“ … noi qua stiamo tutti bene”. Lettere di emigranti bergamaschi 1959-1972

“ … noi qua stiamo tutti bene”. Lettere di emigranti bergamaschi 1959-1972
di Ettore Janulardo

 

 

Forma di comunicazione storica, la lettera dell’emigrante si declina in una pluralità di momenti episodici sottesi da una comune logica: avvicinare i lontani, rendere presenti e tangibili gli assenti, o almeno la carta da loro vergata. Struttura mitopoietica del contatto – della negazione-riaffermazione della lontananza – le lettere dall’emigrazione mutano senza trasformarsi, inglobando in un procedere descrittivo immutabile orizzonti invisibili, non descritti né afferrati: viaggi di carta, ove è la carta – forse più ancora delle persone – a viaggiare.

Le lettere che qui si presentano sono scritti di emigranti bergamaschi residenti in diverse aree europee ed extra-europee, negli anni tra il 1959 e il 1972[1]. Di diverso tono e spessore, talvolta lunghe e accorate, a volte brevi e improntate a un forte spirito attivo – disbrigo di pratiche burocratiche, richiesta di favori o di oggetti da ricevere nella nuova terra di soggiorno – costituiscono nel loro insieme una geografia socio-economica, ma anche storica e linguistica, dell’emigrazione italiana recente, spesso proveniente da aree che, in tempi a noi vicini, sono diventate terra d’immigrazione e di difficile convivenza con l’“altro”.

All’interno di questo territorio lombardo, aree di difficile accessibilità – come ad esempio la Valle di Scalve situata all’estremità nord-orientale della provincia di Bergamo, di cui rappresenta oltre il 5% del territorio, racchiusa tra monti che superano i 2.000 metri – si servono per secoli dell’apporto fondamentale di donne e bambini nell’ambito di un precario equilibrio economico tra attività agricola, silvo-pastorale e mineraria, usufruendo, nel corso della loro storia anche recente, della valvola di sfogo costituita dall’emigrazione: si ricordano, per la prima metà del XIX secolo, movimenti migratori di minatori e di operai locali diretti verso il Regno di Sardegna, in una dinamica in cui gli “spostamenti a medio raggio s’innestano su una realtà fatta di migrazioni periodiche a breve raggio”[2], essenzialmente per le attività estive delle aziende agricole della pianura. Nell’ambito internazionale, Svizzera, Francia, Belgio, nonché Africa, America (meridionale e settentrionale) e Australia, rappresentano mete tipiche dell’emigrazione bergamasca.

 

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Migrazioni in area ticinese, tra pratiche transnazionali e geometrie identitarie (XVI – inizio XX secolo)

Migrazioni in area ticinese, tra pratiche transnazionali e geometrie identitarie (XVI – inizio XX secolo)

 

Luigi Lorenzetti, Università della Svizzera italiana, Mendrisio

 

 

 

1. Emigrazioni e transnazionalismo: le prospettive della storia alpina

 

Negli ultimi anni, un innumerevole numero di studi ha individuato nel transnazionalismo il tratto distintivo delle migrazioni contemporanee[1]. Connesse al processo di globalizzazione e alla diffusione dei moderni mezzi di comunicazione, esse avrebbero acquisito forme e contenuti inediti rispetto alle migrazioni del passato e in grado di esprimere forme identitarie fondate sulla bifocalità e sullo sviluppo di campi sociali che collegano in modo sempre più diretto i paesi di partenza e quelli di arrivo.

La prospettiva transnazionale, ampiamente seguita dai sociologi delle migrazioni, non ha mancato di suscitare riserve e critiche. Tra gli storici, in particolare, è stata più volte messa in dubbio la portata euristica del concetto, come pure la pretesa originalità storica del transnazionalismo di molte migrazioni contemporanee. In particolare, oltre ad evidenziare la difficoltà a definire i contorni e i contenuti delle identità transnazionali[2], sono stati evidenziati i rischi di “de-storicizzazione” della sociologia del transnazionalismo e la necessità di una più marcata attenzione alle somiglianze e alle differenze che caratterizzano i vari periodi storici[3]. D’altra parte, è stato sottolineato che nelle realtà migratorie non esistono (e non sono mai esistiti) soggetti definibili come transnazionali; il “transnazionalismo” si definisce e di esplica infatti attraverso “pratiche” espresse e messe in atto dal basso, dai comportamenti individuali, familiari e comunitari.

In breve, più che illustrare i contenuti storicamente inediti delle migrazioni contemporanee, il transnazionalismo, costituisce una chiave di lettura utile a mettere in risalto rotture e scarti nella storia delle pratiche migratorie[4] analizzando le diverse forme di relazione che collegano gli spazi di emigrazione e di immigrazione. In tale ottica, la lettura transnazionale può costituire un utile strumento per mettere in rilievo i fenomeni di lunga durata che costellano le migrazioni umane. Lo dimostrano gli svariati contributi che negli ultimi anni hanno portato nuova linfa agli studi sull’emigrazione alpina e al suo evolvere tra la prima età moderna e il XX secolo. Proprio dalle Alpi – area a cui appartiene il territorio ticinese oggetto di questa analisi – sono d’altronde scaturiti, in anni recenti, alcuni importanti impulsi alla storia delle migrazioni europee; impulsi che hanno alimentato il dibattito attorno alle connessioni – a volte esplicite, a volte più sottili e impalpabili – tra emigrazione e demografia[5], o a quelle tra emigrazione e organizzazione sociale[6], ma soprattutto attorno alla natura delle migrazioni che il ben noto assunto braudeliano aveva qualificato quali espressione della povertà e del sovrappopolamento.

Questi impulsi hanno inoltre permesso di mettere in rilievo molti aspetti inerenti i contenuti transnazionali di numerose esperienze migratorie alpine. Basti pensare all’intima relazione che lega i luoghi di approdo e di lavoro alle comunità di partenza dei migranti e, più specificatamente, alla stretta connessione economica e affettiva che sottende la divisione dei compiti fra gli uomini che partono e le donne che restano[7] o ai movimenti di ritorno che, come le partenze, sono scandite dagli innumerevoli progetti migratori e dalla loro connessione con le logiche della riproduzione familiare[8].

Su tale prospettiva, i flussi migratori sviluppatisi in area ticinese tra il XVI e il XIX secolo costituiscono un campo di analisi particolarmente esemplificativo. Pur accomunandosi in larga misura alle pratiche migratorie presenti in gran parte dell’area alpina italiana, in questa regione esse si caricano di particolari implicazioni, dettate dal suo percorso politico-identitario. Infatti, nonostante la dominazione elvetica – debole e superficiale – non abbia intaccato l’ordinamento politico e giuridico locale costituitosi in epoca comunale, le terre ticinesi dell’epoca moderna appaiono come un territorio “intermedio”; un’area italiana nello spazio svizzero, alla quale si sovrappongono delle identità composite, modellate dall’emigrazione e segnate dalla frammentazione e dai molteplici localismi. In questo contesto, partenze e ritorni concretizzano un “transnazionalismo integrato”[9] in cui il senso di appartenenza ai luoghi di origine è nutrito dai ritorni e dalle rimesse. È d’altronde attorno a queste ultime che si esemplifica con maggior chiarezza il diffuso transnazionalismo proprio dei flussi migratori alpini[10]. Una gestione che, lungi dal riguardare unicamente l’equilibrio (micro)economico delle unità familiari e delle comunità locali, mette in gioco anche i processi identitari e di autorappresentazione individuali e collettivi. Tale aspetto permette quindi di affrontare il tema del transnazionalismo delle pratiche migratorie mettendo a fuoco i legami, non sempre lineari, tra le pratiche transnazionali e lo “spazio vissuto” degli emigranti[11].

Prima di addentrarci più dettagliatamente nella questione, è tuttavia opportuno delineare i tratti essenziali del sistema migratorio dell’area ticinese e la sua evoluzione tra il XVI e l’inizio del XX secolo.

 

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“Dove ieri fu serva, sia oggi consocia”: la condizione della donna secondo Arturo Giovannitti

“Dove ieri fu serva, sia oggi consocia”: la condizione della donna secondo Arturo Giovannitti

Bénédicte Deschamps

Université Paris 7 – Denis Diderot

 

 

Quando Arturo Giovannitti morì, il 31 dicembre 1959, il “New York Times”, salutò la scomparsa di un poeta che “faceva parte della corrente radicale idealistica che aveva modellato il movimento operaio degli immigrati italiani negli Stati Uniti all’inizio di questo secolo”[1]. Riconosciuto perfino dal Vice console d’Italia a Los Angeles come un “poderoso organizzatore e un buon giornalista”, Giovannitti si distinse sempre come un uomo indipendente poco incline a seguire ciecamente partiti ed ideologie[2]. “Refrattario – secondo l’attivista socialista Domenico Saudino – a tutte le regole, od a qualunque disciplina,” il nativo di Ripabottoni guardava, infatti, la condizione umana, la funzione dell’arte e il movimento operaio da una prospettiva singolare[3]. La libertà di pensiero di Giovannitti si esprimeva a diversi livelli, incluso il suo rifiuto di schierarsi in maniera esclusiva dalla parte di qualsiasi gruppo politico o sindacale. La partecipazione del “poeta dei lavoratori” a numerosi periodici attesta non solo la sua ricca attività letteraria o la sua forza creativa, ma anche la sua apertura di spirito. Direttore del giornale socialista italo-americano “Il Proletario” nel 1911, co-fondatore della rivista culturale “Il Fuoco” nel 1914, Giovannitti collaborò anche a “The Masses” e “The Liberator,” due testate emblematiche dei circoli più all’avanguardia della sinistra intellettuale newyorkese[4]. Come sottolineava Onorio Ruotolo nella sua introduzione al Camminante, “non si stampava in quest’America foglio proletario e libertario, specie in lingua italiana, che non si fregiasse di qualche lirica sgorgata dal suo cuore di vero poeta, o di qualche suo scritto poderoso di pensiero e sempre nobilissimo di forma”[5].

 

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Una nuova generazione di emigranti. Il caso italo-finlandese

Una nuova generazione di emigranti

Il caso italo-finlandese

 

Paolo Di Toro Mammarella

 

 

1. Nuovi modelli di emigrazione e identità europea

Partire, voltare pagina e ricominciare da un’altra parte, lontano, dove tutto magari è un po’ più facile. Sin dalle origini, l’emigrazione ha accompagnato passo dopo passo le vicende umane, e su di essa sono già stati versati fiumi di inchiostro e di parole. Oggigiorno, molti ricercatori hanno osservato la nascita e lo sviluppo di nuove fenomenologie migratorie nei paesi occidentali, che nella maggior parte dei casi riguardano direttamente le nuove generazioni. A partire dagli anni 1990, gli studiosi si ritrovano a descrivere la cosiddetta “fuga di cervelli”, ovvero, la crescente ondata migratoria che coinvolge una fascia specifica della popolazione. Si tratta di giovani sotto i 35 anni che nonostante il progresso tecnologico, il benessere diffuso e l’aumento dei consumi, decidono comunque di spostarsi oltre confine. Mesi, o anni, che andranno a condizionare in maniera indelebile il resto della vita. Che decidano di tornare oppure no. A volte spinti dalla semplice volontà di scoprire il mondo o di crescere professionalmente. Altre dal bisogno, dalle necessità. Fatto sta che il fenomeno comincia a prendere piede, richiamando l’attenzione di studiosi e mass media[1].

Proprio da queste premesse è partito il progetto di ricerca Una nuova generazione di emigranti. Il caso italo-finlandese, realizzato in collaborazione con l’Institute of Migration di Turku. Anche questa ricerca, nel suo piccolo, rappresenta una sorta di “viaggio”: un lungo itinerario alla scoperta delle “nuove migrazioni”, fenomeno emergente e tipico dei paesi occidentali, forse non ancora inquadrato in tutta la sua portata. La ricerca mira quindi a far luce su una generazione di “migranti” profondamente diversa rispetto al passato, i cui protagonisti sono ragazzi con un’ottima formazione scolastica e universitaria alle spalle, che alla valigia di cartone hanno sostituito laptop e cellulari.

 

 

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Intervista a Ettore Melani

Intervista a Ettore Melani

di Matteo Sanfilippo

 

Da due anni gira per il web Un giorno in Europa: nuove forme di emigrazione (2008), interessante documentario girato da Ettore Melani e montato da Nadia Baldi. Il filmato di quasi un’ora è dedicato ai vari aspetti e ai vari problemi della nuova emigrazione continentale under 35, seguiti ricostruendo la giornata tipo di qualcuno che si sposta per lavoro in un’altra città, un altro paese. L’autore, sulla scia del dibattito innescato dal manifesto di Claudia Cucchiarato, recentemente riportato da ASEI, ci ha proposto di rendere disponibile la sua opera e un trailer (si possono scaricare da http://www.arcoiris.tv/modules.php?name=Flash&d_op=getit&id=13328). Inoltre ci ha concesso questa intervista.

 

 

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L’immagine dell’“altro” nel rapporto tra immigrati italiani e società tedesca. Percezioni a confronto tra Otto e Novecento.

L’immagine dell’“altro” nel rapporto tra immigrati italiani e società tedesca. Percezioni a confronto tra Otto e Novecento.
Elia Morandi

 

Fonti e problemi di metodo

 

Quando, qualche tempo fa, un collega mi propose di iniziare ad occuparmi anche della questione dell’immagine dell’“altro” nel rapporto tra Gastarbeiter[1] italiani e società tedesca, mi sembrò una sfida interessante da cogliere, pur sapendo peraltro che non sarebbe stato un compito facile. Un po’ perché mi ero occupato solo tangenzialmente della questione[2], ma soprattutto perché, pur trovando l’argomento affascinante, lo ritenevo anche di assai difficile “lettura”. E il perché è presto detto. E’ innegabile che la tematica in questione, per i riflessi che ha sulle prospettive e le opportunità dei migranti nel paese ospite, sia ormai ineludibile in ogni discorso serio sull’emigrazione, ma come affrontarla? March Bloch nel suo Apologia della storia sosteneva che “i fatti umani sfuggono alle determinazioni matematiche” e che “dov’è impossibile calcolare, bisogna suggerire”[3]. Ora, mi sembra che nel caso dell’argomento che qui ci interessa la necessità di “suggerire” sia davvero massima. Che cosa si intende per percezione dell’“altro”? Esiste la percezione dell’“altro”, uguale per tutti, o si tratta di una faccenda più soggettiva? E ancora, chi è che percepisce chi? Se sono gli italiani a percepire i tedeschi, di quali italiani si tratta? Di quelli di Trento o di quelli di Palermo? O magari di quelli di Palermo emigrati a Monaco di Baviera? E quali tedeschi percepiscono? Quelli conosciuti sui libri o il collega alla catena di montaggio della Volkswagen? E se sono i tedeschi a percepire gli italiani, di che tedeschi si tratta? Del proprietario di un’azienda o di un operaio? Di un protestante del nord del paese o di un cattolico del sud? Di una persona che parla per sentito dire o per esperienza diretta? Può inoltre cambiare la percezione? E se cambia, come cambia?

 

 

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The Cultures of Migration, Dartmouth College, Hanover, New Hampshire, 22-24 giugno 2007

CONVEGNI: The Cultures of Migration, Dartmouth College, Hanover, New Hampshire, 22-24 giugno 2007
Nell’ottica della trasformazione dell’Italia da terra d’emigrazione a paese d’immigrazione, il convegno – organizzato da Graziella Parati e Anthony Julian Tamburri – si è proposto di stimolare un’analisi delle culture dei migranti in una prospettiva comparata tra gli italiani che se ne sono fatti portatori, quando hanno abbandonato la penisola nei decenni dell’esodo di massa, e le minoranze extracomunitarie che, invece, le esprimono ai nostri giorni dopo avere scelto l’Italia come propria destinazione. In conseguenza di un approccio che non poteva che essere diacronico, il confronto tra queste due diverse tipologie d’esperienze è stato per lo più indiretto, con poche occasioni di raffronto diretto, come il tentativo di Elena Benelli di mettere in relazione la produzione dello scrittore italo-canadese Marco Micone, emigrato nel Quebec nel 1958, con quella dell’autrice Igiaba Scego, nata a Roma nel 1974 da profughi somali. Nel complesso, quindi, più che il contenuto delle singole relazioni, è stata in genere la struttura stessa del consesso che, attraverso l’alternarsi degli interventi, ha in genere proposto un intreccio deliberato di riflessioni sull’emigrazione dall’Italia e sull’immigrazione in questo paese.