In questa chiave è fondamentale il lavoro di Claudia Cucchiarato, Vivo altrove. Giovani e senza radici: gli emigranti italiani di oggi, Milano, Bruno Mondadori, 2010. L’autrice ha deciso cinque anni fa di trasferirsi a Barcellona, dopo aver iniziato in Italia la propria carriera giornalistica, e dopo qualche tempo ha iniziato a interrogarsi sulla scelta fatta. Ha quindi creato un blog attraverso il quale ha captato esperienze e racconti di giovani (grosso modo under 35) emigranti e ne ha tratto materia per un volume. Parte dell’esperienza preparatoria, ma anche ulteriore documentazione, si rintraccia nei link e nei materiali del sito creato per promuovere la pubblicazione: http://www.vivoaltrove.it Quest’ultima merita comunque di essere letta. Oltre a raccontare alcune vite esemplari o quantomeno alcuni scorci di vite esemplari (fra i quali un anno all’estero di un redattore di questa rivista), riorganizzati per paesi, scheda con finezza gli elementi psicologici che portano alla partenza. In particolare dimostra una abilità nel raccontare e nell’intervistare purtroppo ignota alla gran parte di noi storici delle emigrazioni.
Per non riassumere in maniera alquanto scarsa quanto l’autrice ha scritto indubbiamente meglio, proviamo ad approfittare della sua generosità e disponibilità, rivolgendole alcune domande. In primo luogo possiamo chiederle come le è venuta l’idea del libro e quanto si è servita di studi precedenti sulle migrazioni italiani.
L’idea di scrivere Vivo altrove nasce dal fatto che io stessa vivo fuori dall’Italia da più di cinque anni. Appena arrivata a Barcellona, nel 2005, mi sono resa conto che migliaia di miei coetanei avevano avuto la stessa idea. Ho iniziato ad occuparmi del fenomeno “moda Barcellona” sia per i giornali spagnoli che per gli italiani e ho raccolto molto materiale: storie, dati, statistiche. Un libro che all’inizio doveva essere un racconto di come e perché tanti italiani vengono a vivere in Spagna, si è poi trasformato in una ricerca sul perché tanti giovani se ne vanno dall’Italia, tout court. Mi sono infatti subito resa conto che non è che agli italiani piaccia Barcellona, è che non gli piace l’Italia. E si trasferiscono un po’ ovunque, a volte anche allo sbaraglio, pur di andarsene dal Paese d’origine. Molte delle persone che avevo intervistato nel 2005 e nel 2006 non vivono più qui, ma si sono spostati a Berlino, a Parigi, a Londra… alcuni sono tornati in Italia, ma sono una minoranza. Ho letto e studiato molti dei saggi che si citano all’inizio di questo articolo e ho scoperto che in tutta la letteratura sulla cosiddetta “fuga dei cervelli” poco si parla del fatto che non sono solo i “talenti” ad andarsene, c’è una generazione intera di persone, a volte anche non laureate, che sono stanche del proprio Paese e semplicemente fanno la valigia, prendono un volo low-cost di sola andata e si trasferiscono altrove. Non si tratta di un fenomeno negativo a priori. L’Europa Unita, la moneta unica, l’assenza di frontiere e una serie di altri fattori come Internet, il voli low-cost o i programmi di studio e lavoro all’estero, permettono a chi è nato dagli anni 1970 in poi di essere estremamente “mobili” e fluidi, succede in tutti i Paesi europei. Quel che è più grave, però, è che l’Italia è in assoluto il Paese dell’OCSE che esporta più laureati e meno importa giovani delle stesse caratteristiche. Insomma: un dissanguamento senza possibilità di trasfusione. Un problema politico, sociale, culturale ed economico del quale ancora poco si parla e poco si sa: non esistono dati né stime che ci possano dare un’idea della grandezza di questo “dissanguamento”. Il Governo italiano, i mezzi di comunicazione, gli stessi studiosi di fenomeni migratori navigano nel buio. Se non esistono i dati, le persone di cui io mi sono occupata non esistono, nessuno ne parla: è anche per dare loro una voce che ho deciso di scrivere “Vivo altrove” ed è proprio perché questi ragazzi sono stati letteralmente abbandonati a se stessi che ho avuto pochissimi problemi a trovarli, contattarli e convincerli a raccontarmi la loro esperienza. Hanno, tutti, una gran voglia di far sapere all’Italia il perché della loro fuga, mi ha sorpreso molto constatare che a nessuno finora era venuto in mente di andare a intervistarli, sono tutti lì che ci aspettano.
Ci interessa poi riflettere sul fatto che tutti gli intervistati dichiarino di essere partiti non tanto e non soltanto perché erano loro chiusi i canali lavorativi prescelti, ma perché non piaceva complessivamente loro il clima culturale e lavorativo italiano. Secondo te, questo distacco verso il proprio paese si tramuta in una sorta di emigrazione reiterata, nella quale si rimanda il più possibile la possibilità di tornare a casa? Oppure potrebbe alla lunga cedere il passo a corposi fenomeni di rientro, analoghi a quelli del passato?
Escluderei il ritorno massivo, sinceramente. Sono pochissime le persone che ho intervistato (e sono in totale più di cento, ora con il sito molte di più…) che mi hanno detto di aver intenzione di tornare in Italia nel futuro. Poche hanno saputo darmi una risposta univoca e convincente alla domanda: cosa dovrebbe succedere in Italia affinché tu decidessi di fare ritorno? Non è solo la constatazione di una barriera gerontocratica che impedisce la realizzazione professionale ciò che spinge i giovani italiani ad andarsene, è anche e soprattutto la stanchezza nei confronti di un sistema sociale, politico e mediatico asfittico e deprimente. L’Italia vista da fuori appare ancor più immobile e senza speranza di miglioramento. So che è impietosa l’analisi che propongo, ma riporto le parole di tutte le persone che ho intervistato. Sono tutti molto delusi, avrebbero voglia di tornare, certo, ma le possibilità di cambiamento nella stessa mentalità del nostro Paese sono talmente basse da scoraggiare chiunque. Non a caso, non solo i laureati se ne vanno in massa dall’Italia, sono anche pochissimi i giovani provenienti da altri Paesi sviluppati che decidono di venire a vivere da noi: vogliamo finalmente aprire un dibattito serio su questo problema?
Nelle tue interviste mi ha soprattutto colpito la mancanza di speranza di molti intervistati. Il nomadismo migratorio (oggi a Berlino, domani a Barcellona e dopodomani chi lo sa) sembra l’unica risposta di una generazione che soffoca nel proprio paese, ma che deve fare i conti con la crisi economica degli altri. Impara dunque a vagabondare, spendendo il meno possibile. Non ti pare che a volte i tuoi intervistati appaiano esuli più che migranti? Siano cioè condannati a vagare senza quelle speranze economiche che invece nutrono gli spostamenti migratori classici?
Sì, a volte sembrano degli esuli, specialisti della sopravvivenza a basso costo. Eppure, tutti mi hanno detto che la differenza tra il loro movimento migratorio e quello delle generazioni precedenti sta nel fatto che hanno SCELTO di andarsene, nessuno li ha obbligati. Volendo, anche in Italia avrebbero potuto vivere o sopravvivere più o meno dignitosamente. Ma sicuramente sarebbe stata una sopravvivenza peggiore sotto molti punti di vista. Non c’è solo l’affermazione professionale nella ricerca che li spinge ad espatriare. C’è anche e soprattutto la voglia di stare bene, di vivere in un contesto più aperto nei confronti del diverso, meno deprimente e ottuso. È proprio per questo che si tende a scegliere le grandi città europee: luoghi in cui convivono persone provenienti da situazioni diverse, esempi di sperimentazione multiculturale, apertura e socializzazione. Si espatria per crescere come persona più che come lavoratore. Si espatria per vedere cosa c’è lì fuori e mettersi alla prova, provare a tirare fuori le unghie e scoprire che ce la si può fare. È un movimento che appare a prima vista egoistico (“me ne vado perché non voglio sprecare i migliori anni della mia vita in un Paese che non mi sa valorizzare”), ma in fondo non lo è: i giovani italiani se ne vanno per crescere e perché è naturale, logico e addirittura consigliabile farlo in una società liquida come quella in cui stiamo vivendo. Ecco perché sostengo che i giovani italiani siano molto più europei del loro stesso Paese. Come dice molto bene Alvise Del Prà nei suoi saggi, loro, come molti altri coetanei provenienti da tutti gli Stati dell’Unione, stanno costruendo davvero l’Europa dal basso, sono già la naturale emanazione e incarnazione di un progetto politico ed economico che per ora sta solo sulla carta, perché ancora non esiste un quadro normativo che li protegga. Per questo vanno allo sbaraglio, non sappiamo nemmeno quanti siano né dove vivano, non hanno idea di come sarà il loro futuro, se un giorno potranno godere di una pensione o un di sussidio di disoccupazione, eppure partono perché questo è quel che istintivamente sentono che devono fare nella società in cui sono nati. Peccato che anche chi poi decide di tornare in Italia, per portare la propria capacità ed esperienza acquisita, venga trattato come o peggio di come veniva trattato prima di andarsene.