contempo, la certezza che gli italiani sabotavano gli sforzi bellici del popolo australiano.
L’atteggiamento del governo australiano appare, secondo diversi studiosi, estremamente guardingo e ingiustificato, suggerito da timori irrazionali. Negli Stati Uniti, su una popolazione di circa 600.000 con passaporto italiano, solo 2100 italo-americani furono internati.
Anche se durante il periodo fascista, nella comunità italiana, si erano inaspriti i rapporti fra simpatizzanti del fascio ed elementi di sinistra, le misure adottate non hanno trovato riscontro nel comportamento esemplare degli internati italiani, né tanto meno sono state sostenute da inchieste di polizia. Il solo fatto di essere italiano o discendente di italiani veniva considerato come ragione sufficiente per arresti dettati da considerazioni di carattere militare e ideologico e dalla sudditanza alla Corona Inglese.
Oltre agli internati, in vari campi furono rinchiusi numerosi prigionieri di guerra (circa 15.000). Questi vennero utilizzati nelle campagne australiane per sopperire alla mancanza dei giovani chiamati alle armi. Al termine del conflitto mondiale, ritornati in Italia, molti decisero di reimbarcarsi per l’Australia, come emigranti. Qui potevano contare sull’amicizia, nata e cresciuta durante la prigionia, della popolazione locale, anche perché il contributo dei giovani italiani, molto laboriosi e con esperienza già acquisita nella coltivazione dei campi o nella cura del bestiame, era stata molto apprezzata.
Sia per gli internati che per i prigionieri di guerra molto si prodigò il nunzio giovanni Panico. Nella Prefazione di un suo messalino di 846 pagine dal titolo L’amico del Prigioniero, annota cheil compendio è stato concepito per essere: “un compagno fedele […] e una consolazione sicura nei tristi e solitari abbandoni della vostra prigionia” 18. L’azione del nunzio non si fermò al Catechismo. Esiste un voluminoso dossier di 121 rapporti, 6 relazioni, 1.330 telegrammi in chiaro e 132 in cifrato, inviati alla Santa Sede, e circa 1000 metri di pellicola su cui trascrisse i dati principali. Si calcola che circa 400.000, tra lettere e telegrammi, siano stati trasmessi da e per l’Australia19.
L’opera personale del nunzio fu imitata dai due uffici diocesani di Melbourne e di Sydney. Le richieste di aiuto degli internati e dei prigionieri di guerra e il desiderio di avere notizie delle famiglie rimaste in Italia sono in attesa di essere portate alla luce. Esiste, infatti, una nutrita raccolta di scritti, per la maggior parte lettere, scambiati con le autorità ecclesiastiche del tempo, soprattutto con monsignor Lyons a Melbourne e con monsignor Freeman, che più tardi divenne cardinale di Sydney20.
Un capitolo a parte meritano quei sacerdoti (non pochi gli italiani e in parte essi stessi prigionieri di guerra) che si adoperarono nei campi per dare sollievo ai prigionieri e agli internati.
Dopo la seconda guerra mondiale
L’orrore e la costernazione per le corazzate giapponesi inaspettatamente apparse nella baia di Sydney suscitarono nel popolo australiano la sensazione che l’Australia fosse, nel suo isolamento geografico e culturale, eccessivamente vulnerabile alle incursioni di nemici vicini. L’estensione vastissima del territorio e la dimensione ridottissima della popolazione esistente erano due handicap enormi. Occorreva popolare un continente disabitato.
Senza negare le proprie radici storiche (la dipendenza dal mondo inglese), il ventaglio delle possibili nazionalità da reclutare per l’Australia, in un primo tempo incluse quelle del Nord Europa, poi si allargò, non senza difficoltà, anche a quelle dell’area mediterranea, somaticamente diverse. Per questo motivo tra gli italiani, per vari anni, si diede preferenza ai settentrionali. Nel giro di due decenni (1950-1970) approdarono in Australia oltre 300.000 italiani, singoli o con famiglie giovani. Circa 60.000 ritornarono in patria per vari motivi, non ultimo una malcelata nostalgia. “Ero stufo di non sentire le campane del mio paese”, sospirò un connazionale sulla nave durante il viaggio di ritorno.
Oggi, non c’è stato o regione dell’Australia dove non si trovi una presenza italiana. Come non esiste regione o provincia dell’Italia che non vi sia rappresentata. Alcune regioni, come il Veneto, la Campania, la Calabria e la Sicilia, contano decine di migliaia di corregionali emigrati nel quinto continente. In una emigrazione avvenuta per motivi economici, di carattere familiare o di complementarietà, la comunità italiana in Australia ha via via assunto una precisa identità multipla sotto vari aspetti: associativo, sociale, culturale e religioso. Le diversità si sono in parte ridisegnate sotto l’influsso della comunità australiana e della Chiesa Cattolica.
Sarebbe interessante evidenziare come le associazioni cattoliche, all’interno della comunità italiana, si siano mobilitate per allargare i confini “mentali” frutto di un provincialismo di provenienza. Ne è un esempio la Federazione Cattolica Italiana composta da elementi eterogenei provenienti da varie regioni.
All’inizio dei consistenti flussi migratori dall’Italia, la Santa Sede nel 1952 pubblica il documento Exul Familia. Il sociologo Frank W. Lewins nota che esso non viene né tradotto, né pubblicato in Australia21.Il sacerdote australiano Frank Mecham giustifica la posizione assenteista dei vescovi australiani con la motivazione: “che già possedevano un sistema che funzionava in maniera soddisfacente e confacente alle loro esigenze. Non pareva giusto adottare un sistema diverso” 22.
Il sistema in vigore riguardava la promozione e l’inserimento nella società australiana di emigranti e rifugiati, conforme alle politiche governative del Paese. I sacerdoti stranieri che desideravano dedicarsi alla cura pastorale dei nuovi arrivati venivano considerati assistenti dei parroci sui quali, e solo su di loro, cadeva la responsabilità morale di provvedere agli interessi spirituali dei cattolici immigrati. L’esperienza delle parrocchie nazionali nel Nord America, ritenuta nociva alla coesione delle comunità cattoliche in Australia, non venne accettata. La giustificazione addotta non convince per la sua precarietà storica23. Il riconoscimento giuridico dei cappellani di emigrazione, anche dopo la pubblicazione della Pastoralis Migratorum Cura, sarà lasciata alla scelta dei singoli vescovi diocesani.
Mancando chiare direttive dalla Conferenza nazionale dei Vescovi Australiani sul ruolo ed azione pastorale dei cappellani per gli emigranti, a questi vennero lasciate poche scelte: lavorare partendo dal contesto parrocchiale, con tutti gli impegni specifici relativi (come nel caso degli scalabriniani e dei cappuccini) e, contemporaneamente, farsi carico di attività svolte a beneficio delle comunità etniche24; oppure operare in sintonia con i centri religiosi, voluti e costruiti grazie al lavoro e alle risorse di comunità etniche, senza che questi fossero equiparati al sistema parrocchiale.
La partita si giocava sulle buone intenzioni e lo spirito di accoglienza dimostrati dai parroci, ai quali occorreva far continuamente riferimento per l’espletamento di un’azione pastorale specifica25. È inutile aggiungere che un simile metodo è stato all’origine di non pochi fraintendimenti, soprattutto nei primi anni. Particolarmente “penalizzati” sono stati i cappellani singoli di collettività non numerose. Attualmente, come in passato, molte delle cappellanie sono gestite da membri di congregazioni religiose.
Per quanto riguarda la comunità italiana, diverse congregazioni si attivarono per offrire un’assistenza religiosa. Una inchiesta approfondita, condotta nel 2002, ha evidenziato il coinvolgimento, a livello pastorale, di circa 15 congregazioni, sia maschili (cappuccini, gesuiti, salesiani, benedettini, scalabriniani, francescani, passionisti, paolini, missionari colombani) che femminili (canossiane, claretiane, suore di S. Anna, figlie del Sacro Cuore) 26.
L’inchiesta ha colto il movente iniziale di tale scelta, i suoi sviluppi, le realizzazioni concrete, le difficoltà incontrate e le possibili prospettive future. Il questionario ha offerto l’opportunità unica, a singole congregazioni religiose, di esprimersi sul merito della loro opera a favore delle collettività italiana. Da questo lavoro risaltano le difficoltà incontrate dai singoli, all’interno della propria congregazione religiosa, per avere un riconoscimento dell’impegno assunto. Le iniziative, pur approvate dalla gerarchia ecclesiastica locale, devono la spinta iniziale, il lavoro e l’impegno successivi al sostegno delle singole congregazioni religiose, in assenza di un sufficiente coordinamento con la Chiesa australiana.
Non si deve dimenticare che agli inizi dell’insediamento di comunità italiane sul vasto territorio australiano, l’agente pastorale fu obbligato a prestare opera come interprete e consulente per il lavoro, per l’abitazione, per organizzare corsi di lingua inglese, ecc., senza tralasciare il lavoro di evangelizzazione27. I religiosi, con le proprie famiglie religiose, furono attenti a cogliere le esigenze dei nuovi arrivati, quali la creazione di asili-nido per le madri impegnate in turni di lavoro, la fondazione successiva di case di riposo per anziani ed anziane, la pubblicazione di stampati in lingua italiana e di sussidi liturgici, senza dimenticare la collaborazione alla buona riuscita di varie manifestazioni da catalogare come “religiosità popolare”.
Una menzione particolare meritano le “missioni volanti o popolari”, esaminate accuratamente in una recente pubblicazione28. Queste hanno rappresentato, a mio parere, un aspetto esaltante dell’attività missionaria a favore dei numerosi emigranti italiani. Il consuntivo documentato fino al 2000 fornisce i seguenti dati: 1.303 missioni e tridui condotti dai missionari scalabriniani e cappuccini in molte zone dell’Australia e, più limitatamente, della Nuova Zelanda, per un totale di 1.850 settimane. Ogni missione ha comportato e comporta la visita sistematica alle famiglie per poterle radunare, per attività liturgiche o sacramentali, nella chiesa parrocchiale del luogo. La geografia dei luoghi visitati, con l’elenco riportato in appendice dà una indicazione dello sforzo sostenuto29. Molto probabilmente (ma è solo un parere personale), la predicazione di missioni accanto alle parrocchie territoriali, ai centri di azione religiosa a favore degli emigrati, alla presenza in varie opere quali l’informazione tramite i mass media, programmi radio ecc. è stato il fattore più importante nella tenuta religiosa degli italiani. Circa il 95% degli italiani emigrati in Australia si dichiara appartenente alla religione cattolica, una percentuale positiva se paragonata ad altre etnie cattoliche. 30
È appunto sulla base di queste considerazioni che sarà molto difficile scrivere una storia del cammino di integrazione religiosa della collettività italiana in Australia, senza visitare gli archivi delle varie congregazioni religiose che si sono storicamente impegnate nella cura pastorale degli emigranti italiani. Con questa affermazione non intendo sottovalutare l’opera benemerita di tanti sacerdoti diocesani che, ritornati in Australia dopo un tirocinio nelle università romane, prestarono la loro opera di assistenza religiosa agli emigrati italiani nelle loro parrocchie o diocesi. Data la diversità delle fonti e la rapidità con cui i sacerdoti passavano di parrocchia in parrocchia, una simile ricostruzione presenta numerose difficoltà.
Accanto ai sacerdoti occorre collocare il numero ancora più nutrito di suore cattoliche che, ancor prima dell’avvento dei sussidi governativi, si sono rimboccate le maniche per ospitare in aule già sovraffollate i “nuovi” alunni. Le loro iniziative e le loro attività sono rintracciabili, nella maggior parte dei casi, sui registri dei battesimi, dei matrimoni e dei funerali, sui bollettini parrocchiali e sui registri di scuola.
4. Il contesto sociale e religioso
Anche se provenienti dagli stessi paesi e quindi portatori di una stessa eredità morale, gli emigranti si trovarono in situazioni e contesti diversi. Questi, in parte, agirono sulla psiche e sull’animo dell’emigrante obbligandolo con il passare del tempo, con diversa intensità e rapidità, ad assoggettarsi a mutamenti e nuove fusioni dovuti alla diversità della cultura del luogo che li ospitava.
Per l’emigrato italiano in Australia le varie componenti della società civile, della Chiesa cattolica e la convivenza con altri emigrati italiani, provenienti da altre regioni e mai incontrati prima, hanno costituito il contesto in cui è stata gradualmente costruita una nuova consapevolezza di se stessi.
La società australiana
La società australiana ha subito profonde trasformazioni dopo la seconda guerra mondiale. Consapevole oramai di essere entrata a far parte di una scacchiera ben più vasta del suo pur vasto territorio, è andata maturando una risposta, non sempre lineare, alla domanda: “con chi dobbiamo costruire un futuro di stabilità e di sicurezza? Possiamo rimanere ancorati alla madrepatria, l’Inghilterra, essa stessa dubbiosa sulle sorti di un’Europa unita? O dobbiamo invece allinearci con il continente americano o con le nazioni emergenti dell’Asia che sono i nostri vicini di casa?”
Una prima risposta è stata data dal governo laburista di Gough Whitlam nel 1972 con il lancio e la promozione della politica multiculturale31. Questa mirava a cambiare l’autoconsapevolezza dell’australiano, non più solo nell’orbita del Commonwealth Britannico, ma cittadino di una società dove l’eterogeneità di razze e culture, in piena espansione dopo gli anni Cinquanta con l’emigrazione di centinaia di migliaia di europei, entrava di diritto a far parte di un paese multiculturale. Una visione, prima che una politica governativa, che ha avuto i suoi ammiratori, ma anche i suoi detrattori. Secondo questi ultimi si barattava una identità nazionale ben precisa, rappresentata dalla sudditanza alla Corona Inglese, con identità molteplici non sempre conciliabili fra loro o riconducibili a fattori comuni.
Questa svolta è stata interpretata da alcuni sociologi non soltanto come un passaggio storico, ma come una rifondazione della stessa nazione. Lo studioso, Allan Patience, scrive: “Non è da scartare l’idea che in un prossimo futuro l’anno 1947 (che segna l’inizio delle migrazioni europee) possa essere riconosciuto come più significativo del 1788, la data di fondazione dell’Australia moderna. Anche se l’affermazione appare azzardata, in quell’anno si iniziò una profonda trasformazione della società australiana, mai provata nella sua giovane storia” 32.
Non tutti sono d’accordo con una simile analisi. La storia degli ultimi 30 anni dimostra comunque che alcuni traguardi sono stati raggiunti. Oramai la diversità, pur con molti rallentamenti e brusche frenate, è entrata a far parte della vita quotidiana del cittadino australiano. Investe ogni minuto e ogni ora del giorno: a tavola, sul lavoro, nei luoghi di divertimento, ascoltando programmi radio o guardando la televisione, leggendo la stampa etnica, con l’insegnamento di lingue diverse, con la creazione di club e luoghi di ritrovo. L’architettura stessa, la moda, il modo di vestire, le cerimonie religiose, le processioni, la politica, gli spettacoli ecc. ne sono una manifestazione. È impossibile dire se ci siano aspetti della vita quotidiana che non siano stati contagiati dalla politica multiculturale. Ma questa, come ogni altra mossa politica, avrebbe vita corta se non fosse sostenuta dall’evidente cambiamento demografico della popolazione australiana: il 27% è nato altrove, ma si raggiunge il 50% se si aggiungono i nati in Australia con genitori stranieri.
Queste percentuali per la Chiesa cattolica sono ancora più consistenti e, come annotato più avanti, questa metamorfosi “insolita” per l’emigrante, che era giunto in Australia negli anni Cinquanta o Sessanta, ha avuto indirettamente un impatto preciso all’interno della Chiesa.
La Chiesa in Australia
La Chiesa cattolica in Australia aveva un volto molto diverso cinquant’anni fa. Vi era un sufficiente clero autoctono e con esso un numero ragguardevole di sacerdoti di origine irlandese. Inoltre grazie alla presenza di opere di carattere sociale (ospedali, ospizi, case di cura o di riabilitazione), negli anni subito dopo la guerra, anche grazie all’apporto dei nuovi emigranti cattolici, era avvenuta un’enorme espansione del numero di parrocchie e di attrezzature parrocchiali. A Melbourne, l’arcivescovo Mannix, tra il 1945 ed il 1965 aveva aperto 70 nuove comunità parrocchiali. Il ritmo di espansione e di sviluppo era sostenuto dai contributi dei fedeli. Oltre alle numerose scuole cattoliche vi era una sottocultura religiosa33 rappresentata dalle numerose associazioni che raggruppavano varie categorie di operai, professionisti e giovani cattolici34. Accanto al fiorire di numerose iniziative, mirate alle necessità della base operaia del cattolicesimo australiano, gli storici mettono in evidenza la scarsa preparazione intellettuale del laicato35. Autori come Naomi Turner, Val Noone, W. T. Southerwood sottolineano l’atteggiamento pragmatico prevalente in quel tempo e la debole incidenza del pensiero cattolico sulla società australiana. Con la scomparsa dell’arcivescovo Mannix a Melbourne e del colto arcivescovo James Duhig a Brisbane, la voce della Chiesa negli affari pubblici del paese praticamente si spense. Patrick O’Farrell, lo storico più attento e riconosciuto nell’ambito della Chiesa, parla addirittura di paralisi36.
Cinquant’anni dopo la stessa Chiesa appare profondamente trasformata. Robert E. Dixon è da anni impegnato nell’analisi dei dati statistici riguardanti la Chiesa australiana. Nella sua ultima pubblicazione traccia un bilancio preoccupante, sottolineando gli aspetti più macroscopici: l’abbandono dello status sacerdotale o religioso di molti sacerdoti o consacrati; la chiusura di case di formazione e di diversi seminari; la gestione delle scuole cattoliche affidata ai laici; la partecipazione alla messa domenicale, che si avvicinava al 60% negli anni Cinquanta, scesa al 14%; il senso di appartenenza alla Chiesa dei cattolici, giovani famiglie e i giovani in generale, concepito al di fuori degli insegnamenti ufficiali; l’immissione di nuove culture cattoliche provenienti da moltissimi paesi diversi non recepita nella sua ricchezza pentecostale e, sottolinea infine Dixon, il ruolo della donna e del laicato che stenta a decollare37.
Di fronte a questa profonda trasformazione dei quadri, funzionanti solo 50 anni fa, molti si chiedono quale sarà il futuro della Chiesa in Australia. L’immissione sempre più rapida di sacerdoti “stranieri”, l’emergenza documentata, a livello di senso di appartenenza e di adesione agli insegnamenti della Chiesa, da parte di comunità etniche soprattutto se provenienti dall’Asia e l’affermarsi di movimenti come il Cammino Neo-Catecumenale, il Movimento Carismatico, il Thomas Moore Center a Melbourne ed altri aprono, però, varchi di speranza.
Per la comunità italiana, ormai ritenuta matura nel suo cammino di integrazione nella società australiana anche se, come ritengo, con una sua identità da rispolverare, almeno in parte, anche dalle forze che agiscono nel campo specifico della pastorale. Ricordo quel che mi raccontava un sacerdote francescano di Adelaide, da decenni in Australia e sempre a contatto con gli emigrati Italiani, alcuni anni or sono.
Gli Italiani sono arrivati in Australia, confidava il francescano, con riconosciute carenze conoscitive della fede cristiana, ma una carica notevole di espressività, anche emotiva, verso la religione dei loro padri. Non importa se la loro pratica religiosa (messa domenicale, contributi finanziari alla Chiesa regolari e iscrizione dei loro figli alla scuola cattolica) era ritenuta dal clero del luogo scandalosa. Sono rimasti fedeli ad uno spiccato senso della festa religiosa (che qui in Australia meriterebbe un capitolo a parte), hanno formato numerose associazioni che portano il nome del Santo del paese o della regione da cui provengono, hanno mantenuto un culto ed una venerazione particolare per i morti. I loro discendenti, pur avendo assunto le caratteristiche dell’australiano medio, piuttosto sordo alla dimensione trascendentale della vita, si dibattono tuttora fra l’espressione popolare del cattolicesimo esibito dai loro genitori o nonni e l’assenteismo e il rifiuto della Chiesa e dei suoi valori. Sospirando, il francescano concludeva che la fuga degli anglosassoni dalla Chiesa ne ha lasciato i banchi semivuoti, riempiti solo in parte dagli italiani.
5. Il bilancio della presenza italiana in Australia
Statistiche
Le statistiche sulla pratica religiosa degli Italiani devono essere estrapolate da categorie che riguardano gli emigranti in genere, come “i nati altrove” e coloro che, pur essendo nati in Australia, hanno uno o entrambi i genitori nati altrove. I sondaggi all’interno della Chiesa cattolica o in collaborazione con altre Chiese rivelano che la pratica religiosa, come l’adesione agli insegnamenti ecclesiastici, degli immigrati nati altrove è alla pari o sorpassa in percentuale coloro che sono nati in Australia. L’ultimo censimento rivela un dato molto incoraggiante: il 95.4% degli Italiani e dei loro discendenti si dichiara cattolico. Lo studioso Desmond Cahill spiega la forte tenuta degli italiani con il fatto che, in un mondo sempre più globalizzato nelle sue manifestazioni, diviene più impellente la ricerca di uno spazio spirituale, in cui ritrovare le radici della propria appartenenza, una specie di “casa”, di comuni affetti e sentimenti che lega e affratella, nonostante le distanze geografiche.
Associazioni e Feste
Le circa 150 “feste religiose”, gestite da altrettante associazioni in tutti gli angoli del continente australiano, riflettono una storia ed una cultura tipica soprattutto del Meridione38. Nonostante le frequenti lamentele sulla mancanza di nuove leve da parte dei membri del comitato oramai in età avanzata, le giovani generazioni partecipano soprattutto alla parte sociale delle feste. È un esempio tipico del rapporto fra il passato storico degli emigrati e le nuove condizioni culturali in cui vivono e agiscono i giovani.
Queste feste, a distanza di anni, dimostrano una vitalità notevole. Gestite e controllate da comitati laici, senza o con un apporto limitato da parte del sacerdote le cui prestazioni si limitano alla parte religiosa della celebrazione, hanno compiuto progressi notevoli in una mediazione con l’ambiente civile e religioso. Alle feste intervengono rappresentanti del mondo politico e rappresentanti della Chiesa, attirati dalla partecipazione massiccia (a volte migliaia di persone). La presenza di autorità civili come di autorità religiose aiuta il comitato ed i loro simpatizzanti a costruire una immagine positiva e “pubblica” della festa.
Non sono mancati fraintendimenti a causa di una certa platealità delle feste religiose che, in alcune manifestazioni iniziali, erano accusate di “superstizioni pagane”, ma con il passare del tempo la celebrazione festosa ha assunto caratteristiche più contenute. Pur vestiti all’australiana (soprattutto nella parte sociale della festa dove le tradizioni italiane, come la musica ed il folklore, si sono ridotte di molto), l’anima continua a riflettere radici e origini italiane.
La sfida continua, per gli operatori pastorali di lingua italiana, è la chiara consapevolezza, ribadita da numerosi documenti della Chiesa, che nello sforzo di evangelizzare le tante espressioni della cultura popolare religiosa, occorra avere il coraggio e la perseveranza di lasciarsi evangelizzare. Il peggiore pericolo sarebbe di ignorare o peggio ancora di ostacolare tutto questo adducendo ragioni di controllo amministrativo o malcelate giustificazioni ideologiche unilaterali. Qualunque sia l’opinione che si ha di queste feste, esse dimostrano una capacità notevole di aggregazione sociale e di espressività culturale anche nel contesto di una società secolarizzata.
Ruolo storico
Gli autori del già menzionato Italo-Australiani si interrogano su quale impatto e ruolo possa aver avuto l’emigrazione italiana nel contatto con la società australiana39. Essi rilevano che dopo l’arrivo della grande migrazione italiana del dopoguerra: “La presenza italiana cominciò a contribuire in profondità ai mutamenti irreversibili della comunità e dell’identità nazionale australiane” 40.
Per gli emigranti italiani i primi due decenni dopo la guerra furono fondamentali nel forgiare una nuova mentalità. Nella stragrande maggioranza dei casi erano emigrati in Australia per rimanervi, quindi dovevano distaccarsi dalle abitudini del “paese” e fare i conti con nuove realtà.
Se gli emigrati italiani hanno dovuto rinegoziare l’inserimento nella società che li aveva accolti, il mondo australiano non ha potuto evitare di entrare in contatto lo stile italiano, ben evidente nei luoghi abitati dagli immigrati. In sobborghi quali Carlton, Griffith, Fremantle, Fairfield, Leichhardt da decenni si respira un’atmosfera tipicamente italo-australiana. Anche al di fuori di queste “nicchie” l’italianità si è affermata con la cucina, conquistando i palati del grosso pubblico, i luoghi (strade e sobborghi) che portano i nomi di località italiane41, l’architettura, i negozi, i prodotti tipici della moda, i diversi modi di socializzare e di divertirsi (club e associazioni), realizzazioni concrete di una simbiosi culturale, sperimentate personalmente durante la celebrazione di molte funzioni come i matrimoni misti. Tutto questo ha prodotto un avvicinamento ed avviato una interazione fra mondi culturali diversi. L’effetto ottenuto è un maggior senso di tolleranza nella comunità australiana e, nel contempo, anche nella comunità italiana e nelle altre comunità etniche, fondata su un’accettazione vicendevole sulla base di nuovi parametri sociali, geografici e politici. Non più un mondo vicino all’Antartide, lontano dalla madrepatria l’Inghilterra, ma un mondo aperto al vicino continente asiatico, non più vista con i soli occhi colonialisti o razzisti (“il pericolo giallo”, percepito alla fine della seconda guerra mondiale).
Rimane da stabilire fino a che punto si possa parlare di un italo-australianità, una categoria che anche altrove sfugge a descrizioni precise: “La situazione attuale dell’esperienza italo-americana si focalizza sulla 6° o 7° generazione di persone che sono adesso titolari di doppia etnicità: italiana ed americana. Infatti, la categoria ‘italo-americana’ rappresenta una nuova realtà etnica che andrebbe studiata maggiormente” 42.
La politica del multiculturalismo e la spinta verso rapporti più sereni a livello internazionale ha avuto una sua ricaduta anche sulle comunità cattoliche? Era prevedibile almeno in parte che il sentimento di opposizione e a volte di intolleranza, provata agli inizi dell’avventura migratoria, venisse rimpiazzato da un sentimento di accettazione, rispetto e a volte ammirazione reciproca. Nell’ambito strettamente religioso è da notare come una buona parte delle feste religiose siano nate sull’onda delle politiche multiculturali lanciate dal governo laburista agli inizi degli anni Settanta43. Anche a livello parrocchiale si sono gradualmente assopite le incomprensioni fra i missionari per gli emigranti, coloro che comunque si adoperavano per gli stessi ed il clero australiano.
Due mondi religiosi diversi si erano incontrati senza capirsi44. Pur essendo sorte incomprensioni iniziali, con l’andare del tempo si stabilì un modus vivendi, anche se non sempre conforme ad un ideale di reciproca accettazione ed apprezzamento. Soprattutto a partire dagli anni Sessanta si moltiplicarono le messe domenicali celebrate per i diversi gruppi di emigrati italiani45. Accanto alla stampa italiana di matrice religiosa come “Il Messaggero”, “Il Campanile”, “La Messa Festiva”, fiorirono varie associazioni. Tra queste meritano un cenno particolare il Movimento Carismatico, per tanti anni guidato da suor Cesarina Paolini, Pastorella e il Centro Italiano di Rinnovamento Spirituale, guidato dai padri scalabriniani, ambedue con sede a Melbourne.
Queste ed altre iniziative di base, non sostenute o coordinate dall’ufficio centrale della Conferenza dei Vescovi Australiani, si sono sviluppate per l’iniziativa di congregazioni religiose o di singoli individui. In ogni diocesi bastava avere il permesso o l’assenso del vescovo per lanciarsi in iniziative, le cui responsabilità di gestione ricadevano completamente su coloro che le avevano create, insomma una pastorale “fai da te”.
Permettere la realizzazione di opere, senza che l’iniziativa venisse assunta dai vertici della Chiesa australiana, ha sortito i seguenti risultati: le iniziative erano pilotate da singole persone o da congregazioni religiose secondo criteri e parametri di giudizio propri; mancava quella scuola di apprendimento e di esperienza, a diversi livelli, di cui si nutre e si rafforza una pastorale nazionale, diocesana e parrocchiale e che dà maggiore garanzia di continuità e incisività; non è mai stato formulato un piano pastorale a livello nazionale condivisibile, nelle sue linee essenziali, dalle diocesi e dalle parrocchie. Questa lacuna appare ancora più evidente ora che le nuove migrazioni non possono far leva su congregazioni religiose provenienti dai paesi originari dei nuovi emigranti46.
Questo atteggiamento prammatico (laissez faire) ha avuto come effetto positivo il fatto di dimostrare che, se agli emigranti si offre una cura pastorale specifica, non si assopiscono in uno stato letargico pratico e religioso. Diventano essi stessi fautori e soggetti attivi di evangelizzazione.
La diversificazione di modelli pastorali, adottati per l’assistenza religiosa dei gruppi europei, ha avuto il merito provvidenziale di “aprire la strada” per altri gruppi di emigranti cattolici, numericamente meno consistenti, provenienti da tante nazioni diverse. La rete di opere rivolte all’assistenza e cura pastorale degli italiani, e con loro anche di altri gruppi europei, ha dato come frutto un’accettazione della possibilità che la pastorale può essere gestita con metodi alternativi, senza entrare in conflitto con la pastorale ordinaria delle parrocchie.
A tutto questo possiamo aggiungere due aspetti che indubbiamente potevano essere coltivati con maggior oculatezza. Primo fra tutti, il problema delle vocazioni alla vita sacerdotale o religiosa. A parte alcune eccezioni, la comunità italiana non ha dato segni di vitalità e ha contribuito al calo spaventoso di vocazioni che ha colpito la Chiesa australiana durante gli ultimi tre decenni. A tutt’oggi non si intravede una ripresa manifesta delle vocazioni di giovani, sia maschi che femmine.
Sotto l’aspetto religioso gli emigranti cattolici, finora giunti in Australia, riconoscono senza ombra di dubbio che gli italiani hanno creato una serie di feste religiose e manifestano una venerazione particolare per i loro morti. Questi due aspetti caratterizzano la prima generazione di emigranti, che sono rimasti ancorati per esperienza e religiosità alla memoria di quello spirito cattolico avuto in dote dai loro paesi.
Forse si dimentica con troppa facilità quello che affermava un vescovo ausiliario di Melbourne. Alla precisa domanda se vi fosse stato un apporto specifico della comunità italiana al cattolicesimo australiano, il vescovo Joseph O’Connell rispondeva che “il cattolico italiano ha contribuito a far capire al cattolico Australiano medio che esisteva un’altra maniera di essere cattolici diversa dalla solita legata a norme precise”. E, proseguiva, il loro senso di gioia, la promozione dell’incontro, la spiritualità spontanea derivante da un rapporto con Dio e con i santi “nostri protettori” ha portato in Australia una ventata di aria fresca. Chiaramente tutto questo è legato ad intuizioni e a sensazioni provate, durante i numerosi contatti avuti con la comunità italiana, da parte di un prelato anglosassone. Occorrerebbe uno studio approfondito soprattutto sul tipo di religiosità che ha sostenuto molti emigrati italiani e che rimane principalmente racchiuso all’interno delle mura domestiche.
Il discorso è ben diverso quando si passa ai loro discendenti: si lasciano assorbire facilmente dal modo di vivere, dei loro coetanei, australiani e no, caratterizzato da indifferenza e distanza psicologica dalla Chiesa, come se fosse una istituzione che non li riguarda.
Ed infine: l’esperienza storica di diverse forze religiose, che si sono prodigate nell’opera di assistenza spirituale agli emigrati italiani e ai loro discendenti, ha sortito una pastorale parcellizzata. È mancato un coordinamento centrale: questo poteva essere offerto dalla Chiesa cattolica australiana o realizzato di comune accordo dalle forze attivamente impegnate in questo settore specifico. Il coordinamento e l’animazione sono stati per diversi anni, ma solo per l’arcidiocesi di Melbourne, affidati al Centro Cattolico Italiano di Rinnovamento raggiungendo, attraverso le sue pubblicazioni, anche altre diocesi e sostenendo una comune preoccupazione: la salvaguardia di una eredità morale e religiosa.
6. Il futuro
Le statistiche sulla presenza dei nati in Italia o di coloro che, pur essendo nati in Australia, preferiscono usare la lingua italiana non hanno bisogno di ulteriori commenti. Ma con una presenza e una lingua sempre meno usate, vi è pure la riduzione numerica di coloro che hanno accompagnato le collettività italiane nel loro cammino di graduale integrazione nel tessuto della Chiesa locale. La loro riduzione numerica e la fase di invecchiamento delle forze religiose nate in Italia o, anche se nati in Australia, con una conoscenza sufficiente della lingua e cultura italiane è un’altra constatazione empirica.
A mio parere, la zona su cui occorrerà riflettere maggiormente e metodicamente riguarda il senso e la portata storica di una collettività cattolica emigrata in Australia e di quanto questa abbia comportato all’interno del cattolicesimo australiano. Evidentemente si tratta di non lasciarsi irretire dalle varie prospettive che da sempre imperversano nel giudizio storico sul contributo reale di un gruppo o di un altro. È necessario, piuttosto, enucleare le qualità intrinseche alla parola “cattolica”, intesa nella sua dinamica e proiettata verso l’universalità e l’accoglienza della diversità. Il passo successivo è di capire come l’esperienza australiana di un “multiculturalismo dal basso”, vero laboratorio di molteplici diversità, non debba essere considerata solo nella sua prospettiva problematica, ma debba diventare per tutti un dono e non una pena da sopportare.
7. Conclusione
Ogni Chiesa locale arricchisce, con apporti originali e specifici, la Chiesa universale. Questa, nella sua universalità, compie un’opera di sutura e di discernimento fra le diverse forze in campo arricchendosi e stimolando le Chiese particolari. In quest’opera, paragonabile a quella di vasi comunicanti, le emigrazioni, e l’emigrazione italiana in particolare, hanno avuto un ruolo di primo piano. L’emigrazione italiana non solo ha motivato alcune prese di posizione della Chiesa di Roma, ma ha sollecitato, a partire dal 1850, le Chiese di nuova formazione nel Nord e Sud America ad una presa di coscienza e un’autoconsapevolezza nuova. L’interazione fra diverse autorità ecclesiastiche nel tempo ha anticipato, in un senso molto reale, uno dei frutti del Concilio Vaticano Secondo: la collegialità tra i diversi successori di Pietro.
Il cattolicesimo australiano è stato sollecitato ad uscire dalla sua insularità e da una dipendenza pluridecennale dal modello irlandese. Con gli emigranti europei, anche gli emigrati italiani hanno partecipato, forse inconsapevolmente, ad un’opera di ampliamento degli orizzonti limitati esistenti all’interno della Chiesa Cattolica e ad un impegno che mirava, pur attraverso lentezze e rifiuti, a costruire una chiesa più aperta e più cattolica.
Non si vede ancora la fine di questo impegno. Anzi. L’arrivo di numerosissimi altri gruppi, meno consistenti e con alle spalle una esperienza religiosa sofferta nei loro paesi (vietnamiti, ucraini, polacchi, sudanesi, medio orientali, Oriente ecc.) può avere un effetto benefico su una società gaudente e secolarizzata come l’Australia e su una Chiesa che parla troppo spesso di crisi, di declino, di perdite reali e incontrovertibili, una Chiesa ustionata dalla scomparsa di un passato “glorioso”. Questo passato glorioso, però, non può essere considerato né l’unico modello di Chiesa possibile, né il più valido. Nel giardino di Dio, secondo l’immagine usata da una commissione anglicana47, vi sono fiori che appassiscono, ma vi sono anche fiori che rinascono e con colori diversi.
Note
20 Il materiale custodito negli archivi diocesani di Melbourne e di Sydney è in attesa di un salvataggio di carattere storico. Ritengo che con l’andare del tempo, il copioso materiale subirà un deterioramento tale da non essere più utilizzabile.
22 Frank Mecham, The Church and Migrants, 1946-1987, Haberfield (NSW), St. Joan of Arc Press, 1991, pp. 86-87.