Il voto italiano in America del Sud ha innescato molti dibattiti e speculazioni in questi mesi elettorali. Il risultato al Senato – allineato all’orientamento generale del voto all’estero – è stato subito presentato come la vera sorpresa che apriva al centro-sinistra la possibilità di governare, smontando le previsioni di entrambi i contendenti che vedevano queste terre come riserva naturale di voti della destra. Le comunità italiane in America del Sud non avevano comunque cambiato d’un giorno all’altro bandiera politica, come dimostra il risultato referendario di giugno con il trionfo netto del “si” (in linea, per il resto, con le altre ripartizione estere ad eccezione dell’Europa). Aldilà dei colpi di scena e delle polemiche, i risultati deludenti della lista Tremaglia del 9 aprile dovrebbero servire per sfrattare pregiudizi fortemente radicati in Italia riguardo questo pezzo dell’emigrazione e per cominciare a prendere atto della risorsa potenziale che significa l’esistenza di comunità di connazionali dinamiche e fortemente integrate nei paesi di accoglienza.
Seguendo questo ragionamento, crediamo che qualsiasi analisi futura sugli orientamenti del voto all’estero dovrebbe privilegiare due fattori, da una parte il grado di integrazione degli elettori nei paesi di residenza, dall’altra il carattere e modalità del loro rapporto con l’Italia. Da questo punto di vista il risultato sudamericano nelle elezioni politiche non doveva destare tante sorprese, perché era prevedibile una partecipazione superiore rispetto alle esperienze del CoMiTes, elemento che poteva favorire il centro-sinistra. Più della metà degli aventi diritto (51,81%) ha risposto all’appello, confermando la tendenza registrata in consultazioni precedenti (CoMiTes, referendum) che vede l’America del Sud con indici superiori di partecipazione rispetto al resto delle ripartizioni estere (42,07% per l’estero complessivamente, 38,44% in Europa, 37,30% in America del Nord e Centrale).
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