Quaderni Asei – 6
Angelo Trento LA COSTRUZIONE DI UN’IDENTITÀ COLLETTIVA Storia del giornalismo in lingua italiana in Brasile ISBN 978-88-7853-244-1
Continue readingArchivio Storico dell'Emigrazione Italiana
Angelo Trento LA COSTRUZIONE DI UN’IDENTITÀ COLLETTIVA Storia del giornalismo in lingua italiana in Brasile ISBN 978-88-7853-244-1
Continue readingSalvatore Palidda e Matteo Sanfilippo Emigrazione italiana, criminalità e criminalizzazione: alcune note introduttive
Continue readingPresentazione del volume: I fanciulli nell’emigrazione italiana Una storia minore (1861-1920) di Maria Rosa Protasi Cosmo Iannone Editore, 2010 Martedì 5 aprile 2011, ore 17.00 Intervengono Enrico Pugliese, Matteo Sanfilippo, Eugenio
Continue readingMigrazioni in area ticinese, tra pratiche transnazionali e geometrie identitarie (XVI – inizio XX secolo)
Luigi Lorenzetti, Università della Svizzera italiana, Mendrisio
1. Emigrazioni e transnazionalismo: le prospettive della storia alpina
Negli ultimi anni, un innumerevole numero di studi ha individuato nel transnazionalismo il tratto distintivo delle migrazioni contemporanee[1]. Connesse al processo di globalizzazione e alla diffusione dei moderni mezzi di comunicazione, esse avrebbero acquisito forme e contenuti inediti rispetto alle migrazioni del passato e in grado di esprimere forme identitarie fondate sulla bifocalità e sullo sviluppo di campi sociali che collegano in modo sempre più diretto i paesi di partenza e quelli di arrivo.
La prospettiva transnazionale, ampiamente seguita dai sociologi delle migrazioni, non ha mancato di suscitare riserve e critiche. Tra gli storici, in particolare, è stata più volte messa in dubbio la portata euristica del concetto, come pure la pretesa originalità storica del transnazionalismo di molte migrazioni contemporanee. In particolare, oltre ad evidenziare la difficoltà a definire i contorni e i contenuti delle identità transnazionali[2], sono stati evidenziati i rischi di “de-storicizzazione” della sociologia del transnazionalismo e la necessità di una più marcata attenzione alle somiglianze e alle differenze che caratterizzano i vari periodi storici[3]. D’altra parte, è stato sottolineato che nelle realtà migratorie non esistono (e non sono mai esistiti) soggetti definibili come transnazionali; il “transnazionalismo” si definisce e di esplica infatti attraverso “pratiche” espresse e messe in atto dal basso, dai comportamenti individuali, familiari e comunitari.
In breve, più che illustrare i contenuti storicamente inediti delle migrazioni contemporanee, il transnazionalismo, costituisce una chiave di lettura utile a mettere in risalto rotture e scarti nella storia delle pratiche migratorie[4] analizzando le diverse forme di relazione che collegano gli spazi di emigrazione e di immigrazione. In tale ottica, la lettura transnazionale può costituire un utile strumento per mettere in rilievo i fenomeni di lunga durata che costellano le migrazioni umane. Lo dimostrano gli svariati contributi che negli ultimi anni hanno portato nuova linfa agli studi sull’emigrazione alpina e al suo evolvere tra la prima età moderna e il XX secolo. Proprio dalle Alpi – area a cui appartiene il territorio ticinese oggetto di questa analisi – sono d’altronde scaturiti, in anni recenti, alcuni importanti impulsi alla storia delle migrazioni europee; impulsi che hanno alimentato il dibattito attorno alle connessioni – a volte esplicite, a volte più sottili e impalpabili – tra emigrazione e demografia[5], o a quelle tra emigrazione e organizzazione sociale[6], ma soprattutto attorno alla natura delle migrazioni che il ben noto assunto braudeliano aveva qualificato quali espressione della povertà e del sovrappopolamento.
Questi impulsi hanno inoltre permesso di mettere in rilievo molti aspetti inerenti i contenuti transnazionali di numerose esperienze migratorie alpine. Basti pensare all’intima relazione che lega i luoghi di approdo e di lavoro alle comunità di partenza dei migranti e, più specificatamente, alla stretta connessione economica e affettiva che sottende la divisione dei compiti fra gli uomini che partono e le donne che restano[7] o ai movimenti di ritorno che, come le partenze, sono scandite dagli innumerevoli progetti migratori e dalla loro connessione con le logiche della riproduzione familiare[8].
Su tale prospettiva, i flussi migratori sviluppatisi in area ticinese tra il XVI e il XIX secolo costituiscono un campo di analisi particolarmente esemplificativo. Pur accomunandosi in larga misura alle pratiche migratorie presenti in gran parte dell’area alpina italiana, in questa regione esse si caricano di particolari implicazioni, dettate dal suo percorso politico-identitario. Infatti, nonostante la dominazione elvetica – debole e superficiale – non abbia intaccato l’ordinamento politico e giuridico locale costituitosi in epoca comunale, le terre ticinesi dell’epoca moderna appaiono come un territorio “intermedio”; un’area italiana nello spazio svizzero, alla quale si sovrappongono delle identità composite, modellate dall’emigrazione e segnate dalla frammentazione e dai molteplici localismi. In questo contesto, partenze e ritorni concretizzano un “transnazionalismo integrato”[9] in cui il senso di appartenenza ai luoghi di origine è nutrito dai ritorni e dalle rimesse. È d’altronde attorno a queste ultime che si esemplifica con maggior chiarezza il diffuso transnazionalismo proprio dei flussi migratori alpini[10]. Una gestione che, lungi dal riguardare unicamente l’equilibrio (micro)economico delle unità familiari e delle comunità locali, mette in gioco anche i processi identitari e di autorappresentazione individuali e collettivi. Tale aspetto permette quindi di affrontare il tema del transnazionalismo delle pratiche migratorie mettendo a fuoco i legami, non sempre lineari, tra le pratiche transnazionali e lo “spazio vissuto” degli emigranti[11].
Prima di addentrarci più dettagliatamente nella questione, è tuttavia opportuno delineare i tratti essenziali del sistema migratorio dell’area ticinese e la sua evoluzione tra il XVI e l’inizio del XX secolo.
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Bénédicte Deschamps
Université Paris 7 – Denis Diderot
Quando Arturo Giovannitti morì, il 31 dicembre 1959, il “New York Times”, salutò la scomparsa di un poeta che “faceva parte della corrente radicale idealistica che aveva modellato il movimento operaio degli immigrati italiani negli Stati Uniti all’inizio di questo secolo”[1]. Riconosciuto perfino dal Vice console d’Italia a Los Angeles come un “poderoso organizzatore e un buon giornalista”, Giovannitti si distinse sempre come un uomo indipendente poco incline a seguire ciecamente partiti ed ideologie[2]. “Refrattario – secondo l’attivista socialista Domenico Saudino – a tutte le regole, od a qualunque disciplina,” il nativo di Ripabottoni guardava, infatti, la condizione umana, la funzione dell’arte e il movimento operaio da una prospettiva singolare[3]. La libertà di pensiero di Giovannitti si esprimeva a diversi livelli, incluso il suo rifiuto di schierarsi in maniera esclusiva dalla parte di qualsiasi gruppo politico o sindacale. La partecipazione del “poeta dei lavoratori” a numerosi periodici attesta non solo la sua ricca attività letteraria o la sua forza creativa, ma anche la sua apertura di spirito. Direttore del giornale socialista italo-americano “Il Proletario” nel 1911, co-fondatore della rivista culturale “Il Fuoco” nel 1914, Giovannitti collaborò anche a “The Masses” e “The Liberator,” due testate emblematiche dei circoli più all’avanguardia della sinistra intellettuale newyorkese[4]. Come sottolineava Onorio Ruotolo nella sua introduzione al Camminante, “non si stampava in quest’America foglio proletario e libertario, specie in lingua italiana, che non si fregiasse di qualche lirica sgorgata dal suo cuore di vero poeta, o di qualche suo scritto poderoso di pensiero e sempre nobilissimo di forma”[5].
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Convegno Genova porto di emigranti ai tempi dell’Unità d’Italia mercoledì 24 novembre 2010 presso la Sala Biblioteca del Consiglio Regionale della Liguria Via D’Annunzio, 38 Genova Lo Staff CISEI Piazza della Commenda, 2 16126 Genova
Continue readingRecensione: William Issel, For Both Cross and Flag. Catholic Action, Anti-Catholicism, and National Security Politics in World War II San Francisco, Philadelphia, Temple University Press, 2010, viii, 206 pp.
Stefano Luconi
A poche settimane dall’ingresso degli Stati Uniti nella seconda guerra mondiale, in applicazione del decreto presidenziale 9066 che autorizzava l’interdizione di persone ritenute pericolose per la sicurezza nazionale dalle zone a ridosso della costa del Pacifico, alcune migliaia di italiani e italo-americani residenti in California furono costretti ad abbandonare i luoghi dove vivevano per trasferirsi in aree dell’interno del paese perché furono sospettati di avere rapporti col regime fascista. Una oramai copiosa letteratura, spesso di taglio sensazionalistico o con intenti agiografici verso i membri delle Little Italies colpiti da queste misure, ha attribuito tali provvedimenti alla superficialità degli investigatori e a pregiudizi etnici che, in una fase concitata di emergenza nazionale dopo l’attacco giapponese a sorpresa su Pearl Harbor, finirono per trasformare i legami sentimentali ed emotivi con la terra ancestrale di un gran numero di individui di origine italiana in relazioni di tipo ideologico e politico con il governo di uno Stato nemico.
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Monsignor Marchetto, recentemente dimissionato dal dicastero vaticano per la pastorale agli emigranti, si racconta in una lunga intervista a Marco Roncalli, riprendendo anche discussioni avviate con questo ultimo molti anni or sono. Ovviamente il nucleo del volume riguarda la situazione attuale, in particolare le riflessioni dell’ex-funzionario e diplomatico vaticano sulla cosiddetta emergenza immigrazione, sulla crescita del fenomeno dei rifugiati, sulla questione rom.
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