Migrazioni in area ticinese, tra pratiche transnazionali e geometrie identitarie (XVI – inizio XX secolo)
Migrazioni in area ticinese, tra pratiche transnazionali e geometrie identitarie (XVI – inizio XX secolo)
Luigi Lorenzetti, Università della Svizzera italiana, Mendrisio
1. Emigrazioni e transnazionalismo: le prospettive della storia alpina
Negli ultimi anni, un innumerevole numero di studi ha individuato nel transnazionalismo il tratto distintivo delle migrazioni contemporanee[1]. Connesse al processo di globalizzazione e alla diffusione dei moderni mezzi di comunicazione, esse avrebbero acquisito forme e contenuti inediti rispetto alle migrazioni del passato e in grado di esprimere forme identitarie fondate sulla bifocalità e sullo sviluppo di campi sociali che collegano in modo sempre più diretto i paesi di partenza e quelli di arrivo.
La prospettiva transnazionale, ampiamente seguita dai sociologi delle migrazioni, non ha mancato di suscitare riserve e critiche. Tra gli storici, in particolare, è stata più volte messa in dubbio la portata euristica del concetto, come pure la pretesa originalità storica del transnazionalismo di molte migrazioni contemporanee. In particolare, oltre ad evidenziare la difficoltà a definire i contorni e i contenuti delle identità transnazionali[2], sono stati evidenziati i rischi di “de-storicizzazione” della sociologia del transnazionalismo e la necessità di una più marcata attenzione alle somiglianze e alle differenze che caratterizzano i vari periodi storici[3]. D’altra parte, è stato sottolineato che nelle realtà migratorie non esistono (e non sono mai esistiti) soggetti definibili come transnazionali; il “transnazionalismo” si definisce e di esplica infatti attraverso “pratiche” espresse e messe in atto dal basso, dai comportamenti individuali, familiari e comunitari.
In breve, più che illustrare i contenuti storicamente inediti delle migrazioni contemporanee, il transnazionalismo, costituisce una chiave di lettura utile a mettere in risalto rotture e scarti nella storia delle pratiche migratorie[4] analizzando le diverse forme di relazione che collegano gli spazi di emigrazione e di immigrazione. In tale ottica, la lettura transnazionale può costituire un utile strumento per mettere in rilievo i fenomeni di lunga durata che costellano le migrazioni umane. Lo dimostrano gli svariati contributi che negli ultimi anni hanno portato nuova linfa agli studi sull’emigrazione alpina e al suo evolvere tra la prima età moderna e il XX secolo. Proprio dalle Alpi – area a cui appartiene il territorio ticinese oggetto di questa analisi – sono d’altronde scaturiti, in anni recenti, alcuni importanti impulsi alla storia delle migrazioni europee; impulsi che hanno alimentato il dibattito attorno alle connessioni – a volte esplicite, a volte più sottili e impalpabili – tra emigrazione e demografia[5], o a quelle tra emigrazione e organizzazione sociale[6], ma soprattutto attorno alla natura delle migrazioni che il ben noto assunto braudeliano aveva qualificato quali espressione della povertà e del sovrappopolamento.
Questi impulsi hanno inoltre permesso di mettere in rilievo molti aspetti inerenti i contenuti transnazionali di numerose esperienze migratorie alpine. Basti pensare all’intima relazione che lega i luoghi di approdo e di lavoro alle comunità di partenza dei migranti e, più specificatamente, alla stretta connessione economica e affettiva che sottende la divisione dei compiti fra gli uomini che partono e le donne che restano[7] o ai movimenti di ritorno che, come le partenze, sono scandite dagli innumerevoli progetti migratori e dalla loro connessione con le logiche della riproduzione familiare[8].
Su tale prospettiva, i flussi migratori sviluppatisi in area ticinese tra il XVI e il XIX secolo costituiscono un campo di analisi particolarmente esemplificativo. Pur accomunandosi in larga misura alle pratiche migratorie presenti in gran parte dell’area alpina italiana, in questa regione esse si caricano di particolari implicazioni, dettate dal suo percorso politico-identitario. Infatti, nonostante la dominazione elvetica – debole e superficiale – non abbia intaccato l’ordinamento politico e giuridico locale costituitosi in epoca comunale, le terre ticinesi dell’epoca moderna appaiono come un territorio “intermedio”; un’area italiana nello spazio svizzero, alla quale si sovrappongono delle identità composite, modellate dall’emigrazione e segnate dalla frammentazione e dai molteplici localismi. In questo contesto, partenze e ritorni concretizzano un “transnazionalismo integrato”[9] in cui il senso di appartenenza ai luoghi di origine è nutrito dai ritorni e dalle rimesse. È d’altronde attorno a queste ultime che si esemplifica con maggior chiarezza il diffuso transnazionalismo proprio dei flussi migratori alpini[10]. Una gestione che, lungi dal riguardare unicamente l’equilibrio (micro)economico delle unità familiari e delle comunità locali, mette in gioco anche i processi identitari e di autorappresentazione individuali e collettivi. Tale aspetto permette quindi di affrontare il tema del transnazionalismo delle pratiche migratorie mettendo a fuoco i legami, non sempre lineari, tra le pratiche transnazionali e lo “spazio vissuto” degli emigranti[11].
Prima di addentrarci più dettagliatamente nella questione, è tuttavia opportuno delineare i tratti essenziali del sistema migratorio dell’area ticinese e la sua evoluzione tra il XVI e l’inizio del XX secolo.
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