Questi, nato nel 1866 in provincia di Macerata, a San Severino Marche, aveva vinto nel 1904 il concorso di statistica per l’ordinariato all’università. Ma la sua formazione era tutta orientata verso quella che oggi definiremmo sociologia rurale, a cui l’avevano instradato l’origine familiare “di possidenti agricoli, di piccola nobiltà”1 e l’incontro con Angelo Messedaglia, suo professore nella facoltà di giurisprudenza dell’Università di Roma, che concepiva la statistica come una disciplina storico-sociologica. Con lui il giovane Coletti aveva discusso la tesi di laurea dedicata alla relazione finale dell’inchiesta Jacini. Dopodiché, aveva preso a collaborare con le maggiori riviste scientifiche dell’epoca, dapprima la “Critica sociale”, stanti le sue giovanili simpatie socialiste, poi al “Giornale degli economisti”e a “La riforma sociale”. Più tardi sarebbe anche, a più riprese, intervenuto sul “Corriere della sera”.
Interessi politici a parte, che lo videro ben presto avvicinarsi al partito radicale, Coletti si discostò alquanto dal clima culturale dominante; avverso al nazionalismo, professò un liberalismo integrale e polemizzò con Pareto, fu neomalthusiano e antirazzista con Colajanni e si mostrò assai tiepido col positivismo.
La sua vocazione di analista sociale poté esprimersi a fondo quando ricevette l’incarico di segretario generale della Commissione d’inchiesta sulle condizioni dei contadini meridionali (inchiesta Faina, 1907-1911), per la quale preparò “un programma e questionari particolarmente attenti alla rilevazione di fenomeni sociali, e di costume delle popolazioni meridionali”2 e utilizzò la metodologia monografica mutuata da Le Play “allo scopo di comparare fenomeni simili anche se esistenti in luoghi diversi”3.
Il questionario era suddiviso in otto punti: la struttura produttiva, la stratificazione sociale contadina, le condizioni di vita, le forme di assistenza pubblica, le organizzazioni economiche, sociali e politiche, lo stato generale della popolazione agricola; il settimo quesito verteva sull’emigrazione. Alla serietà dell’impegno non corrisposero tuttavia, si è osservato di recente4, risultati adeguati: non tutti i delegati tecnici si erano attenuti alle direttive del caso, inficiate anche da interferenze politiche.
L’occasione per cimentarsi con l’emigrazione gli venne offerta dall’Accademia dei Lincei che promosse la pubblicazione di tre grossi tomi in occasione del cinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia5. Nel 1911 Coletti aveva superato la quarantina, si trovava nel pieno della sua produttività scientifica e aveva al suo attivo un insieme di esperienze che sembravano rendere questo approdo quasi obbligato.
Lavori pionieristici sul tema migratorio ce n’erano stati, le meritorie quanto spericolate indagini di Leone Carpi e di Giovanni Florenzano, che avevano scontato l’assenza di rilevazioni attendibili e costruito da sé le coordinate quantitative interpellando direttamente i prefetti del regno, e le poche, illuminanti pagine di Luigi Bodio, che Coletti non cessava di lodare. Col suo trattato Dell’emigrazione italiana – che conserva tuttora una indubbia vitalità – questa tematica uscì finalmente, per così dire, dalle quinte, o meglio dalla sussidiarietà, a cui era stata fino allora relegata, per spostarsi al centro della scena e guadagnare una nuova rilevanza.
Ad onta di qualche barlume di provvisorietà, è infatti lo stesso autore a denunciare uno scarto dal progetto originario: dei sette capitoli previsti – le fonti statistiche, il bilancio statistico, le cause, le condizioni e la vita nei principali paesi, gli effetti, la tutela privata e pubblica, l’avvenire e le conclusioni – ne aveva svolti soltanto i primi tre e, in forma sommaria, il quinto sugli effetti. Sarà bene anche aggiungere che Coletti tornò più e più volte sul tema, ma non rimise mai le mani su questo lavoro, dove la statistica giganteggia e funge da strada maestra per la lettura dei fenomeni sociali. In questa disciplina, egli era, peraltro, assai ben attrezzato. Della sua capacità di interpretare i dati quantitativi inquadrandoli nell’opportuno contesto storico-sociale, dette, nel corso della sua attività di studioso, numerose prove, e l’emigrazione rappresentava certo una sfida da raccogliere6. Tutt’altro che aleatorio o angusto il risultato. Il ragionare attorno alle cifre e sottoporle a un rigoroso vaglio critico gli consente di inoltrarsi in territori problematici di notevole ampiezza.
Tra i quali va sottolineata la perimetrazione del fenomeno migratorio. Non pochi osservatori – Carpi compreso –, sbalorditi dalla emorragia di uomini verso le Americhe, avevano delimitato il concetto di emigrazione alle sole partenze transoceaniche: “È assurdo il qualificare come emigrazione quella temporanea – si leggeva in una pubblicazione dell’epoca -, giacché emigrante è soltanto colui che abbandona la patria per un tempo indeterminato e forse col proposito di non più tornarvi”7. Se dunque fosse invalso questo criterio – sosteneva il Coletti – “la nostra statistica sarebbe nata con un vizio d’origine insanabile: essa avrebbe trascurato l’emigrazione per i paesi europei e mediterranei e si sarebbe concentrata sulla transoceanica”8.
Egli aveva ben chiara l’importanza del mercato internazionale del lavoro “soprattutto un grande mercato regolatore quale è quello americano9”, ma ciò non gli impediva di guardare oltre. Recuperare la duplicità delle destinazioni non esauriva infatti né l’intrinseca mutevolezza – la propensione cioè delle partenze transoceaniche a tramutarsi in temporanee e, viceversa, di quest’ultime a convertirsi in definitive – né la complessità dell’emigrazione. Ed era parimenti legittimo che in questa grande famiglia trovassero posto anche le migrazioni interne, affini per periodicità e regolarità alla mobilità europea e mediterranea: gli otto-nove mesi di assenza e l’immancabile rimpatrio che configuravano un autentico “professionismo” migratorio. Questo approccio sistematico fissò una volta per tutte il paradigma dell’emigrazione.
Venendo poi ad affrontarne gli aspetti caratterizzanti, l’analisi di genere evidenziava la tendenza delle donne a scemare nell’emigrazione “propria” e ad aumentare nella temporanea10, mentre la struttura professionale faceva emergere la prevalenza, oggi scontata, di agricoltori e braccianti – “La gran massa dell’emigrazione italiana è rurale e non qualificata” –, ma non mancavano operai e artigiani settentrionali, specie nelle partenze temporanee11.
Diverse l’una dall’altra, ma facili da catalogare per chi, come l’autore, si era già misurato con la morfologia storica della società italiana, col conforto degli studi di Giorgio Mortara e di Enrico Raseri, vengono poi descritte, regione per regione, le caratteristiche migratorie di ciascuna di queste, dove alle molte declinazioni del bisogno, si affiancava, spesso e volentieri, il tracollo delle lotte sociali: “Alle frequenti e dure sconfitte di certi movimenti contadineschi seguirono emigrazioni nuove e più abbondanti. L’emigrazione, al cimento dell’esperienza, si dimostrava come un sostituto molto più edonistico dello sciopero”12”. Emblematica la sorte del Polesine nel quale le lotte di contadini e braccianti si alternarono all’abbandono della regione.
La disamina delle cause, che occupa la terza parte del lavoro, offriva lo spunto per muovere alcune critiche ai predecessori, al fatto che si preferisse piuttosto concentrarsi sugli effetti, e, soprattutto, venissero ignorati i fattori psicologici. A questo riguardo, rifacendosi alle teorie di Fechner, Coletti riteneva infatti che alla soggettività degli attori sociali spettasse un ruolo decisivo tra le dinamiche causali. Dalla cosiddetta “psicofisica”13 credeva di ricavare una vera e propria teoria psicologica dell’emigrazione14, stando alla quale percezione del disagio e nozione di una soluzione alternativa sarebbero alla base del bisogno di espatrio. In realtà, almeno a parere di chi scrive, e più di quanto egli stesso non immaginasse, l’autore attingeva ai registri di una sensibilità intuitiva piuttosto che a quel debole modello epistemologico.
L’emigrazione costituiva comunque per lui un’impareggiabile occasione per un esercizio di psicologia sociale. Di ogni categoria professionale e appartenenza sociale Coletti evidenziava i tratti psicologici dominanti, e, intrecciato a questi, il tipo di propensione migratoria. Malgrado non ne facesse citazione esplicita, balza agli occhi come questa messe di informazioni venisse estratta dalle stesse inchieste sociali che tanto lo avevano visto partecipe, opportunamente rielaborate.
Le pagine conclusive facevano il punto sulle ricadute. Cifre alla mano, l’autore si prodigava nel tentativo di far giustizia di parecchi luoghi comuni, specie i denigratori. Il repertorio è presto fatto: il confronto tra i censimenti denotava che la popolazione italiana non era affatto soggetta a un calo; che la contrazione della componente maschile adulta non ne pregiudicava la crescita viceversa intensificata; che l’immoralità delle donne e le nascite illegittime erano lungi dall’aumentare; che l’emigrazione non era imputabile della perdita di risorse umane in quanto inutilizzabili in patria e apportava invece innumerevoli benefici tanto all’economia nazionale quanto ai guadagni dei soggetti sedentari. Effetti, tutti questi, facilmente constatabili nell’andamento dell’agricoltura (riduzione della rendita, miglioramenti culturali, aumenti salariali, ecc.). Quanto poi alle rimesse, la lista dei vantaggi non temeva confronti: dal contributo alla creazione di una flotta mercantile, all’aumento del tenore di vita, alla scomparsa dell’usura, alla facilitata conversione della rendita.
Non andava infine tralasciato il “risveglio delle coscienze”, l’emergere di una profonda trasformazione morale. I reduci da un’esperienza americana sorprendevano per “disinvoltura, scioltezza di modi e di parole, foggia di vestire, indipendenza di carattere, senso maggiore della propria dignità e dei propri diritti, poca o punta soggezione di fronte agli antichi padroni […]. È un miracolo compiuto. Come l’emigrazione uccise subito il brigantaggio, così la dimora nelle terre a civiltà nuova e libera ha bandito dalle anime il medio evo che vi si indugiava grave e tenace”15.
Che l’entusiasmo avesse preso spesso la mano allo studioso e gli avesse ispirato un eccessivo ottimismo, è difficile negare. Tuttavia, di questo esaltante bilancio non venivano taciute le ombre, e laddove le criticità mettevano alla prova la sua onestà intellettuale, Coletti poteva sempre appellarsi alla indubbia mutevolezza16 e plasmabilità del fenomeno.
Ma nessuna ombra poteva oscurare il giudizio dei diretti interessati: “L’opinione pubblica dei luoghi di grande e vecchia emigrazione è molto più logica e diritta di molti scrittori pessimisti. Molti degli interrogati dall’inchiesta meridionale hanno dichiarato con frasi rudi e incisive: se l’emigrazione non ci fosse stata saremmo morti di fame, avremmo fatto a coltellate, ci saremmo mangiati l’un l’altro, si sarebbe fatta la rivoluzione, ecc.”17. Coletti accreditava all’emigrazione una frustata modernizzatrice all’arretratezza italiana, ne vantava il ruolo emancipatore. Ne era insomma un convinto fautore e nemico giurato della retorica miserabilista di cui molti dei contemporanei l’avevano circondata.
A giudicare dalle vicende successive, si direbbe che questa sorta di full-immersion nella anatomia migratoria lo abbia anche per qualche tempo stimolato ad effettuare interventi più militanti.
Infatti, non aveva ancora dato alle stampe questa sua fatica che prese a gettarsi nel vivo delle polemiche di quegli anni. Una sua lunga lettera apparve sul “Corriere della Sera”, preceduta da una breve nota di presentazione. L’emigrazione era allora all’ordine del giorno del dibattito parlamentare, ma in questo momento premeva soprattutto a Coletti combattere il pessimismo dei giovani nazionalisti, mai stanchi di recriminare sul salasso demografico inflitto all’Italia.
La lettera non faceva che riprendere i temi sviluppati nell’ultima parte della monografia, il “che cosa sarebbe accaduto se l’emigrazione non ci fosse stata”, e tutti i mutamenti – materiali e immateriali – che avevano liberato il paese dal medio evo e trasformato gli emigranti in cittadini capaci di autostima e apprezzati dagli stranieri, e perciò antesignani di “un nazionalismo nuovo, di spirito e di opera”. Questa inusitata disponibilità ad uscire da secoli di depressione e di chiusura, di aprirsi al mondo – incalzava Coletti nel tentativo di portare acqua al proprio mulino – , non poteva forse risvegliare “un antico, lontano orgoglio di stirpe”, nonché “un giovanile rinvigorimento della coscienza e della personalità nazionale?”. E, del resto, finché non ci sarà lavoro per tutti – un tasto su cui non avrebbe mai smesso di battere –, “si consideri l’emigrazione come la forma più proficua e sana dell’impiego delle braccia esuberanti”. Nessun contrasto insanabile, dunque, ma un nazionalismo più lungimirante; l’emigrazione “è il fenomeno che facendo penetrare l’idea e il sentimento di patria fra tante anime ignare ha come allargato i confini stessi della patria nostra”.
Terminata la guerra, gli attacchi si fecero serrati e concentrici. Le avvisaglie più fosche rimbalzavano dagli Stati Uniti; Coletti cercò di esaminarne con cura le ragioni onde predisporne gli antidoti. D’oltre Atlantico si paventava, a suo avviso, “l’importazione del bolscevismo e un eccesso di concorrenza operaia nelle industrie che minaccerebbe le conquiste operaie”. Affatto inconsistente la prima – replicava – in quanto “rurali e apolitici” gli emigranti italiani, ma l’altra, sulla quale vegliavano le organizzazioni operaie, gli appariva quantomai insidiosa. La ricetta escogitata per sventarla chiamava in causa il ripristino della condizione originaria di lavoratori agricoli, abbandonata in terra straniera per i più lucrosi salari industriali, per via della mancanza di capitali da investire in proprietà o in affitti e per la totale ignoranza delle cognizioni tecniche in uso laggiù. Bastava introdurre gli opportuni correttivi per eliminare la competizione degli operai immigrati con i nativi.
Così dicendo, Coletti si era di fatto avventurato in un ginepraio in cui il movimento socialista si era da tempo impantanato. Più volte se ne era discusso nei consessi internazionali con l’idea che l’iscrizione obbligatoria ai sindacati esteri fosse la panacea di questo male. Pannicelli caldi e parole al vento. Nell’autunno del 1909 il potente leader della American Federation of Labour, Samuel Gompers, calato apposta dagli Stati Uniti, aveva ottenuto l’unico risultato di intimorire i sindacati italiani. Al di là di qualche iniziativa assistenziale, infatti, i socialisti non andavano, e molti di loro vedevano piuttosto di buon occhio l’alternativa della colonizzazione interna. Per sollecitarla, i braccianti del ravennate organizzavano la resistenza all’emigrazione e nella zona era impossibile espatriare senza il permesso del capolega18. Ma i più non se ne erano affatto dati per intesi e avevano continuato a partire in barba a quelle raccomandazioni.
L’ostilità antimigratoria del fascismo appena giunto al potere assunse all’inizio le sembianze del repulisti dagli errori del passato e Coletti colse lo spunto da un intervento di Mussolini, critico con “gli eccessi di paternalismo e burocrazia” contestati al Commissariato per l’emigrazione19, per affrontare alcuni nodi della questione in tre articoli consecutivi. Avendo peraltro ormai gli Stati Uniti detto l’ultima parola in fatto di chiusura delle frontiere, le esemplificazioni del caso vennero da allora in poi riferite alla Francia.
Coletti rinverdì anzitutto, e in termini più virulenti, la sua polemica antisocialista: “L’emigrazione sacrificata alla rivoluzione”, commentava sarcastico l’idea che partecipare alle lotte sociali fosse la scelta di gran lunga più importante. Se poi egli si dichiarava contrario a sostituire gli operai in sciopero, tutt’altra cosa era l’esercizio di quell’affatto innocua forma di “crumiraggio” che faceva abbassare i salari col semplice andare a riempire i vuoti del mercato del lavoro. Se per rifuggirla si fosse rinunciato a partire, disoccupazione e bassi salari si sarebbero moltiplicati in patria, e gli italiani avrebbero fatto “da calmieranti e da crumiri contro se medesimi.” La politica socialista, “verbale e illusoria” – insisteva Coletti –, faceva a pugni con le aspirazioni di chi intendeva emigrare ed era disposto ad accettare condizioni certo peggiori dei nativi, ma pur sempre meno di quelle offerte in patria. Anche chi arrivava da clandestino in Francia riusciva a farcela. Questa politica, concludeva lapidario, “esprime l’angusto egoismo delle organizzazioni operaie dei paesi più ricchi e a popolazione più rada. Si rivela perciò diametralmente antitetica agli interessi operai e nazionali di paesi che, come l’Italia, sono proletari e soprapopolati”20.
Il secondo bersaglio polemico fu proprio il Commissariato per l’Emigrazione e la sua politica di valorizzazione dell’emigrante21. Una politica in due tempi: la formazione dei cosiddetti “maestri degli emigranti”, destinati ad una crescita esponenziale oltremodo ridondante, e, accanto a questo, il far divieto a chi intendeva andarsene di dirigersi verso mete a rischio. E, se non fosse bastato, il Commissariato avrebbe voluto arrogarsi la facoltà di selezionare il deflusso a scapito della quantità. Un pio desiderio, commentava il nostro, destinato a restar tale, stanti le condizioni reali del paese. Coletti si pronunciava dunque contro qualsiasi forma di intervento statale, che avrebbe sortito l’unico effetto di essere d’intralcio agli interessati. La legge di tutela del 1913 era stata frutto della “strana previsione” per cui, dopo la guerra, “ci sarebbe stata un gran ressa nel domandarci uomini e uomini”. Ma il presente era tutt’altro, e perciò “cade ogni immaginoso motivo per fare dell’emigrazione un sindacato, un monopolio statale di collocamento che, finendo col limitare gli emigranti, si ritorce contro di noi.”
Né i socialisti, né lo stato erano quindi in grado di gestire al meglio l’emigrazione, un compito in cui poteva eccellere soltanto la politica liberale: “È quella – specificava Coletti – che lascia che l’uomo scelga da sé le vie del proprio tornaconto, sotto il controllo e la sanzione della propria responsabilità”22. Il che non richiedeva tuttavia l’esclusione completa dello stato: preparazione e informazione, un’opera di tutela, la stipula di trattati con i paesi ospiti avrebbero senza dubbio giovato. La politica liberale non implicava affatto che ogni emigrante venisse abbandonato a se stesso; occorreva stimolarne la preparazione culturale e tecnica “per modo che la spontanea selezione degli emigranti ci dia un emigrante medio molto superiore all’attuale”. La valorizzazione “si compie elevando il prestigio della patria nella coscienza dei suoi figli come nell’opinione degli stranieri che li ospitano”23. Un piccolo passo indietro – si direbbe – o comunque una specificazione maggiore rispetto all’antistatalismo estremo sostenuto in altre occasioni.
Malgrado l’opinabilità di molte sue posizioni, merito di Coletti era sicuramente il crudo realismo con cui aveva messo a nudo la logica spietata del mercato internazionale del lavoro, e aveva preferito strappare il velo di ipocrisia che in molti avevano intessuto. Di lì a poco, tanto le sue difese a oltranza che le sue bordate polemiche andarono incontro ad una schiacciante sconfitta. Ma, a giudicare dagli accenni successivi, non recedette mai dal suo entusiasmo per l’emigrazione. Sulla quale tornò più volte, in modo più o meno diretto e sempre fedele alla convinzione – come ebbe a scrivere in una delle indagini dedicate alle Marche24 –, che il benessere acquisito in specie da alcune zone del paese ne fosse ampiamente debitore. E forse la campagna denigratoria imbastita dal fascismo per demolirla non fu l’ultimo dei motivi che lo dissuasero dall’aderire al regime25.
Note al testo:
1 Paola Magnarelli, Coletti, Francesco, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 26, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1982, sub voce.
2 Ibid.
3 Mauro Antonio Fabiano, Le analisi sociali di Francesco Coletti (1866-1940): un pioniere della ricerca empirica italiana, “Sociologia e ricerca sociale”, 82 (2007), pp. 35-84. Contiene una bibliografia completa delle opere di Coletti, a cui si rimanda.
4 Ibid., p. 60.
5 Cinquant’anni di Storia d’Italia, pubblicazione fatta sotto gli auspici del governo per cura della R. Accademia dei Lincei, Milano, Ulrico Hoepli, 1911. Il III volume comprende: Battista Grassi, I progressi della biologia e delle sue applicazioni pratiche conseguiti in Italia nell’ultimo cinquantennio; Francesco Coletti, Dell’emigrazione italiana; Bonaldo Stringher, Gli scambii con l’estero e la politica commerciale italiana dal 1860 al 1910.
6 Che l’emigrazione abbia attirato da subito l’attenzione della statistica è provato anche dal classico studio di Ernst G. Ravenstein, The Laws of Migration, “Journal of the Royal Statistical Society”, 48, 2 (June 1885), pp. 167-235, ora in John A. Jackson, Migration, Cambridge, Cambridge University Press, 1969.
7 F. Coletti, Dell’emigrazione italiana, cit, p. 16
8 Ibid., p. 17
9 Ibid., p.34.
10 Ibid., p. 52.
11 Ibid., p. 60.
12 Ibid., p.114.
13 “La dottrina esatta dei rapporti funzionali e di dipendenza tra mondo corporeo e sprituale, fisico e psichico”, secondo la definizione che ne dà egli stesso, rifacendosi al teorico Gustav Theodor Fechner. ibid., p.213 in nota.
14 ”La teoria del bisogno di emigrare è la teoria stessa dell’emigrazione, considerata nelle cause che a questa danno origine”, ibid., p. 213.
15 Ibid., pp. 251-252.
16 Coletti ne indicò le seguenti scansioni cronologiche: 1876-1886; 1887-1900; 1901-1909, ibid,, p. 33.
17 Ibid., p. 269.
18 F. Manzotti, La polemica sull’emigrazione, cit., pp. 184-197.
19 Francesco Coletti, Emigranti e crumiri, in “Il Corriere della Sera”, 28 gennaio 1923.
20 Ibid.
21 Id., La valorizzazione dell’emigrante, “Il Corriere della Sera”, 1° febbraio 1923.
22 Id., L’emigrazione italiana e la sua politica, “Il Corriere della Sera”, 9 febbraio 1923.
23 Ibid.
24 Id., Il carattere rurale nell’economia e nello spirito delle Marche, “L’Italia agricola”, 15 luglio 1923, ora in Id., La popolazione rurale in Italia e i suoi caratteri demografici, psicologici e sociali, Piacenza, Federazione Italiana dei Consorzi Agrari, 1925.
25 P. Magnarelli, Coletti, Francesco, cit.