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Il centenario di un cinquantenario: un’introduzione


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Il Cinquantenario dell’Unità d’Italia (1911) e l’emigrazione

a cura di Giovanni Pizzorusso

 

Giovanni Pizzorusso

Il centenario di un cinquantenario: un’introduzione

 

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Oltre il loro aspetto celebrativo, gli anniversari hanno certamente l’effetto di far riflettere gli storici di professione e, auspicabilmente, i loro lettori e commentatori riguardo al passato del loro paese. In vista del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, ci è venuta la curiosità di vedere come è stato considerato il fenomeno migratorio italiano nelle occasioni commemorative precedenti che, come è noto, seguono un ritmo cinquantennale. Il tema delle migrazioni da e in Italia, pur se attualmente risuona quasi quotidianamente nel bombardamento mediatico ed è senz’altro al centro del dibattito politico, non è di quelli che abbiano trovato nella storiografia patria una presenza costante, come è rivelato tuttora dai testi di storia per la scuola oppure dagli insegnamenti universitari. Un tema minore, si direbbe, ad onta della sua permanente centralità nella storia della società italiana. Inoltre la tradizionale, pur se ormai obsoleta, considerazione delle migrazioni come una fuga dalla povertà ne fa un tema poco attraente in un’occasione commemorativa, in un momento di esaltazione delle patrie glorie. Se però gli anniversari sono momenti di bilancio e di revisione storiografica, soprattutto nella prospettiva di valutare la diffusione di un tema nella coscienza storica collettiva, non ci pare allora inutile fare almeno un piccolo e limitato test per vedere se e quanto il tema migratorio sia stato presente nelle occasioni cinquantennali.

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Nuovo Volume: “Faccia da italiano” di Matteo Sanfilippo

Nuovo Volume: “Faccia da italiano” di Matteo Sanfilippo

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Presentazione

Agli inizi del Novecento Michel Zévaco, allora famosissimo romanziere di appendice, scrive una serie di romanzi sulla Francia fra la guerra di religione e l’ascesa al trono di Luigi XIII. In questi romanzi i “cattivi” per eccellenza sono gli emigrati italiani, anzi toscani, da Caterina de’ Medici a Concino Concini. È evidente come il ricordo di quell’emigrazione gioca ancora un ruolo in un momento, nel quale gli italiani sono di nuovo visti come sgraditi ospiti e perseguitati. Nella Francia della Terza Repubblica la caccia all’italiano sembra essere divenuto un vero sport nazionale, basti pensare al massacro di Aigues-Mortes senza dimenticare che è soltanto uno di oltre ottanta episodi di violenza contro gli immigrati.

L’eco di Zévaco dell’anti-italianismo cinque-seicentesco, molto diffuso in Francia, ma presente anche in molte altre nazioni europee, suggerisce un primo punto fermo della reazione negativa agli italiani e cioè la dimensione plurisecolare della loro diaspora e della conseguente xenofobia delle nazioni ospitanti. Troppo spesso noi riduciamo la storia dell’emigrazione dalla Penisola a circa un secolo (1870-1970), dimenticando che non soltanto questa continua ancora oggi, ma che si è formata in secoli di espatri. Altrettanto di sovente pensiamo che si sia forgiato solo nell’Ottocento il pregiudizio contro i nostri emigranti. In realtà, per la stessa dimensione della nostra presenza in Europa e nelle sue colonie, la storia della rappresentazione negativa (pigri, sfruttatori, pronti al furto se non all’omicidio) degli italiani in patria e all’estero è un fenomeno di lunga durata, che deve essere compreso su un arco temporale plurisecolare.

 

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La storia italiana è da sempre (anche) una storia di migrazioni

 
Mercoledì 16 viene inaugurata a Torino la mostra Fare gli italiani.Tra le  tredici “isole tematiche”, dedicate ad approfondire i fenomeni che maggiormente hanno influito sulla storia italiana, sono per la prima volta inseriti a pieno titolo i movimenti migratori.

Il paradigma migratorio italiano per cifre, durata, varietà di mete e di provenienze rappresenta  un fenomeno complesso che non ha ancora  avuto un’adeguata collocazione nel discorso pubblico italiano pur avendo riscosso negli ultimi anni una grande attenzione nella storiografia.
L’Italia ha visto varcare i confini nazionali 29 milioni di italiani, non tenendo conto dei rientri e delle migrazioni interne, dal momento dell’Unificazione del paese a oggiAggiungi un appuntamento per oggi. L’Italia ha partecipato con i suoi movimenti di popolazione alla prima e alla seconda globalizzazione, realtà che ha visto, e che vede, uomini e donne dalle più diverse origini emigrare nei più diversi contesti. Ma sono ancora numerosi gli stereotipi che ne accompagnano la storia. L’immaginario delle migrazioni italiane, perlomeno a livello pubblico, è rimasto a lungo legato alla grande emigrazione e alle Americhe, e solo in anni recenti l’attenzione si è estesa alle migrazioni postbelliche e all’Europa. Ci si è dimenticati spesso che tutte le regioni italiane sono state toccate dai fenomeni migratori che si sono divisi equamente tra Europa, paesi oltreoceanici  e Mediterraneo.

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Saluto alla bandiera Americana

Migrazioni in area ticinese, tra pratiche transnazionali e geometrie identitarie (XVI – inizio XX secolo)

Migrazioni in area ticinese, tra pratiche transnazionali e geometrie identitarie (XVI – inizio XX secolo)

 

Luigi Lorenzetti, Università della Svizzera italiana, Mendrisio

 

 

 

1. Emigrazioni e transnazionalismo: le prospettive della storia alpina

 

Negli ultimi anni, un innumerevole numero di studi ha individuato nel transnazionalismo il tratto distintivo delle migrazioni contemporanee[1]. Connesse al processo di globalizzazione e alla diffusione dei moderni mezzi di comunicazione, esse avrebbero acquisito forme e contenuti inediti rispetto alle migrazioni del passato e in grado di esprimere forme identitarie fondate sulla bifocalità e sullo sviluppo di campi sociali che collegano in modo sempre più diretto i paesi di partenza e quelli di arrivo.

La prospettiva transnazionale, ampiamente seguita dai sociologi delle migrazioni, non ha mancato di suscitare riserve e critiche. Tra gli storici, in particolare, è stata più volte messa in dubbio la portata euristica del concetto, come pure la pretesa originalità storica del transnazionalismo di molte migrazioni contemporanee. In particolare, oltre ad evidenziare la difficoltà a definire i contorni e i contenuti delle identità transnazionali[2], sono stati evidenziati i rischi di “de-storicizzazione” della sociologia del transnazionalismo e la necessità di una più marcata attenzione alle somiglianze e alle differenze che caratterizzano i vari periodi storici[3]. D’altra parte, è stato sottolineato che nelle realtà migratorie non esistono (e non sono mai esistiti) soggetti definibili come transnazionali; il “transnazionalismo” si definisce e di esplica infatti attraverso “pratiche” espresse e messe in atto dal basso, dai comportamenti individuali, familiari e comunitari.

In breve, più che illustrare i contenuti storicamente inediti delle migrazioni contemporanee, il transnazionalismo, costituisce una chiave di lettura utile a mettere in risalto rotture e scarti nella storia delle pratiche migratorie[4] analizzando le diverse forme di relazione che collegano gli spazi di emigrazione e di immigrazione. In tale ottica, la lettura transnazionale può costituire un utile strumento per mettere in rilievo i fenomeni di lunga durata che costellano le migrazioni umane. Lo dimostrano gli svariati contributi che negli ultimi anni hanno portato nuova linfa agli studi sull’emigrazione alpina e al suo evolvere tra la prima età moderna e il XX secolo. Proprio dalle Alpi – area a cui appartiene il territorio ticinese oggetto di questa analisi – sono d’altronde scaturiti, in anni recenti, alcuni importanti impulsi alla storia delle migrazioni europee; impulsi che hanno alimentato il dibattito attorno alle connessioni – a volte esplicite, a volte più sottili e impalpabili – tra emigrazione e demografia[5], o a quelle tra emigrazione e organizzazione sociale[6], ma soprattutto attorno alla natura delle migrazioni che il ben noto assunto braudeliano aveva qualificato quali espressione della povertà e del sovrappopolamento.

Questi impulsi hanno inoltre permesso di mettere in rilievo molti aspetti inerenti i contenuti transnazionali di numerose esperienze migratorie alpine. Basti pensare all’intima relazione che lega i luoghi di approdo e di lavoro alle comunità di partenza dei migranti e, più specificatamente, alla stretta connessione economica e affettiva che sottende la divisione dei compiti fra gli uomini che partono e le donne che restano[7] o ai movimenti di ritorno che, come le partenze, sono scandite dagli innumerevoli progetti migratori e dalla loro connessione con le logiche della riproduzione familiare[8].

Su tale prospettiva, i flussi migratori sviluppatisi in area ticinese tra il XVI e il XIX secolo costituiscono un campo di analisi particolarmente esemplificativo. Pur accomunandosi in larga misura alle pratiche migratorie presenti in gran parte dell’area alpina italiana, in questa regione esse si caricano di particolari implicazioni, dettate dal suo percorso politico-identitario. Infatti, nonostante la dominazione elvetica – debole e superficiale – non abbia intaccato l’ordinamento politico e giuridico locale costituitosi in epoca comunale, le terre ticinesi dell’epoca moderna appaiono come un territorio “intermedio”; un’area italiana nello spazio svizzero, alla quale si sovrappongono delle identità composite, modellate dall’emigrazione e segnate dalla frammentazione e dai molteplici localismi. In questo contesto, partenze e ritorni concretizzano un “transnazionalismo integrato”[9] in cui il senso di appartenenza ai luoghi di origine è nutrito dai ritorni e dalle rimesse. È d’altronde attorno a queste ultime che si esemplifica con maggior chiarezza il diffuso transnazionalismo proprio dei flussi migratori alpini[10]. Una gestione che, lungi dal riguardare unicamente l’equilibrio (micro)economico delle unità familiari e delle comunità locali, mette in gioco anche i processi identitari e di autorappresentazione individuali e collettivi. Tale aspetto permette quindi di affrontare il tema del transnazionalismo delle pratiche migratorie mettendo a fuoco i legami, non sempre lineari, tra le pratiche transnazionali e lo “spazio vissuto” degli emigranti[11].

Prima di addentrarci più dettagliatamente nella questione, è tuttavia opportuno delineare i tratti essenziali del sistema migratorio dell’area ticinese e la sua evoluzione tra il XVI e l’inizio del XX secolo.

 

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Intervista a Ettore Melani

Intervista a Ettore Melani

di Matteo Sanfilippo

 

Da due anni gira per il web Un giorno in Europa: nuove forme di emigrazione (2008), interessante documentario girato da Ettore Melani e montato da Nadia Baldi. Il filmato di quasi un’ora è dedicato ai vari aspetti e ai vari problemi della nuova emigrazione continentale under 35, seguiti ricostruendo la giornata tipo di qualcuno che si sposta per lavoro in un’altra città, un altro paese. L’autore, sulla scia del dibattito innescato dal manifesto di Claudia Cucchiarato, recentemente riportato da ASEI, ci ha proposto di rendere disponibile la sua opera e un trailer (si possono scaricare da http://www.arcoiris.tv/modules.php?name=Flash&d_op=getit&id=13328). Inoltre ci ha concesso questa intervista.

 

 

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L’immagine dell’“altro” nel rapporto tra immigrati italiani e società tedesca. Percezioni a confronto tra Otto e Novecento.

L’immagine dell’“altro” nel rapporto tra immigrati italiani e società tedesca. Percezioni a confronto tra Otto e Novecento.
Elia Morandi

 

Fonti e problemi di metodo

 

Quando, qualche tempo fa, un collega mi propose di iniziare ad occuparmi anche della questione dell’immagine dell’“altro” nel rapporto tra Gastarbeiter[1] italiani e società tedesca, mi sembrò una sfida interessante da cogliere, pur sapendo peraltro che non sarebbe stato un compito facile. Un po’ perché mi ero occupato solo tangenzialmente della questione[2], ma soprattutto perché, pur trovando l’argomento affascinante, lo ritenevo anche di assai difficile “lettura”. E il perché è presto detto. E’ innegabile che la tematica in questione, per i riflessi che ha sulle prospettive e le opportunità dei migranti nel paese ospite, sia ormai ineludibile in ogni discorso serio sull’emigrazione, ma come affrontarla? March Bloch nel suo Apologia della storia sosteneva che “i fatti umani sfuggono alle determinazioni matematiche” e che “dov’è impossibile calcolare, bisogna suggerire”[3]. Ora, mi sembra che nel caso dell’argomento che qui ci interessa la necessità di “suggerire” sia davvero massima. Che cosa si intende per percezione dell’“altro”? Esiste la percezione dell’“altro”, uguale per tutti, o si tratta di una faccenda più soggettiva? E ancora, chi è che percepisce chi? Se sono gli italiani a percepire i tedeschi, di quali italiani si tratta? Di quelli di Trento o di quelli di Palermo? O magari di quelli di Palermo emigrati a Monaco di Baviera? E quali tedeschi percepiscono? Quelli conosciuti sui libri o il collega alla catena di montaggio della Volkswagen? E se sono i tedeschi a percepire gli italiani, di che tedeschi si tratta? Del proprietario di un’azienda o di un operaio? Di un protestante del nord del paese o di un cattolico del sud? Di una persona che parla per sentito dire o per esperienza diretta? Può inoltre cambiare la percezione? E se cambia, come cambia?

 

 

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