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L’emigrazione nella campagna di Libia del 1911

Il Cinquantenario dell’Unità d’Italia (1911) e l’emigrazione

a cura di Giovanni Pizzorusso

Daniele Natili

 

L’emigrazione nella campagna di Libia del 1911

 

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Nel 1911 era in pieno corso la campagna di stampa volta ad orientare l’opinione pubblica italiana in favore della guerra contro la Turchia per la conquista della Libia1, la “quarta sponda” italiana2. L’emigrazione da subito divenne uno dei temi principali della propaganda nazionalista pro-tripolina. In questa sede cercheremo di ricostruire brevemente la forma che il rapporto tra emigrazione ed espansione coloniale – che nella storia d’Italia, è noto, è stato più volte oggetto del dibattito politico e pubblico3 – ha assunto in quella contingenza storica, mettendo in evidenza la funzione e il peso che tale argomento ha avuto in relazione alla mobilitazione del paese in sostegno della guerra.

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Marchemigranti. Storiografia d’emigrazione e istituzioni pubbliche nelle Marche

Si era pensato – sperato da parte di alcuni – che la “strana dimenticanza”1 della emigrazione marchigiana da parte della storiografia fosse stata superata negli anni a cavallo del 2000. Purtroppo, a giudicare dai risultati, è tempo ormai di ricredersi.
L’esperienza dell’emigrazione nella regione marchigiana è stata, in termini percentuali e in cifre assolute, molto rilevante, tanto che per alcuni anni durante il primo quindicennio del Novecento nelle classifiche regionali degli espatri, così care agli statistici, le Marche risultavano ai primissimi posti, addirittura nei primi quindici anni del XX secolo la prima regione del centro-nord, Veneto escluso, quanto a percentuali e tassi di espatrio. Fino a meno di dieci anni fa di questo incontrovertibile dato numerico (oltre che del conseguente aspetto storico-sociale) parvero non accorgersi né gli storici dell’emigrazione né tanto meno gli storici locali o regionali. I primi, probabilmente a causa della mancanza di studi locali, non dedicavano alle Marche alcuno spazio nei loro studi, neanche quando si trattava di tracciare casistiche regionali; i secondi, completamente immersi nel tentativo (peraltro anch’esso del tutto incompleto) di ricostruire la storia politica della regione, non si erano neanche accorti (salvo, naturalmente, rare eccezioni) della rilevanza storiografica di questo fenomeno che, proprio per la sua invasività nel tessuto sociale, aveva finito per alterarne gli equilibri, anche politici. Il risultato, e al tempo stesso la prova più tangibile, di questa situazione fu la pubblicazione, nel 1987, del volume della Storia delle regioni italiane dell’Einaudi2, dedicato alle Marche. A scorrerne l’indice si rimane colpiti dall’assenza di un saggio (almeno uno!) che ripercorra le tappe principali della esperienza migratoria dei marchigiani negli anni del “grande esodo”. C’è, è vero, un contributo su un flusso di emigrazione interna in età preindustriale3 e ci sono alcune righe dedicate al problema nel saggio relativo alle dinamiche della popolazione4. Ma una lettura che goda di respiro e autonomia storiografica sul problema è del tutto assente.
Inutile aggiungere che questa noncuranza della storiografia nei confronti dell’emigrazione era accompagnata dal disinteresse più totale da parte delle istituzioni locali, provinciali e regionali, che non avevano allora nei loro orizzonti amministrativi alcuna risorsa da destinare allo studio del fenomeno migratorio. Non avevano, per la verità, neanche grande lungimiranza e non erano riuscite a fiutare che di lì a pochi anni, complice un’immigrazione che anche dalle nostre parti cominciava a far sentire il proprio peso, il tema avrebbe assunto una rilevanza sociale così esplosiva da far divenire quasi “di moda” confrontarsi e fare i conti con il nostro passato di emigranti.
Fu, dunque, alla fine degli anni Novanta che si poté assistere a una vera propria inversione di tendenza. Il segnale più forte venne dall’intuizione e dall’impegno fattivo di uno storico come Ercole Sori, punto di riferimento sia (a livello internazionale) per gli studi di storia dell’emigrazione, sia (localmente) per ricerche sulla storia del territorio. Nel 1997 Sori progettò e realizzò un importante convegno dedicato alla storia dell’emigrazione marchigiana5, a cui intervennero nomi illustri della storiografia internazionale di settore (Fernando Devoto, Alicia Bernasconi, Rudolph Vecoli, solo per fare alcuni esempi) e ricercatori locali, giovani e meno giovani, appassionati con l’hobby degli archivi e professionisti della ricerca storica. Sotto il coordinamento di Sori, l’argomento venne affrontato nei suoi aspetti più vari: letture di storia economica si mescolavano e si sovrapponevano ad altre di storia politica, quadri statistici si alternavano ad aspetti della cultura e della tradizione popolare, per un totale di qualche decina di contributi, raccolti successivamente in quattro volumi di atti, curati dallo stesso coordinatore del convegno6. In quella occasione molte relazioni vennero proposte come l’inizio, il primo esito di ricerche in corso: un po’ per questo motivo, un po’ per il prevedibile “effetto trascinamento” causato da un convegno così importante, era lecito attendersi, dunque, un fiorire di studi successivi che avrebbe impegnato diversi ricercatori negli anni a venire e che avrebbe rimpinguato le esangui iniziative editoriali dedicate all’argomento. Nel frattempo anche le istituzioni sembravano essersi accorte della storia dell’emigrazione marchigiana. Nel 1998 la rivista della Giunta Regionale, “Marche” dedicò un numero monografico al tema dell’emigrazione; per l’occasione mi venne commissionato un inserto che racchiudesse alcuni articoli per un approccio storiografico, di studio e documentazione, sul tema7. Si trattava di un segnale, piccolo ma pur sempre significativo, di un’attenzione, di una presenza che la più importante istituzione regionale aveva deciso di dedicare al passato dei suoi figli emigrati all’estero. Approfittai dell’occasione per presentare un progetto forse presuntuoso, ma che ritenevo appropriato in quel momento e in quelle condizioni: la creazione di un Archivio storico dell’emigrazione marchigiana8. Si trattava di lanciare una vasta campagna di propaganda attraverso i mezzi di informazione regionali e presso le comunità di marchigiani all’estero, per raccogliere e inventariare materiale documentario della più varia natura (amministrativo o privato, recente o remoto) appartenente (o appartenuto) a emigranti marchigiani. L’idea venne raccolta da un funzionario dei beni culturali e nacque così nel 2000 l’ASEM (Archivio storico dell’emigrazione marchigiana). Il progetto prevedeva un lavoro quadriennale con un curatore scientifico (il sottoscritto che aveva elaborato il progetto), un archivista e alcuni applicati a svolgere il lavoro di segreteria. L’avvio dei lavori fu assai confortante. Non appena venne diffusa a livello regionale (in modo molto empirico e incompleto, per la verità) l’informazione relativa alla creazione dell’Archivio iniziarono a giungere contributi da privati residenti nella regione: diari, passaporti, fotografie appartenute ad emigranti marchigiani partiti con la prima grande ondata di fine Ottocento o con gli ultimi flussi migratori del secondo dopoguerra. Alcuni mesi dopo un incontro con i rappresentanti delle comunità marchigiane all’estero rivelò grande entusiasmo intorno all’iniziativa e fece affluire nel nascente Archivio altro materiale interessante, proveniente, per la maggior parte, d’oltre Oceano. Insomma sembrava la classica “mossa azzeccata”: iniziativa interessante dal punto di vista culturale e ritorno in termini di immagine e di consenso per gli apparati politici e amministrativi che la gestivano. Ma le logiche che reggono questi ultimi, come si sa, sono imperscrutabili come quelle celesti. Così al termine del primo anno di vita veniva decisa la svolta: i funzionari dell’amministrazione ritengono che la collaborazione con il curatore scientifico (nonché ideatore del progetto) sia giunta al capolinea e che non ci sia alcun bisogno di sostituirlo con un altro studioso della materia (o con una commissione scientifica). È sufficiente un servizio tecnico per mandare avanti il progetto dell’ASEM: così poco dopo anche l’archivista viene destinato ad altri compiti. Affidato soltanto a personale amministrativo, l’ASEM, dunque, non muore, ma viene trasformato in qualcosa d’altro, diventando più simile a una biblioteca che a un archivio: vengono rastrellati libri e tesi di laurea sul tema dell’emigrazione marchigiana e fotocopiati (una creatura ibrida, dunque, a metà tra la biblioteca e la copisteria). L’uso che verrà fatto di questo monte di fotocopie rimane tuttora avvolto nel mistero, ma già si mormora che si stia preparando una grande pubblicazione sulla emigrazione marchigiana (basata, dunque, non sulla ricerca d’archivio o sul reperimento di fonti inedite, ma sulle fotocopie di ricerche altrui: aspettiamo con ansia).
Intanto anche la spinta che aveva ricevuto la ricerca scientifica sembra essersi affievolita: dopo la pubblicazione degli atti del convegno del 19979, avvenuta alla fine dell’anno successivo, e il mio libro dedicato all’emigrazione marchigiana10, uscito nel 1999, per diversi anni non si registrano contributi sul tema. Quale siano i motivi di questa débacle della ricerca locale è difficile a dirsi: probabilmente molti dei giovani che avevano partecipato al convegno non hanno trovato sbocchi professionali nella ricerca storica e hanno ripiegato su occupazioni diverse, lasciando spegnere i loro interessi sul tema. D’altra parte è possibile che il mondo accademico marchigiano sia rimasto piuttosto indifferente al tema e che l’effetto trascinamento prodotto dal convegno del ’97 si sia esaurito piuttosto presto, traducendosi soltanto in qualche tesi di laurea in più sull’argomento, rispetto agli anni precedenti. In definitiva, comunque, non si è attivato quel circuito virtuoso che dovrebbe innescarsi in questi casi: le istituzioni scientifiche segnalano con le loro ricerche l’importanza o l’emergenza storiografica di un tema, le istituzioni politiche raccolgono la sollecitazione e investono risorse per sostenere la ricerca.
In compenso la storiografia nazionale sembra essersi accorta della emigrazione marchigiana (d’altra parte il presente intervento ne è la conferma) e nelle rassegne dedicate a letture regionali del fenomeno migratorio o, più in generale, all’emigrazione tout court, compare di tanto in tanto anche un intervento sulle Marche11.
Dunque siamo al paradosso: l’emigrazione marchigiana è ora riconosciuta come una realtà importante dalla storiografia nazionale e addirittura fa capolino in rassegne di studi pubblicate oltre i confini del nostro paese12, ma a livello regionale sembra di nuovo piombato il silenzio, sia istituzionale che scientifico.
Ci sono per la verità alcuni segnali che sembrerebbero contraddire questa pessimistica visione: ci riferiamo a due iniziative editoriali recenti, entrambe del 2004, due libri molto diversi tra loro e che, per differenti motivi, meritano una citazione.
Il primo libro è di Marco Moroni, docente di Storia economica presso l’Università di Ancona, e si intitola Emigranti, dollari e organetti13. Il tema è suggestivo e originale (anche se l’autore aveva anticipato alcune delle considerazioni che svolge nel libro in un paio di saggi pubblicati in precedenti occasioni14) e il libro risulta molto interessante e ben costruito: imperniato su una solida struttura di storia economica, utilizza con misura anche strumenti mutuati dalla storia sociale per costruire uno spaccato della storia del costume e dei consumi. Il tema di fondo ruota intorno al circuito almeno in parte virtuoso che dall’inizio del “grande esodo” al secondo dopoguerra si innesca tra l’emigrazione, l’esportazione di prodotti tipici (gli organetti, appunto) e il ritorno, sotto forma di rimesse, di denaro da destinare agli investimenti. L’osservatorio utilizzato da Moroni è un’area con caratteristiche sia geografiche che economiche ben definite: il distretto industriale di Castelfidardo (una cittadina nell’entroterra anconitano), tradizionalmente connotato dalla presenza di una produzione industriale ad alta specializzazione, come quella degli organetti e delle fisarmoniche (e più tardi di altri strumenti musicali, in particolare le chitarre). La fisarmonica e gli organetti erano nel primo Novecento beni di consumo popolare (anche se le statistiche li catalogano come “beni di lusso”, data la funzione non necessaria che svolgono nella vita degli individui), molto diffusi in tutta Italia, che avevano le loro radici nella cultura contadina, ma che erano state traslate in quella operaia già dalla prima fase di industrializzazione del nostro paese e trovavano la propria collocazione sul mercato in tutta la penisola. Con l’avvio dei flussi migratori il raggio di vendita dei produttori locali di questi strumenti musicali si allargò a dismisura per coprire la domanda che gli emigrati italiani suscitavano dai luoghi di espatrio, dagli Stati Uniti come dalla Francia, dall’Argentina come dalla Germania. Quando l’emigrazione dapprima cominciò a lambire e successivamente, nei primi anni del Novecento, investì in pieno anche quel distretto, insieme agli emigranti varcarono il confine anche i saperi tradizionali su cui l’industria delle fisarmoniche era basata. Ebbero così origine, soprattutto negli Stati Uniti, nuove esperienze imprenditoriali da parte di emigranti che investirono la loro manualità e i loro risparmi per avviare nei luoghi di espatrio la produzione di questi strumenti; in questa loro impresa furono sostenuti anche dalla diffusione di vere e proprie scuole di fisarmonica che tenevano vive tanto la tradizione culturale e musicale legata allo strumento, quanto la vendita (attraverso la produzione in loco e la importazione) di fisarmoniche e organetti.
In senso inverso, cioè in entrata, il confine prese ad essere attraversato, invece, dalle rimesse degli emigranti: esse andarono a irrorare il tessuto produttivo del distretto fidardense, che si trovò così nella possibilità di consolidare, o addirittura espandere, le proprie capacità produttive. Questo consentirà ad alcuni marchi di compiere il definitivo salto di qualità negli anni tra le due guerre, di affermarsi come leader mondiali nel settore e di presentarsi negli anni della ripresa e poi del boom economico del secondo dopoguerra come industrie moderne dotate di ottime qualità imprenditoriali e capaci anche di differenziare la loro produzione.
Insomma, attraverso l’originale prospettiva di questo lavoro, si intersecano interessi storiografici di differente natura: da un lato quelli relativi alla “etnicità”, al mantenimento delle culture tradizionali nel corso della esperienza migratoria e alla loro fusione con culture e modi di vita nuovi e differenti; dall’altro quelli relativi alla imprenditorialità, all’uso dei saperi manuali e delle rimesse degli emigranti15.
Il secondo libro che ha fatto la sua comparsa nel 2004 nell’asfittico panorama degli studi storici dedicati all’emigrazione marchigiana si intitola le marche e i marchigiani in argentina16 (le minuscole sono nel testo) e si deve a due ricercatori, Andrea Mulas e Giuseppina Falcucci, che si affacciano per la prima volta (a quello che mi risulta) sul tema dell’emigrazione. Diciamo subito che il risultato si discosta assai da quello raggiunto dal contributo di Moroni, sia per la solidità dell’impianto scientifico, sia per l’originalità della prospettiva dell’indagine. L’elemento originale è rappresentato da una serie di testimonianze dei protagonisti delle ultime ondate migratorie e da alcuni questionari, pubblicati in appendice, rivolti ad argentini di origine marchigiana, esponenti, dunque, della seconda o terza generazione di immigrati, figli o nipoti di marchigiani recatisi in Argentina dopo la seconda guerra mondiale o in tempi anche precedenti. Dalle risposte date emergono alcuni elementi sui quali forse gli autori avrebbero potuto soffermarsi per ricostruire alcuni aspetti della storia della emigrazione marchigiana in Argentina. Per il resto, il libro propone uno studio di tipo compilativo, nel quale non compaiono fonti di prima mano. La ricerca non viene condotta in archivio, ma per lo più su testi già pubblicati, per altro con una bibliografia incompleta.
Ma il libro in questione è interessante per un altro motivo: potremmo dire che idealmente chiude il cerchio del rapporto tra le istituzioni della ricerca e le istituzioni politiche e amministrative. Il volume è infatti impreziosito dalla presentazione del Presidente della Regione Marche (dell’ex Presidente, anzi, decaduto con l’ultima tornata elettorale) che in cinque dense pagine elenca l’interminabile serie di iniziative che la Regione e le altre istituzioni del territorio hanno svolto e continuano a svolgere a favore dei marchigiani all’estero e, in particolare, di quelli residenti in Argentina. Nel corso di questa ricca ricostruzione la più alta carica politica della Regione trova anche il modo di citare l’Archivio storico dell’emigrazione marchigiana (l’ASEM, proprio quello da cui è partita la nostra riflessione) e dice (cito testualmente): “Proprio nell’ambito del consolidamento dei vincoli con le nuove generazioni, il Servizio Tecnico alla Cultura della Regione Marche ha avviato il progetto per la costituzione dell’Archivio Storico dell’Emigrazione Marchigiana (Asem), affinché recuperi, raccolga e conservi la memoria storica degli emigranti marchigiani all’estero a partire dall’Ottocento”17. Ora, su queste parole ci sono almeno due considerazioni da fare. La prima: un progetto come questo, almeno nella sua impostazione originaria, abbisognava di una grande sensibilità e capacità di comunicare con le persone, oltre che di una competenza specifica sul campo; affidarlo ad un servizio tecnico sembra, già di per sé, un paradosso. In tutto il resto della penisola i vari centri studi e musei dell’emigrazione che sono sorti in questi anni, da San Marino a Genova, da Gualdo Tadino al Friuli, si sono dotati di una commissione scientifica composta da storici, sociologi, demografi: persone, appunto, che con le loro competenze possono contribuire a valorizzare un’esperienza del genere. Non è un caso se da queste strutture sono usciti convegni e pubblicazioni, sono state suscitate reti di ricercatori, sono stati allestiti spazi museali, sono state prodotte mostre. E soprattutto si è creato un rapporto tra tutte queste realtà: un rapporto non sempre funzionante, d’accordo, a volte soltanto formale, ma pur sempre utile a far sapere che cosa si sta facendo sul proprio territorio per questa particolare tematica e apprendere cosa stanno facendo gli altri. L’ASEM al momento è completamente tagliato fuori da tutto ciò.
La seconda considerazione è legata in parte alla prima: è evidente che un Presidente regionale non possa sapere tutto quello che accade nei singoli uffici della sua amministrazione: qualcuno dei suoi funzionari avrebbe però potuto, dovuto forse, informarlo di come erano andate le cose. Un progetto che viene avviato nel 2000 non può essere ancora, dopo quattro anni, in fase di avvio, non può non aver prodotto nessun risultato, altrimenti si deve dichiarare che si tratta di un’esperienza fallimentare e, dal momento che viene mantenuta in vita con denaro pubblico, si ha il dovere o di cambiarla o di chiuderla. Naturalmente i due giovani autori non hanno alcuna responsabilità su questo tipo di considerazioni: vale la pena, invece, che gli storici si interroghino (o se si vuole, continuino a interrogarsi, non smettano di interrogarsi) sull’uso che viene fatto del loro lavoro, un uso pubblico e politico, e su come un libro possa veicolare letture che nulla hanno a che vedere con la storia: va rilevato, infatti, che il libro in questione presenta in appendice, insieme ai questionari di cui si è detto, anche leggi regionali e risoluzioni del Consiglio regionale, decreti di Giunte comunali o provinciali, lettere a ministri della Repubblica, tutti documenti che recano la data del 2002 o del 2003: probabilmente nel pieno rispetto della par condicio, dato che questo atteggiamento nei confronti della ricerca storica è assolutamente trasversale agli schieramenti politici; ma il punto è: cosa c’entrano questi materiali con la storia?

 

Note

1 Avevo usato per la prima volta questa espressione in un breve articolo scritto nel 1998 per la rivista ufficiale della giunta regionale delle Marche, “Marche”, XXVI, 1-2(1999), pp. 31-58.
2 Sergio Anselmi (a cura di), Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. Le Marche, Torino, Einaudi, 1987.
3 Girolamo Allegretti, Marchigiani in Maremma, in Le Marche, cit., pp. 503-530.
4 Carlo Vernelli, La popolazione: una lettura di lungo periodo, in Le Marche, cit., pp. 427-451.
5 Il convegno si svolse a Fabriano e Fermo dal 20 al 22 marzo 1997.
6 Ercole Sori (a cura di), Le Marche fuori dalle Marche. Migrazioni interne ed emigrazione all’estero tra XVIII e XX secolo. Atti del convegno internazionale organizzato dall’Istituto di Storia economica e Sociologia dell’Università di Ancona, Fabriano 20 e 21, Fermo 21 e 22 marzo 1997, Quaderni di “Proposte e ricerche”, 24 (1998).
7 “Marche”, XXVI, 1-2 (1999), pp. 31-58. Collaborarono con me per la realizzazione di questo inserto la dott.sa Laura Ceccacci e la dott.sa Maila Pentucci, che scrissero alcuni degli articoli di cui esso si componeva.
8 È con un certo imbarazzo che parlo di una vicenda che mi ha visto in qualche modo protagonista. Ma mi sembra che essa sia talmente paradigmatica che potrebbe essere presa come esempio dell’uso pubblico – e politico – che della storia fanno le pubbliche amministrazioni, o meglio alcuni pubblici amministratori.
9 Le Marche fuori dalle Marche, cit.
10 Amoreno Martellini, Fra Sunny Side e la Nueva Marca. Materiali e modelli per una storia dell’emigrazione marchigiana fino alla grande guerra, Milano, Franco Angeli, 1999.
11 Si veda ad esempio Amoreno Martellini, Una strana dimenticanza: l’emigrazione marchigiana tra Otto e Novecento, “Giornale di Storia contemporanea”, III, 2 (2000); più di recente, Marco Moroni, Emigrazione, identità etnica e consumi: gli italiani d’America e la fisarmonica, “Storia e problemi contemporanei”, XVI, 34 (2003): il saggio non reca le Marche nel titolo, ma è imperniato sul rapporto economico, ma anche culturale, tra i costruttori di fisarmoniche marchigiani e gli emigranti.
12 Alicia Bernasconi, Marchigianos en Buenos Aires: trabajo y vida asociativa, «Estudios migratorios latinoamericanos », 12, 37 (1997), pp. 447-466 ; Amoreno Martellini, L’émigration des Marches et le marché du travail en France, in Mariella Colin (a cura di), L’immigration italienne en Normandie de la Troisième République à nos jours. De la différence à la transparence, “Cahier des Annales de Normandie”, 28 (1998), pp. 81-95. 
13 Marco Moroni, Emigranti, dollari e organetti, Ancona, Affinità elettive, 2004. Andrea Mulas e Giuseppina Falcucci, Le Marche e i marchigiani in Argentina, Camerino – Acquaviva Picena, Università degli Studi di Camerino, Collana del Dipartimento di Scienze giuridiche e politiche, 2004.
14 Marco Moroni, Rimesse, imprenditorialità, sviluppo: emigrazione e industrializzazione nelle Marche, in Le Marche fuori dalle Marche, cit., pp. 623-663; Id., Emigrazione, identità etnica e consumi, cit.
15 Una prospettiva analoga, ma a livello nazionale, è stata offerta anche dalla rivista “Storia e problemi contemporanei”, XVI, 34 (2003) in un fascicolo intitolato Emigrazione e consumi popolari. Oltre al saggio di Moroni già citato (Emigrazione, identità etnica e consumi), vi compaiono studi dedicati alla esportazione e alla produzione di due prodotti che per molti aspetti hanno un comportamento sul mercato simile a quello delle fisarmoniche: il vino e il tabacco (Luca Garbini, Aroma d’Italia. Emigrazione italiana e Monopolio dei tabacchi fino alla grande guerra; Alcide Beretta Curi, Emigrazione europea e paesi d’immigrazione: gli italiani nella creazione del settore vitivinicolo uruguaiano).
16 A. Mulas e G. Falcucci, Le Marche e i marchigiani in Argentina, cit.
17 Vito d’Ambrosio, Presentazione, in A. Mulas e G. Falcucci, Le Marche e i marchigiani in Argentina, cit., p. XIX.
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