A proposito di “Immigrati e forestieri in Italia nell’Età moderna

[1]Gli spostamenti di popolazione sia all’interno della penisola italiana, sia provenienti da oltralpe o da oltremare hanno costituito un fenomeno costante, caratterizzandosi in particolare dal Basso Medioevo per tutto il corso dell’età moderna secondo tipologie causali (economiche, religiose, politiche…) individuate dagli studiosi per meglio afferrare la complessità dell’insieme di questi processi che si presentano come tradizionali e ripetitivi (ad esempio gli spostamenti stagionali legati al lavoro), oppure come risposte a situazioni di rottura (ad esempio le migrazioni seguite a rivolte o a eventi di carattere politico o religioso), ma sempre con caratteri specifici. Malgrado tale specificità, che si riscontra nella storiografia in maggioranza formata da numerosissimi saggi di taglio localistico, puntati su singoli casi e dispersi in riviste o pubblicazioni di limitata circolazione, si è cercato di stabilire dei modelli, almeno per i fenomeni più consistenti e continuativi. Non si può dimenticare l’importanza metodologica dello studio di questi fenomeni nel contesto della microstoria con i contributi di Giovanni Levi e Raul Merzario degli anni 1970 e 1980 per i quali alcuni di questi casi particolari sono diventati paradigmatici per la definizione di modelli di spostamenti che permangono nella lunga durata di un tempo storico che arriva ai giorni nostri. La ricchezza della produzione storiografica sui singoli casi appare tuttavia sempre sfuggente in una visione d’insieme e forse anche per questo il tema generale della mobilità prima della rivoluzione dei trasporti otto-novecentesca e del periodo convenzionalmente chiamato della Grande Emigrazione è stato (ed è tuttora) piuttosto tralasciato nella storiografia italiana. Invece, per i suoi caratteri di continuità, di temporaneità, di stagionalità, di ripetitività, di particolarità locale, si tratta di un fenomeno che, pur sotto forme diverse e particolari, non solo è una costante di lungo, lunghissimo periodo che connette luoghi e regioni della penisola tra loro (o con territori esterni), ma mantiene una sua esistenza ancora di più oggigiorno quando gli italiani non sono più protagonisti di flussi migratori del genere di quelli visti tra Otto e Novecento (che l’Italia riceve oggi da varie parti del mondo) ma sono invece al centro di spostamenti più numerosi e multidirezionali nel quadro dell’attuale globalizzazione, dalla mobilità lavorativa giovanile ai fenomeni di delocalizzazione.

Per afferrare questa complessità d’insieme propostaci dal tema della mobilità sono molto utili e opportune delle sintesi che organizzano la produzione storiografica in un quadro interpretativo coerente, non come semplice somma di casi, ma secondo un’impostazione tematica e problematica. In questo volume, come si evince dal titolo, il punto di vista è soprattutto quello dell’immigrazione e dell’inserimento dei forestieri nei luoghi d’arrivo, che sono principalmente le città. Pur non escludendo accenni ai luoghi di partenza e alle motivazioni alla base dello spostamento, l’attenzione dei vari saggi, come spiega il curatore del volume Emanuele Pagano, riguarda le presenze di diversa origine che flussi più o meno definiti e consistenti portano nelle varie parti della penisola nonché il modo in cui tali presenze si definiscono collettivamente (le “nationes”) e si inseriscono giuridicamente ed economicamente nella società dei luoghi d’arrivo, mantenendo quei legami con le aree di partenze che permettono di intessere quelle reti di rapporti che strutturano e veicolano i flussi migratori nelle loro direzioni e consistenza.

Su questa base il volume si snoda in modo molto ben strutturato. La prima parte su “Quadri e dinamiche generali” affronta in tre capitoli altrettante questioni generali. Francesco Parnisari propone una ricostruzione delle immigrazioni in Italia provenienti sia dalla penisola sia da fuori di essa, offrendo un prezioso aggiornamento storiografico di quella ampia ma pulviscolare bibliografia di difficile reperimento. Riprendendo in esame il “modello alpino”, elaborato con un preminente interesse per i luoghi di partenza, Parnisari approfondisce, però, l’attenzione sui luoghi d’arrivo. Pur ammettendo l’esistenza di flussi diretti anche verso luoghi rurali di pianura, di collina e di montagna, egli mette in evidenza soprattutto le tipologie di immigrati che si presentano nelle città. Tali tipologie si definiscono sul paradigma del mestiere, dalle professioni, all’artigianato, ai lavori meno qualificati, ma hanno anche caratterizzazioni diverse, ad esempio religiose (ebrei) oppure etniche (zingari). Su questi fenomeni influiscono le politiche delle autorità cittadine che si relazionano con le istanze rappresentative delle comunità immigrate costituite dalle “nationes”.

Giustamente però Parnisari insiste nel presentare un quadro più sfumato di questa realtà di immigrazione e di inserimento che, lungi dall’essere rigidamente inquadrata dal punto di vista istituzionale, si realizzava attraverso percorsi alternativi più diretti assicurati da “sodalizi più piccoli, che riproducevano nei centri d’emigrazione” [si intenda nei luoghi d’arrivo] “distaccamenti delle confraternite parrocchiali dei singoli borghi o villaggi di provenienza” (p. 40), luoghi di riferimento consueti in quanto rispondenti alle comuni esigenze di assistenza materiale e spirituale. A tale scopo l’immigrato poteva rivolgersi anche a strutture locali non legate all’origine dei migranti che favorivano e regolavano l’accesso dell’immigrato sulla base del mestiere come si vede dal noto studio di Eleonora Canepari sulla Confraternita romana di Santa Maria dell’Orto. Insomma, le pagine 40-46 del saggio ci mettono in guardia da una visione semplificatorie della “natio” collocandola nel contesto complesso e confuso delle istituzioni di antico regime per notare “il graduale distacco dalle catene migratorie e l’acquisizione di una più larga autonomia rispetto a logiche esclusivamente nazionali e parentali” (p. 43). Per questo i percorsi di inserimento fino all’acquisizione della cittadinanza sono nel contesto italiano specifici, individuali e tortuosi.

A queste considerazioni di livello microanalitico Parnisari associa un quadro macrostorico dei fenomeni che investono l’intera penisola strutturandolo a seconda delle entità statali maggiori che compongono la carta politica della penisola. Questa impostazione, che si sovrappone quella legata a macroaree dai distinti caratteri geografici ed economici (che pure Parnisari ha ben presente nel libro e nei suoi studi sulle valli lombarde), ha il vantaggio pratico di suddividere tra i vari stati la storiografia esistente, ma soprattutto quello di ricordare come il fattore statuale e politico abbia il suo forte e specifico peso nella regolazione dei fenomeni di immigrazione e di insediamento. Da questo quadro della penisola tali fenomeni si confermano come diretti verso le città per un’attrazione relativa a determinati mestieri (edilizia, approvvigionamento alimentare, facchinaggio nei porti e nelle città commerciali) e in partenza soprattutto dalle aree montane. In generale è l’Italia centro-settentrionale che produce un’emigrazione di mestiere, per lo più qualificata e organizzata, diretta verso i centri urbani (che pure accolgono o, comunque, sono mete di spostamenti di poveri e di vagabondi). Nell’età moderna, salvo poche eccezioni, le città italiane sono in crisi o in stagnazione demografica e produttiva. Non bisogna dimenticare, però, che la presenza di molti stati e staterelli fa sì che vi siano molte città capitali dove le occasioni di lavoro per gli immigrati specialmente nell’edilizia. Solo accennati, pur se citati, nel saggio sono gli spostamenti legati al mondo rurale, soprattutto nel Mezzogiorno, legati a specifiche situazioni (ad esempio la transumanza, fenomeno non sconosciuto anche in area padana, o le colonizzazioni volute dagli stati in particolare con l’arrivo di greci e albanesi in varie aree spopolate, dall’Italia “adriatica”, alla Maremma, alla Sardegna). Naturalmente, in un saggio di sintesi, questo è un riflesso di una minore produzione storiografica, anche se sono fenomeni da non sottovalutare in quanto è nei secoli dell’età moderna che la penisola italiana, a seguito della decadenza più o meno accentuata del suo tradizionale tessuto urbano nel contesto dell’economia europea, diventa un territorio marcatamente rurale, pur nelle grandi differenze tra la conduzione agraria dalla proprietà contadina, alla mezzadria, al latifondo, una trasformazione che produce effetti anche sulla mobilità, magari a breve raggio, della forza lavoro.

Gli altri due saggi della parte generale trattano in generale due temi molto diversi. Sulla base di una bibliografia molto vasta e specifica sui singoli casi, Danilo Zardin analizza in profondità l’importanza delle “reti confraternali” nella formazione dei percorsi migratori e soprattutto dell’insediamento delle comunità immigrate nelle città. Le confraternite sono molto diffuse nell’Italia centro-settentrionale fin dal Medioevo e costituiscono dei nuclei associativi nei quali i fedeli si associano per scopi di devozione, ma che poi si trasformano in istituzioni che si occupano di vari aspetti della vita dei fedeli stessi. La formazione di confraternite “nazionali” o anche su base più ristretta (della città o del villaggio) da parte degli immigrati costituisce, come già richiamato sopra, uno strumento di autotutela degli immigrati trasformandosi anche in corporazioni di mestiere e diventando strumenti di identificazione, di integrazione e di protezione o di welfare dei nuovi. Si sottolinea come il rafforzamento di queste strutture legate alle comunità di origine (Zardin esamina in dettaglio il caso dei lucchesi e dei milanesi a Venezia) passi anche per una loro apertura, su un piano giuridico diverso, a membri non originari della madrepatria. Questo è un fenomeno significativo da sottolineare: per rafforzare le loro istituzioni etniche, gli immigrati da questa o quella località dovevano dar loro un carattere meno legato alla loro “natio”, ma invece farne delle realtà che offrivano benefici all’intera società ospitante. Anche questo fa parte di un percorso a due velocità: quella del mantenimento dell’identità e quella dell’integrazione. L’autore, sulla base di una ricchissima e dettagliata bibliografia locale e generale, offre un’inedita fino ad ora “mappatura” della diffusione delle confraternite “nazionali” come realtà di aggregazione degli immigrati nelle principali città, tenendo anche conto di variabili quali la diversa consistenza di tali istituzioni a seconda del numero di immigrati della stessa “natio” e dei cambiamenti che nel lungo periodo si determinano in esse, dovuti anche agli effetti del Concilio di Trento e al rafforzato controllo della Chiesa su queste istituzioni laicali, che tuttavia non riuscì a soffocarne il ruolo nell’ambito che qui ci interessa.

Dall’aspetto sociale e religioso si passa a quello demografico e economico con il saggio di Luigi Lorenzetti che presenta il modello più studiato negli ultimi decenni e arricchito da numerosi studi di caso, quello delle migrazioni dalle Alpi (si rimanda agli studi “seminali” di Pier Paolo Viazzo, di Raul Merzario, di Dionigi Albera e dello stesso Lorenzetti), visto nella prospettiva dell’insediamento dei migranti nelle realtà socio-economiche di destinazione. Lorenzetti precisa di occuparsi della mobilità “sudalpina”, cioè che riguarda il versante meridionale delle Alpi piemontesi, lombarde e ticinesi dove si sono costituite una società e un’economia basate sull’emigrazione soprattutto stagionale degli uomini, su regimi demografici molto controllati, su una pratica di mestieri specializzati che si è indirizzata non solo verso le città italiane, ma anche in varie parti d’Europa e, comunque, non solo in città ma anche in altre realtà rurali e montane. Per questo motivo vi è stata nella storiografia, come spiega Lorenzetti, un’evoluzione del modello da una concezione binaria e gerarchica del genere centro-periferia a una concezione reticolare caratterizzata dalla pluralità e complessità delle scelte del migrante dove la tradizione degli spostamenti verso determinate destinazioni si incrocia con la agency della comunità di partenza di riorientare o modificare le direzioni dei flussi.

Questo aspetto generale viene misurato da Lorenzetti su tre punti specifici, anche nel suo caso sulla base di un aggiornamento storiografico importante. Il primo è quello del mercato del lavoro nei luoghi d’arrivo la cui flessibilità aumenta grazie agli immigrati. In esso questi ultimi con le loro specializzazioni di mestiere finiscono per creare un bisogno di maestranze che viene soddisfatto da altri migranti con un effetto di sostituzione o di sussidiarietà. Tale effetto si moltiplica nelle zone di frontiera dove si producono delle situazioni differenziali particolarmente attrattive. Un secondo punto è l’integrazione dei migranti nei luoghi d’arrivo che una visione solo teorica del modello reticolare potrebbe impedire di comprendere in quanto apparentemente basato su un’idea di permanente variabilità delle destinazioni. Se questo può essere vero per le destinazioni rurali o montane o per certe attività, le cose cambiano nelle città nelle quali le autorità favorivano, con leggi e concessione di privilegi (tra tutti la cittadinanza), l’inserimento regolare e continuativo degli immigrati la cui opera portava alla città benefici nel contesto di una politica economica di tipo mercantilista. Questo elemento dirigista, con maggiori o minori limiti evidenziati nelle varie situazioni, si inserisce nella dinamica dei movimenti migratori e può influenzare notevolmente un modello migratorio legato ai soli fattori economici. Un terzo punto di grande rilievo è quello dei movimenti di denaro che le rimesse dei migranti mettono in moto dai luoghi d’arrivo a quelli di partenza e che, come indica Lorenzetti, evidenziano delle strategie imprenditoriali da parte dei migranti che emergono dalla documentazione contabile o dalla corrispondenza familiare. Questo tema di grande interesse (e anche di permanente attualità nell’analisi dei movimenti migratori) è molto rilevante per lo studio dell’insediamento dei migranti. Quanta parte dei guadagni tornava al paese di origine non solo come rendita ma magari per consentire dei rafforzamenti patrimoniali utili a aumentare l’impegno migratorio stesso e, d’altro canto, quanta parte invece era destinata a un investimento nel luogo d’arrivo per allargare l’attività lavorativa, acquistare proprietà, migliorare la posizione sociale e professionale o addirittura permettere un’iniziativa finanziaria attraverso i prestiti? L’analisi di questi dati costituisce il bilancio dell’esperienza migratoria e può misurare in termini concreti vari comportamenti dell’immigrato come, ad esempio, la variabile tra migrazioni temporanee e definitive dando una sostanza storica alle scelte dei migranti al di là di una descrizione statistica sempre approssimativa. Tirando le fila rispetto a queste tre componenti che influenzano i processi di insediamento delle migrazioni “sudalpine”, Lorenzetti sottolinea il carattere transnazionale di tali fenomeni nei quali il migrante tiene insieme, almeno finché gli è possibile e conveniente economicamente, il doppio mondo (l’espace vécu et l’espace investi secondo la definizione di Paul-André Rosenthal) in cui si trova a muoversi spesso contemporaneamente.

Questo inquadramento generale storico e storiografico dei movimenti di popolazione in arrivo e delle dinamiche dei relativi insediamenti è seguito da quattro saggi monografici che presentano due città capitali: Roma e Milano colte da prospettive e in momenti diversi. Un tratto comune tra i due casi è dato dai saggi che guardano all’insediamento dei forestieri dal punto di vista religioso. Su Roma Alessandro Serra, basandosi sull’ampia storiografia recente, presenta un quadro complesso di presenze di “stranieri” tra XVI e XIX secolo tra i quali non mancano gli acattolici (protestanti, moriscos, ortodossi), certamente (tranne gli ebrei) non in un ambito istituzionalizzato o in una condizione di tolleranza di culto, un tema molto frequentato come dimostra la ricca bibliografia citata da Serra e che continua a produrre risultati tanto da meritare la pubblicazione di un Companion to Religious Minorities in Early Modern Rome (a cura di Matthew Coneys Wainwright e Emily Michelson, Leiden, Brill, 2021). A questo aspetto Serra unisce una riflessione sulle “nationes” cattoliche, un tema antico per l’Urbe pur se sempre attuale nella storiografia romana, come è dimostrato anche dal saggio di Anna Esposito, relativo al periodo di passaggio tra Medioevo e Età moderna, nel quale viene dato conto dei modi dell’insediamento forestiero dalle confraternite alle “nationes” che non riguarda solo la Città Eterna, ma anche molti centri del territorio circostante dell’attuale Lazio.

Anche per Milano abbiamo un saggio di Alessandro Corsi sulle confraternite nazionali la cui presenza si registra con grande ritardo rispetto al resto della penisola, descritta nel saggio di Zardin di cui si è già detto.  Solo nel XVI secolo si inizia con una istituzione per i genovesi dovuta all’iniziativa privata del banchiere Tommaso Marino, fatto che può sorprendere se si pensa alla rilevanza dell’attività mercantile di Milano. Il saggio dà varie spiegazioni di questo fatto, la principale delle quali ci sembra quella legata all’intervento disincentivante dell’autorità civile rispetto alla definizione “nazionale”, pur se certe agglomerazioni risultano anche dalla tradizione della lingua parlata e dei dialetti (di cui l’autore dà interessanti esempi) come per gli scaricatori svizzeri. Con Carlo Borromeo si apre invece alle compagnie di stampo nazionale come la tedesca e la spagnola con le relative devozioni ai santi tradizionali che restano anche dopo il passaggio sotto il dominio austriaco. In un contesto totalmente diverso il secondo saggio su Milano, scritto da Riccardo Benzoni, esplora la normativa e il controllo dei forestieri sotto il governo napoleonico della Repubblica e poi del Regno d’Italia, quando l’intervento dello stato “amministrativo” nella sorveglianza e gestione dei flussi di immigrazione diventa ormai pressante, non solo per la particolare contingenza di quegli anni, ma anche per gli specifici caratteri di quella forma di governo. Del resto, la sorveglianza statale sulla circolazione dei forestieri non inizia certo solo alla fine dell’età moderna in Europa (si pensi al caso francese molto studiato), ma bisogna tener conto della specificità del caso italiano con la sua pluralità di entità statali disseminate in modo diseguale sul territorio peninsulare.

Lo studio sugli spostamenti di popolazione nella penisola italiana nell’età moderna riceve con questo volume un considerevole contributo sotto vari aspetti. Dal punto di vista storiografico costituisce una messa a punto degli studi per la ricchezza della bibliografia utilizzata, ricercata anche in pubblicazioni locali, che va anche oltre lo specifico taglio tematico relativo agli arrivi e agli insediamenti. Inoltre, va segnalato lo sforzo di coprire l’intero territorio peninsulare come si vede nei saggi di Parnisari e Zardin, da cui non si può non notare una prevalenza degli studi sull’Italia centrosettentrionale rispetto al Mezzogiorno. Infine, il volume unisce approcci molto diversi da quello sui modelli, relativo alle reti migratorie e all’incidenza delle rimesse, a quello centrato sulle confraternite e sulle forme devozionali e associative che approfondiscono il quadro basato sulle “nationes”. Se l’insieme del problema non si esaurisce con questi concetti, nondimeno essi danno indicazioni preziosi per capire i meccanismi dei movimenti di popolazione in età moderna che, come si è già accennato, si prolungano per molti versi fino ai nostri tempi costituendo un secolare elemento fisiologico di mobilità in una società come quella italiana che beninteso conosce enormi trasformazioni dal XIX secolo in avanti. La parte del volume relativa a Milano e Roma conferma l’estrema varietà delle diverse realtà italiane anche in presenza di strutture simili (come le confraternite). Certamente tali differenze sono anche collegate alla disponibilità delle fonti, un tema complesso andrebbe affrontato con un lungo lavoro di individuazione e di cernita. In ogni caso, si conferma l’interesse per una storia comparativa delle varie realtà e l’allargamento dell’indagine a luoghi ancora non studiati o non indagati a fondo. Non si tratta infatti di procedere per mero scrupolo di completezza un quadro nazionale, ma di far emergere le varianti che complicano e arricchiscono i modelli elaborati. Proprio a questo scopo le opere di sintesi come questo volume sono preziose per aggiornare la nostra visione d’insieme e fare il punto su un tema tanto complesso.


[1]           Immigrati e forestieri in Italia nell’Età moderna, a cura di Emanuele Pagano, Roma, Viella, 2020, 260 pp.