L’immagine dell’“altro” nel rapporto tra immigrati italiani e società tedesca. Percezioni a confronto tra Otto e Novecento.
Elia Morandi
Fonti e problemi di metodo
Quando, qualche tempo fa, un collega mi propose di iniziare ad occuparmi anche della questione dell’immagine dell’“altro” nel rapporto tra Gastarbeiter[1] italiani e società tedesca, mi sembrò una sfida interessante da cogliere, pur sapendo peraltro che non sarebbe stato un compito facile. Un po’ perché mi ero occupato solo tangenzialmente della questione[2], ma soprattutto perché, pur trovando l’argomento affascinante, lo ritenevo anche di assai difficile “lettura”. E il perché è presto detto. E’ innegabile che la tematica in questione, per i riflessi che ha sulle prospettive e le opportunità dei migranti nel paese ospite, sia ormai ineludibile in ogni discorso serio sull’emigrazione, ma come affrontarla? March Bloch nel suo Apologia della storia sosteneva che “i fatti umani sfuggono alle determinazioni matematiche” e che “dov’è impossibile calcolare, bisogna suggerire”[3]. Ora, mi sembra che nel caso dell’argomento che qui ci interessa la necessità di “suggerire” sia davvero massima. Che cosa si intende per percezione dell’“altro”? Esiste la percezione dell’“altro”, uguale per tutti, o si tratta di una faccenda più soggettiva? E ancora, chi è che percepisce chi? Se sono gli italiani a percepire i tedeschi, di quali italiani si tratta? Di quelli di Trento o di quelli di Palermo? O magari di quelli di Palermo emigrati a Monaco di Baviera? E quali tedeschi percepiscono? Quelli conosciuti sui libri o il collega alla catena di montaggio della Volkswagen? E se sono i tedeschi a percepire gli italiani, di che tedeschi si tratta? Del proprietario di un’azienda o di un operaio? Di un protestante del nord del paese o di un cattolico del sud? Di una persona che parla per sentito dire o per esperienza diretta? Può inoltre cambiare la percezione? E se cambia, come cambia?
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