Di Matteo Sanfilippo
Questi due volumi nascono da progetti assai differenti. Il primo è il prodotto di una ricerca sull’italianità condotta da un team dell’Università di Losanna. Il secondo è frutto del lavoro di un folto gruppo di studiosi italiani e statunitensi e risponde alla necessità di sintetizzare il crescente numero di nuove ricerche sugli italo-statunitensi e di verificare la compattezza e il ruolo nella società di accoglienza del nucleo originato dall’immigrazione. Di conseguenza i risultati finali sono abbastanza diversi, anzi quasi opposti. Il primo attesta il valore peculiare dell’italianità, anche quando essa è fuori contesto, per esempio quando è legata appunto all’essere emigrati o quando invece consiste solamente nell’uso di termini italiani desemantizzati, ma (o forse proprio per questo) divenuti evocativi, come illustra brillantemente il saggio di Massimo Vedovelli. Il secondo asserisce l’unicità e la peculiarità dell’esperienza italo-statunitense sia rispetto alla ormai lontanissima patria di partenza, sia rispetto alla patria prescelta.
Entrambi i volumi sondano, però, la dimensione internazionale dell’essere italiano o comunque di origine italiana. Come spesso accade nella storiografia recente, questa dimensione è di volta in volta imputata alle caratteristiche globali o transnazionali delle esperienze odierne, con un minimo di confusione terminologica. Forse anche nella storiografia i termini più desemantizzati sono divenuti evocativi, ma non sarebbe male un embargo quinquennale dei concetti di “globalismo” e “transnazionalismo”. In ogni caso, tornando ai libri qui recensiti, essi insistono in egual misura su come la presenza di origine italiana fuori d’Italia non cessi, da un lato, di far riferimento al luogo di partenza e, dall’altro, impatti su (e contro) quello di arrivo. Talvolta inserendosi nel contesto di una dialettica plurisecolare, nella quale le immagini dell’immigrato italiano, dell’italianità e dell’Italia stessa possono coincidere e comunque si riflettono in interpretazioni diametralmente opposte. Si pensi, nel libro curato da Scaffai e Valsangiacomo, all’ultimo, intelligente, saggio di Roberto Sala sull’ambiguità dell’immagine della Penisola (e di conseguenza dell’italianità e degli emigrati) incistata nella cultura germanica sin dal Settecento. Nei paesi di lingua tedesca si ha una costruzione bipolare, basata su ondate successive di attrazione o repulsione per la Penisola, i suoi abitanti, la sua cultura. Alla fine queste ondate finiscono per sovrapporsi e per mescolare amore e disprezzo. D’altronde, e questo risalta dai contributi sulla situazione elvetica e su quella lussemburghese nello stesso volume edito da Carocci, nonché da numerosi capitoli della Routledge History of Italian Americans, la stessa realtà e coscienza immigrate evolvono nel tempo e producono una valutazione cangiante ed egualmente sempre binaria della Penisola: luogo di cultura (in tutti i sensi, compreso quello materiale, incluse quindi moda e cucina) e matrigna; luogo in cui recarsi il più spesso possibile, persino più volte l’anno, ma dal quale anche fuggire e comunque nel quale mai ritornare per sempre.
La lettura combinata di queste due opere è molto stimolante e suggerisce una quantità di considerazioni agli studiosi delle migrazioni. Per esempio entrambe fanno trasparire il dubbio ricorrente se poi gli italo-qualcosa si siano realmente integrati nei luoghi di arrivo o non siano sempre alla mercé di una possibile prossima reazione negativa nei loro riguardi. Si pensi alla questione sempre riemergente della criminalità italiana o meglio della “criminogenità” degli italiani, nella e fuori dalla Penisola, dunque della loro pericolosità. Un topos già attestato alla fine del medioevo e poi esploso in maniera dirompente nell’Europa del Cinquecento e da questa passato al Nuovo Mondo. Si pensi alle conclusioni della Routledge History, quando si cerca con troppa forza di asseverare il successo degli italo-statunitensi against all odds e quindi si spinge il lettore a dubitare di tale achievement. Si pensi infine a una notazione comune ad entrambi i libri, nei quali si finisce per notare come realtà inizialmente apparentate possano con l’andare del tempo contrapporsi. Diversi saggi del volume di Scaffai e Valsangiacomo sottolineano la difficile relazione odierna tra Svizzera italiana, Italia e lavoratori italiani in Elvezia; il saggio edito da Routledge evidenzia il progressivo distanziamento tra italo-statunitensi e italiani. Per altro negli Stati Uniti, come in Svizzera e come in altri paesi di emigrazione antica e recente, la nuova diaspora italiana tende a smarcarsi dalle vecchie comunità emigrate, per ragioni di status sociale, ma anche perché si sente culturalmente estranea.
La lettura incrociata delle due ricerche non ispira soltanto queste riflessioni: rivela inoltre come l’approfondimento di questi temi travalichi ormai la raccolta e l’analisi di dati tradizionale delle ricerche storiche. Letteratura, cinema, radio e televisione, stampa e/o nuovi media, cucina e marketing pubblicitario, arte, architettura e design, (ri)costruzione della memoria attraverso musei ed eventi divengono settori nei quali pescare informazioni sulla coscienza del gruppo emigrato e sulla considerazione di un Paese e della sua cultura. Gli storici non compulsano più soltanto le serie archivistiche o al massimo le opere nelle biblioteche, ma cercano le loro fonti in luoghi e contesti molto diversificati. In questo, almeno nella nostra fase storica (e storiografica), sembrano più attratti dagli approcci culturali che da quelli socio-economici, anche se alcuni cercano di non dimenticare il sostrato roccioso delle diaspore migratorie, che siano di uomini, di termini o di idee. Complessivamente si è quindi di fronte a due lavori solidi nei quali molti contributi permettono di meditare su realtà e situazioni in continuo cambiamento e offrono la possibilità di testare validità e sviluppi delle nuove tendenze storiografiche.